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Cass., 11 novembre 2004, n. 24001: la contrarietà all’ordine pubblico delle certificazioni estere che, in caso di ricorso alla pratica della surrogazione di maternità, vietata dalla legge italiana, riconoscono lo status di genitori del nato in capo ai com

di Emanuele Bilotti Due coniugi italiani, trovandosi entrambi nell’impossibilità di concepire un figlio, hanno tentato a più riprese la strada dell’adozione senza successo. Le tre domande di adozione presentate nel corso del tempo dalla coppia sono state infatti respinte, essendo state in ogni caso ravvisate in essa «grosse difficoltà nella elaborazione di una sana genitorialità adottiva». I due coniugi hanno allora pensato di soddisfare il proprio desiderio di essere genitori col ricorso alla pratica della surrogazione di maternità, che – com’è noto – è però tuttora vietata dalla legge italiana, segnatamente dall’art. 12, co. 6, l. 19 febbraio 2004, n. 40. I due coniugi italiani si sono dunque recati in Ucraina, dove sono riusciti a ottenere la formazione di un certificato di nascita dal quale risultava come figlio della coppia il nato da una madre surrogata ucraina con l’impiego di gameti maschili e femminili proveniente da terzi non identificati. E ciò nonostante che la legge ucraina consenta la pratica della surrogazione di maternità solo a condizione che almeno il 50% del patrimonio genetico del nascituro provenga dalla coppia committente. Il certificato di nascita in questione, al fine di attestarne l’autenticità, è stato quindi debitamente “apostillato” presso l’autorità ucraina competente secondo quanto previsto dalla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 “riguardante l’abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri”, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 20 dicembre 1966, n. 1253. A questo punto i due coniugi hanno provato a trascrivere in Italia il certificato di nascita ucraino. Sono stati però sottoposti a procedimento penale per il delitto di alterazione di stato di cui all’art. 567 cod. pen., sospettandosi la falsità della dichiarazione di nascita da essi resa. È emerso infatti che, prima della nascita, la donna è stata sottoposta a un intervento di asportazione dell’utero (isterectomia) e che l’uomo è affetto da oligospermia. In conseguenza dell’avvio del procedimento penale, il Pubblico Ministero presso il competente Tribunale per i minorenni ha proposto ricorso per la dichiarazione dello stato di adottabilità del minore e il Tribunale ha disposto senz’altro in tal senso dopo aver accertato che coloro che risultavano essere i genitori dalla dichiarazione di nascita non erano affatto tali. A questo punto, il minore nato in Ucraina, non essendo figlio della coppia da cui pure era accudito, non risultava assistito né dai genitori né da altri parenti entro il quarto grado e versava perciò in quella situazione di abbandono morale e materiale, indicata dall’art. 8, l. 4 maggio 1983, n. 184, quale presupposto per la dichiarazione dello stato di adottabilità. Avverso la decisione del Tribunale i due coniugi hanno proposto appello. Anche il giudice dell’appello ha però confermato la decisione del Tribunale. E ciò perché il certificato di nascita ucraino, benché debitamente “apostillato”, non può comunque essere riconosciuto in Italia in base a quanto disposto dall’art. 65, l. 31 maggio 1995, n. 218. Quest’ultima disposizione esclude infatti qualsiasi efficacia nell’ordinamento interno di provvedimenti stranieri sull’esistenza di rapporti di famiglia laddove se ne ravvisi la contrarietà all’ordine pubblico. E, a giudizio del giudice dell’appello, stante il divieto della pratica di qualsiasi forma di surrogazione di maternità di cui all’art. 12, co. 6, l. 40/2004 cit., il certificato ucraino in questione deve senz’altro considerarsi contrario all’ordine pubblico. La decisione resa in appello è ora confermata anche dalla Corte di Cassazione. La motivazione della sentenza della Suprema Corte precisa alcuni importanti principi di diritto in ordine alla questione del riconoscimento nell’ordinamento italiano del rapporto di filiazione risultante dalla certificazione estera di una nascita conseguente al ricorso alla pratica della surrogazione di maternità. In particolare, è opportuno segnalare almeno le seguenti statuizioni. La Corte di Cassazione chiarisce anzitutto che non è corretto ritenere che un atto formato in uno dei Paesi aderenti all’indicata Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961 possa essere pienamente efficace in Italia per il semplice fatto di essere stato debitamente “apostillato”. I giudici della Suprema Corte precisano infatti che «l’apostille… attesta soltanto l’autenticità del documento…, non certo la sua efficacia nell’ordinamento italiano, che è disciplinata… dalla l. n. 218 del 1995, il cui art. 65 prevede, fra l’altro, il limite dell’ordine pubblico… ». Sempre secondo la Suprema Corte, poi, non si può neppure sostenere che non basta la violazione del divieto di cui all’art. 12, co. 6, l. 40/2004 cit. al fine di ritenere la contrarietà all’ordine pubblico della certificazione straniera della genitorialità della coppia committente in caso di nascita da madre surrogata. I ricorrenti adducono invero che