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Un “adeguato bilanciamento” dei diritti contro la pandemia. Intervista a Giusella Finocchiaro e Filippo Vari

Nel rapporto Sorveglianza territoriale e tutela della salute pubblica, redatto dal Gruppo di Lavoro Bioetica COVID-19, si legge che «in situazioni emergenziali, le misure di controllo poste in essere per la tutela della salute pubblica possono imporre restrizioni al singolo individuo, tracciando nuovi e temporanei confini alla sua libertà».

Diritto Mercato Tecnologia ha approfondito la questione con Giusella Finocchiaro, professoressa di Diritto di internet e di Diritto privato nell’Università di Bologna, e con Filippo Vari, professore di Diritto costituzionale all’Università Europea di Roma.

Il rapporto sottolinea che «nell’implementazione dei singoli interventi è necessario che sia sempre garantito un adeguato bilanciamento tra l’efficacia epidemiologica e il rispetto dei diritti fondamentali delle persone». Che cosa si intende per «adeguato bilanciamento» e come è possibile garantirlo?

G.F.: Il bilanciamento è al cuore del Regolamento europeo.

Per “bilanciamento” si intende la ricerca di un equilibrio fra diritti che sono astrattamente parimenti applicabili e meritevoli di protezione.

Il bilanciamento è prospettato sin dal titolo del Regolamento (UE) 2016/679 (“GDPR”) che coniuga la protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e la libera circolazione di questi ultimi.

Nel testo del GDPR vi sono molteplici esempi di questo contemperamento: basti pensare alla disposizione secondo cui per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, ove prevalga l’interesse collettivo (ad esempio, alla protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero), il trattamento dei dati potrà considerarsi lecito.

Un altro esempio è offerto in materia giuslavoristica: il GDPR sancisce la legittimità del trattamento di dati ove questo sia necessario per finalità di valutazione della capacità lavorativa del dipendente. In questo caso, il bilanciamento opera tra la protezione dei dati personali e l’interesse datoriale a conoscere l’idoneità lavorativa del proprio dipendente e viene risolto dal legislatore europeo attribuendo preminenza all’interesse individuale del datore di lavoro ad accertare la potenzialità lavorativa dell’interessato in termini di capacità psico-fisiche, attitudinali e tecnico-professionali.

Dunque, in certe situazioni, il diritto alla protezione dei dati personali si bilancia con altri diritti e ad altre libertà considerati, alla luce delle circostanze del caso, parimenti meritevoli di tutela.

Tuttavia, affinché tale bilanciamento sia legittimo, occorre che, fuori dai casi già normati dal Regolamento europeo come quelli cui prima si è fatto cenno, esso sia effettuato con uno strumento normativo adeguato e nel rispetto del principio di proporzionalità (ad esempio, per un periodo di tempo limitato, trattando soltanto i dati necessari).

F.V.: La pandemia di COVID-19 ha rappresentato e rappresenta per l’Italia la sfida più delicata dalla seconda guerra mondiale.

Nel nostro Paese, e in realtà anche in quasi tutte le liberal-democrazie dell’Occidente, abbiamo assistito a una serie di interventi normativi, che hanno imposto limitazioni al godimento dei diritti fondamentali. In Italia siamo arrivati, sia pure senza mai superarlo, al limite di quanto tollerato dalla Costituzione. Pensiamo alla libertà di circolazione, a quella di riunione, alla libertà di culto e a quella d’iniziativa economica. Siamo rimasti, però, ci tengo a ribadirlo con convinzione, nei limiti di quanto previsto dalla Costituzione. La Carta fondamentale prevede il limite espresso della sanità o della incolumità pubblica per esempio nell’art. 16 Cost. per la libertà di circolazione e nell’art. 17 Cost. per quella di riunione. Di fronte a un virus che si trasmette con estrema facilità non c’era alternativa all’isolamento, che da sempre è lo strumento con cui si affrontano queste situazioni e oggi viene chiamato lockdown.

Il fine delle restrizioni ai diritti di libertà è stato quello di garantire la vita e la salute dei consociati. Ricordo che i filosofi della politica moderni rinvengono proprio nella garanzia della salute e del bene comune la ragione e la giustificazione della nascita dello Stato moderno. Il diritto alla vita costituisce il primo dei diritti e il presupposto per il godimento di tutti gli altri.

Posta, dunque, la legittimità del fine perseguito con il lockdown, le limitazioni che sono state imposte ai diritti fondamentali sono state proporzionate ‒ come dovevano e devono ‒ rispetto a tale fine. Quanto, poi, all’analisi costi/benefici, con il lockdown abbiamo salvato tante vite, soprattutto delle persone più deboli e malate. E ciò è sufficiente a giustificare pienamente le misure prese, che, ripeto, sono in linea con quanto previsto dalla Costituzione.

Il rapporto sottolinea anche che «una eventuale deroga alle garanzie costituzionali per la protezione dei dati si deve sempre intendere come concomitante allo stato d’emergenza e che, cessata l’emergenza, tutte le garanzie costituzionali devono tornare in essere tali quali erano prima». Quali ordinanze sono state adottate con la dichiarazione dello stato d’emergenza, e cosa prevedono?

G.F.: Sono molteplici le disposizioni adottate dal Governo per contrastare e contenere la diffusione del COVID-19 che intersecano profili di protezione dei dati personali.

