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Il volume “L’abuso del diritto” e il ricordo di Davide Messinetti. Uno scritto del Prof. Mario Barcellona

Roma TrE-Press, il progetto editoriale dell’Università degli Studi Roma Tre, ha di recente pubblicato il volume “L’abuso del diritto”, curato dal Professor Giuseppe Grisi e dedicato alla memoria del Professor Davide Messinetti. Il volume è il frutto di una giornata di studi organizzata dal Dottorato in Discipline giuridiche dell’Università Roma Tre e svoltasi il 24 aprile 2018, ad un anno dalla scomparsa del Professor Messinetti.

Il volume (PDF) può essere scaricato liberamente cliccando qui.

Diritto Mercato Tecnologia riporta di seguito un testo in ricordo del Professor Messinetti scritto da Mario Barcellona, Professore ordinario presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catania e autore del saggio Davide Messinetti e l’abuso del diritto, contenuto nel volume.

Davide Messinetti e la sua Università
di Mario Barcellona

Un ricordo di Davide Messinetti, all’altezza di quello che ha rappresentato per la civilistica italiana, avrebbe richiesto di ripercorrere le tappe della Sua produzione scientifica: dalla prima monografia sulla Oggettività giuridica delle cose incorporali, attraverso le voci dell’Enciclopedia del diritto sui Diritti della personalità e sull’Oggetto dei diritti, fino alle numerose e dense riflessioni degli anni successivi sui temi della responsabilità civile, sulla teoria generale del diritto e su quel loro incrocio operativo, che è la dottrina dell’Abuso del diritto. Proprio al senso che la riflessione di Davide Messinetti sull’Abuso racchiude ed all’importanza che essa riveste per la comprensione del sistema del diritto privato ho dedicato il mio saggio sulla raccolta di scritti che lo ricorda. Per questo non mi sembra utile ripetere qui le mie considerazioni. E vorrei utilizzare lo spazio che avrebbero occupato parlando un po’ più a lungo di Davide e della sua università, attraverso le immagini della mia memoria.

La prima volta che incontrai Davide Messinetti fu sulle scale della Facoltà di giurisprudenza di Roma, della vecchia Sapienza, la sua casa. Mi ero appena laureato e accompagnavo mio fratello, Pietro, che andava a trovare (meglio: a rendere omaggio a) Rosario Nicolò. Davide Messinetti gli spiegò per filo e per segno come doveva presentarsi, cosa non avrebbe dovuto fare e come sarebbe stato meglio che dicesse le cose che aveva da dirgli. Pietro andò ed io rimasi con Davide. Ero poco più di un ragazzo, ma quel breve tempo passato con Lui bastò a farmi vedere un mondo, che da lì a qualche anno sarebbe scomparso. Ne avevo sentito parlare, e ne avrei sentito parlare dopo ancora di più, per via dei moltissimi aneddoti che, nelle cene dei convegni, si solevano ripetere di questo o quel vecchio Maestro. Ma da Davide Messinetti, in quel breve tempo, ne ebbi un’immagine di altro spessore. Un’immagine che investiva lo stesso modo di essere di quanti erano coinvolti in quella vecchia Accademia, le relazioni personali che vi si stabilivano tra maestri ed allievi, quelle degli allievi tra loro e quelle tra i loro maestri, e soprattutto il senso di appartenenza ad una comunità di pensiero che imponeva doveri e limiti.

Tre cose in quel breve tempo mi impressionarono, che poi avrei scoperto essere tre aspetti inscindibili del suo modo di concepirsi come professore, e come uomo.

