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Perché “spezzare” i colossi tecnologici non è la soluzione. L’opinione di Bruno Saetta

(Via Valigia Blu)

Pochi giorni fa la senatrice americana e candidata per le prossime elezioni, Elizabeth Warren, pubblica un articolo nel quale sostiene la tesi che occorre “spezzare” le piattaforme del web, i Big Tech. Secondo Warren le aziende del web sono ormai troppo grandi, e usano il loro potere per eliminare la concorrenza e le aziende più piccole, e per sostituire i loro interessi finanziari agli interessi del popolo americano. Per ripristinare l’equilibrio occorre promuovere nuove forme di concorrenza, per alimentare l’innovazione occorre “spezzare” le più grandi aziende tecnologiche americane.

L’eco dell’intenzione della Warren si è sentita fin nel cuore dell’Europa, dove parecchi avranno avuto un sussulto all’idea di poter cavalcare l’onda di un movimento che vede nelle grandi aziende del web il “nemico” da abbattere. Un movimento che, in verità, già da tempo ha imbarcato numerosi supporter, dall’industria del copyright, per decenni assolutamente impermeabile alla Rete e incapace di adattarsi alle nuove tecnologie, all’editoria, anch’essa alle prese con una crisi strutturale determinata, tra l’altro, dall’incapacità di trovare un modello di business che sia valido nell’ambiente digitale, preferendo un sistema alimentato dalla pubblicità che sposta necessariamente il focus dalla notizia al modo di presentarla al pubblico, oscillando sempre più spesso tra propaganda e fake news.

L’idea della senatrice non presenta, in realtà, effettive novità, ma ha il pregio di attualizzare un discorso piuttosto risalente nel tempo. Secondo lei le piattaforme, infatti, sarebbero public utility (come l’energia e il gas per capirci), e quindi dovrebbero sottostare a rigide regole antitrust, prima di tutte la separazione tra piattaforma e servizi (appunto, come accade per il gas e l’energia). Dovrebbero, inoltre, impegnarsi a soddisfare degli standard minimi di trattamento equo e non discriminatorio verso gli utenti (qualsiasi cosa questo significhi).

L’idea della separazione tra piattaforma e servizi è, per essere precisi, la medesima alla base delle regole antitrust attuali. Ma la normativa antitrust pretende, per un intervento regolatorio, che vi sia un abuso della posizione dominante. Cosa che, ad esempio, si è avuto con riferimento a Google, multata nel 2017 perché favoriva il proprio prodotto (Google Shopping) sulla propria piattaforma (Google Search). Un intervento in assenza di abuso sarebbe difficile da giustificare.

Se approfondiamo i contenuti della proposta emergono numerosi dubbi. La tecnologia è qualcosa di estremamente dinamico. I monopoli nel settore cambiano piuttosto velocemente. Basti pensare a MySpace, una volta monopolio per i social (era solo il 2007), oggi praticamente scomparso. Le attuali Big Tech si sono di fatto consolidate in un periodo piuttosto breve, dieci o venti anni al massimo, e non è detto che tra altri dieci anni il panorama non possa essere completamente diverso, specialmente con l’ingresso di attori di altri paesi nel mercato (a meno di interventi protezionistici da parte dei governi).

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