l’ordine pubblico non coincide con il cd. ordine pubblico interno, e cioè con qualsiasi norma inderogabile dell’ordinamento italiano. Quel limite dovrebbe piuttosto identificarsi con l’ordine pubblico internazionale, costituito dai soli principi fondamentali caratterizzanti l’atteggiamento etico-giuridico dell’ordinamento in un determinato periodo storico. Al fine di valutare la contrarietà o meno all’ordine pubblico della certificazione straniera della genitorialità dei committenti in caso di nascita da madre surrogata, bisognerebbe allora tener conto delle dichiarazioni e convenzioni internazionali ispirate alla protezione dei minori e dei principi costituzionali in tema di protezione dell’infanzia. In forza di quelle dichiarazioni e di quei principi dovrebbe allora ritenersi che, a prescindere dalla nullità dei contratti di maternità surrogata prevista dalla legge italiana, una volta che certi contratti abbiano avuto esecuzione, che il bambino sia nato e che sia stato accolto dalla coppia committente, ciò che conta è solo assicuragli di conservare gli stessi genitori che ha avuto sin dalla nascita. L’accertamento della genitorialità dei committenti in caso di maternità surrogata non sarebbe allora in alcun modo contrastante col limite dell’ordine pubblico. A una simile argomentazione la Suprema Corte oppone però che non è affatto corretto ritenere che l’ordine pubblico debba identificarsi unicamente con i valori condivisi dalla comunità internazionale, valori che il prudente apprezzamento del giudice non potrebbe trascurare e che dovrebbe anzi armonizzare col sistema interno. Infatti, a dire dei giudici di legittimità, l’ordine pubblico rappresenta «il limite che l’ordinamento nazionale pone all’ingresso di norme e provvedimenti stranieri, a protezione della sua coerenza interna; dunque non può ridursi ai soli valori condivisi dalla comunità internazionale, ma comprende anche principi e valori esclusivamente propri, perché fondamentali e (perciò) irrinunciabili. È peraltro evidente – prosegue la Suprema Corte – che, nella individuazione di tali principi, l’ordinamento nazionale va considerato nella sua completezza, ossia includendovi principi, regole ed obblighi di origine internazionale o sovranazionale». In ogni caso, secondo i giudici di legittimità, «il divieto di pratiche di surrogazione di maternità è certamente di ordine pubblico, come suggerisce già la previsione della sanzione penale, di regola posta appunto a presidio di beni giuridici fondamentali». In effetti, si osserva ulteriormente che «vengono qui in rilievo la dignità umana – costituzionalmente tutelata – della gestante e l’istituto dell’adozione, con il quale la surrogazione di maternità si pone oggettivamente in conflitto perché soltanto a tale istituto, governato da regole particolari poste a tutela di tutti gli interessati, in primo luogo dei minori, e non al mero accordo delle parti, l’ordinamento affida la realizzazione di progetti di genitorialità priva di legami biologici con il nato». I giudici della Suprema Corte rilevano poi che «neppure può sostenersi che il divieto in discussione si pone in contrasto con la tutela del superiore interesse del minore, da considerarsi preminente “in tutte le decisioni relative ai fanciulli, di competenza sia delle istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali, delle autorità amministrative o degli organi legislativi” ai sensi dell’art. 3 della Convenzione di New York [sui diritti dell’infanzia del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con l. 27 maggio 1991, n. 176]». E ciò perché – si afferma – «il legislatore italiano… ha considerato, non irragionevolmente, che tale interesse si realizzi proprio attribuendo la maternità a colei che partorisce e, affidando, come detto, all’istituto dell’adozione, realizzata con le garanzie proprie del procedimento giurisdizionale, piuttosto che al semplice accordo delle parti, la realizzazione di una genitorialità disgiunta dal legame biologico». Da ultimo, è opportuno evidenziare anche che, sempre secondo la Suprema Corte, neppure dalle due recenti pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 26 giugno 2014 (Mennesson c. Francia, ric. n. 65192/11 e Labassee c. Francia, ric. n. 65941/11) possono trarsi argomenti per ritenere la non contrarietà all’ordine pubblico di una certificazione straniera che, in caso di nascita da madre surrogata, accerti la genitorialità in capo ai committenti. La Corte di cassazione rileva infatti che in nessun modo quelle decisioni hanno affermato il diritto del nato mediante surrogazione di maternità ad essere riconosciuto figlio della coppia committente. Si chiarisce piuttosto «che in dette sentenze la Corte [di Strasburgo] ha riconosciuto un ampio margine di apprezzamento discrezionale ai singoli Stati sul tema della maternità surrogata, in considerazione dei delicati interrogativi di ordine etico posti da tale pratica, disciplinata in maniera diversa nell’ambito dei paesi membri del Consiglio d’Europa, e ha ravvisato il superamento di detto margine nel difetto di riconoscimento giuridico del rapporto di filiazione tra il nato e il padre committente allorché quest’ultimo sia anche padre biologico». 17 novembre 2014

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