Innanzitutto, il legame critico, che avvertiva verso il suo Maestro, Rosario Nicolò. Un legame che era fatto di intensa affettività, di radici calabre, di considerazione per le qualità scientifiche di questo “campione” della civilistica italiana, per il formidabile intuito che manifestava in quel che diceva a prescindere da come lo diceva e di ammirazione per il temperamento sanguigno e comunicativo che ne faceva – come Davide spesso ripeteva – un “grande avvocato”. Non ho conosciuto Nicolò (se non per qualche battuta che mi rivolse quando, quasi imberbe, andai a portargli la “provvisoria” del mio primo lavoro). Non so, perciò, quanto quel che Davide mi aveva detto corrispondesse al modo in cui era realmente il suo celebre maestro. Ma so, perché mi fu subito chiaro, che quel che Davide ne diceva era quello che Davide pensava di sé, il modo in cui si concepiva. E così era: conosceva solo affetti profondi, intensi, ma anche cordiali disistime; le sue qualità scientifiche erano eccezionali, espresse a volte in modo complicato ma rette da un’intuizione che lo portava a cogliere “quello di cui in realtà si parlava” dove gli altri inseguivano ancora apparenze, e con una rapidità che lasciva di stucco; e il suo temperamento era, insieme, caloroso e rovente, parlava con piccoli gesti, misurati, oltre che con le parole, ma una causa giusta diventava per Lui una crociata.

Il legame che aveva con Nicolò era forte, ma anche critico. Critico, però, nel senso, del tutto insolito in quel mondo, che se riteneva che qualche scelta universitaria del maestro non fosse quella giusta, non aspettava di incontrarlo in Facoltà, ma andava subito a studio e, con viso severo e corrucciato, gliela contestava, dicendo pane al pane e vino al vino. Questo me lo hanno raccontato gli altri, i suoi compagni d’università, Giovanni Ferri, Adolfo Di Maio e Stefano Rodotà, con divertimento ma anche con un po’ di gelosa sorpresa. Ma si intuiva già nel modo in cui mi parlò in quell’occasione, un modo fatto di divertita ironia, in apparenza anche tagliente ma mai intesa a ferire, e di sorridente autoironia, espressioni del metro sicuro con cui guardava agli altri ed a sé stesso.

L’altra è una cosa che è ormai scomparsa, che non sembra più di questo mondo, il riconoscimento dell’altro. Di tutti quelli che si aggiravano in quel mondo, ma non solo in esso, Davide si faceva un’idea precisa, fondata su di un intuito incredibile e su di una intensità dell’osservazione fuori dall’ordinario. A ciascuno dava il suo, di merito e di demerito. Solo che lo faceva fuori dalle categorie amico/nemico. Poteva voler bene anche a chi non considerava – come diceva Lui – “una cima”, ma mai si sottraeva a riconoscere l’intelligenza e il valore anche di chi per altri aspetti non apprezzava. E l’intelligenza e il valore, infatti, erano per Davide qualità delle quali si aveva da dare atto fino in fondo e senza remore, anche quando ad altri poteva sembrare che non convenisse, anche quando altri ne avrebbero fatto volentieri a meno. Così come non si esimeva dal giudicare apertamente – come Lui diceva – “un fesso” chi pur veniva circondato dell’ammirazione di altri “fessi” o da “servo omaggio”. Di solito Davide non sbagliava, ma quando riteneva di non aver colto nel segno trovava sempre il modo di dirlo. E così era, ed è rimasto, Davide, in un mondo accademico dove, dopo la scomparsa dei vecchi Gattopardi, chi presume di sé (e cioè pressoché tutti), per lo più, si dedica solo, con assiduità degna di miglior causa, a sbassare chi sembra emergere e ad alzare quanti appaiono di basso profilo.

La terza cosa che colsi in quell’occasione fu la generosità disinteressata di quel mondo che stava scomparendo e che Davide Messinetti possedeva in una misura anche per quel tempo straordinaria. Era un tempo quello, nel quale, durante i concorsi a cattedra, i maestri non lesinavano, anche da fuori, il loro appoggio a chi pur non faceva parte della loro “scuola”, si spendevano senza limiti per chi ritenevano bravo, senza che ne venisse loro alcunché, solo nel nome della scienza e dell’intelligenza. Certo, poteva accadere anche in quel tempo che un capo-scuola promuovesse un suo allievo che non era proprio all’altezza degli altri concorrenti, ma non avrebbe mai sostenuto che era più bravo e si sarebbe fatto in quattro nel concorso successivo per assicurare la vittoria di chi fosse risultato sacrificato. Davide era il prototipo di questo modo di intendere l’università, e chi scrive può testimoniarlo di persona.

Non rividi Davide Messinetti per molto tempo, divenni “grande”, mi sposai, avevo un carattere tra il timido e l’orgoglioso che mi spingeva a non frequentare molto i convegni, studiavo e scrivevo. E nei primi concorsi cui mi presentai andai incontro a sonore sconfitte. Il mondo che Davide Messinetti, diversi anni prima, mi aveva rappresentato non c’era più. L’università era un’altra cosa.

Queste delusioni non sono state un male: lo dico con sincerità e convinzione. Perché hanno temprato – io credo – le mie qualità di giurista. Ma soprattutto perché mi hanno fatto incontrare di nuovo Davide Messinetti.

Fu Davide a cercarmi quando tutto sembrava volgere al peggio. Ad adottarmi come suo “figlio accademico” ed a dirmi che si sarebbe candidato per me. Entrò in commissione e vinsi il concorso.

Nacque così un’amicizia, intensa, profonda, che ha coinvolto, con una ricchezza che non ha parole, la mia famiglia e Nicoletta, la moglie di Davide.

Per circa trent’anni ci siamo sentiti al telefono quasi ogni giorno, con la santa sopportazione di Nicoletta, e di mia moglie, che spesso aspettavano sull’uscio che terminassimo finalmente le nostre conversazioni.

Con Davide, e per merito suo, ho passato a Cortina le vacanze più belle e serene, ospite di un suo amico, Ferruccio, che mi aveva chiesto di difendere in una causa complicata. Con un seguito di telefonate lunghissime, nel corso delle quali studiavamo come rendere più efficaci le difese. Era incredibile Davide, alzava sempre l’asticella dei miei ragionamenti, suggerendomi argomenti che, di prim’acchito, sembravano azzardati e che, però, si rivelavano sempre centrati. Operava sulla mia testa come una trivella, fino a trovare quel che voleva.

Con Davide parlavamo molto dell’università, spesso sconsolati, e di diritto. Di quello che stavamo studiando e di quello che si veniva leggendo. Spesso mi mandava libri “pretenziosi”, zeppi di sottolineature, osservazioni ed esclamazioni, che si concludevano a volte con un “ma come si può?”. Muovevamo da universi culturali diversi, Davide ed io. Davide da un’attenzione alle forme giuridiche che gli veniva da Nicolò, e dalla scuola messinese di cui il suo maestro era figlio. Io da un funzionalismo coniugato con la storia, che mi veniva dallo studio di Marx e di Weber. Ho fatto un lungo lavoro, ed ho scritto un libro di quasi 600 pagine, per mettere insieme queste cose. Ma, con l’aiuto di Davide, ci sono riuscito. Alla fine eravamo d’accordo: la forma giuridica incorpora una funzione materiale, sicché a partire dalla forma si comprendono l’universo giuridico, le società che regola e le prestazioni che loro offre.

Ma con Davide non si parlava solo di università e di diritto. Avevamo insieme due altre grandi passioni, la politica e il calcio.

Davide veniva da una lunga tradizione di sinistra. Suo Padre era uno dei dirigenti più importanti del P.C.I. calabrese, medico dei poveri e senatore per diverse legislature. E Davide sentiva la sinistra nelle vene. Io venivo da una militanza più recente, ma altrettanto sentita. Gli andamenti della sinistra erano, così, croce e delizia nelle nostre lunghe discussioni politiche, che si svolgevano nel canzonatorio scetticismo di Nicoletta.

Come lo erano, croce e delizia, le partite di Crotone e Catania cui dedicavamo le nostre telefonate domenicali.

Se ne è andato Davide, e ci ha lasciato più poveri.

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