Un esempio tra tutti è offerto dalle disposizioni contenute nel “Protocollo condiviso di regolazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus COVID-19 negli ambienti di lavoro”, aggiornato al 24 aprile 2020. Qui, tra le misure che il datore di lavoro può implementare, è prevista espressamente la rilevazione della temperatura corporea dei lavoratori all’accesso al luogo di lavoro. È evidente che la rilevazione in tempo reale della temperatura corporea costituisce un trattamento di dati personali. Dunque, al fine di contemperare l’esigenza di prevenzione e di controllo sanitario con il diritto alla protezione dei dati personali, è stata prevista la possibilità di rilevare la temperatura ma non di registrare il dato acquisito, limitando l’eventualità di identificare l’interessato e registrare il superamento della soglia di temperatura solo qualora sia necessario a documentare le ragioni che hanno impedito l’accesso ai locali aziendali. Ovviamente, in osservanza della vigente normativa, i datori di lavoro sono tenuti a fornire l’informativa sul trattamento dei dati personali.

Ancora, l’art. 17-bis del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 autorizza espressamente determinati soggetti, tra cui strutture pubbliche e private sanitarie, al trattamento (compresa la comunicazione tra loro) dei dati personali e di quelli relativi alle categorie particolari, ove risulti necessario all’espletamento delle funzioni ad essi attribuite nell’ambito dell’emergenza sanitaria. Tuttavia, la medesima norma dispone che tali trattamenti debbano essere effettuati nel rispetto dei princìpi fondamentali della protezione dei dati, adottando misure appropriate a tutela dei diritti e delle libertà degli interessati, e che al termine dello stato di emergenza occorrerà “ricondurre i trattamenti di dati personali effettuati nel contesto dell’emergenza all’ambito delle ordinarie competenze e delle regole che disciplinano i trattamenti di dati personali”.

Non si può tacere poi del caso Immuni. In questo caso, il d.l. 30 aprile 2020, n. 28 e i pareri del Garante per la protezione dei dati personali 29 aprile 2020 n. 79 e 1° giugno 2020 n. 95 disciplinano un trattamento volontario e anonimo per gli utenti dell’app, limitato nel tempo. Dunque già le norme che disciplinano l’app prevedono forti limitazioni. In questa prospettiva, le polemiche che hanno accompagnato il varo di Immuni appaiono, sotto il profilo della protezione dei dati personali, infondate.

Qual è il rapporto fra privacy e tracciamento dei dati per contenere la pandemia?

F.V.: La scienza medica, per contenere la pandemia, ritiene indispensabile tracciare i contatti che gli infetti hanno avuto, è sottolineato anche nel rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità di cui stiamo parlando. Purtroppo tale tracciamento, se operato senza ricorrere ai big data, si rivela inefficace. Manualmente si perde del tempo prezioso. Ci sono molte persone che, non sapendo di aver avuto contatti con un malato, continuano ad andare in giro senza alcuna verifica sul loro stato di salute e a contagiare, nei giorni in cui si è più infettivi. È noto, infatti, che il giorno prima dell’arrivo dei sintomi del COVID-19 si è maggiormente contagiosi. In tal modo inizia una catena che si propaga in maniera esponenziale e con una rapidità tale ‒ come una specie di valanga ‒ da rendere praticamente impossibili i tracciamenti successivi. Tramite tracciamento manuale, inoltre, alcune persone non possono mai sapere di essere state a contatto con un malato: si pensi a coloro che sono stati vicini in metropolitana. Tra l’altro, come ricordato anche dal Presidente del Garante per la protezione dei dati personali in una sua audizione dello scorso aprile, “la semplice intervista del paziente può essere … lacunosa o comunque scontare la mancata conoscenza di molti soggetti con i quali si possa essere entrati in contatto nei più vari contesti (in farmacia, al supermercato ecc.)”

Per tale ragione è necessario ricorrere ai big data e a forme di tracciamento informatico.

Pensiamo alla App Immuni, che da qualche giorno è possibile scaricare sul proprio cellulare. Il problema più grave che si pone è quello del tracciamento obbligatorio, cioè in assenza di consenso dell’interessato. La normativa in vigore si basa, infatti, sull’idea che l’uso dell’App sia volontario e che il suo mancato utilizzo, poi, non comporti “alcuna conseguenza pregiudizievole”, assicurandosi “il rispetto del principio di parità di trattamento”. Lasciando tutto al consenso della persona, il grande rischio è quello di non raggiungere un numero adeguato di utilizzatori dell’App e, dunque, di renderla sostanzialmente inutile. Da qui, da un lato, l’invito a tutti a scaricare l’App e, dall’altro, la necessità di ragionare, invece, sulla possibilità per il legislatore di prevedere misure di tracciamento obbligatorio, che a mio avviso sarebbero compatibili con la Costituzione.

Per dimostrarlo occorre considerare che il fine è sempre quello di cui dicevamo prima, e cioè salvare molte vite umane e cercare di preservare la salute dei consociati.

Oltretutto, di fronte a un riaccendersi della pandemia, l’alternativa al tracciamento obbligatorio sarebbe di nuovo il lockdown. Ma il lockdown è ancora più invasivo della sfera dei diritti della persona, rispetto al tracciamento obbligatorio. Esso, per esempio, sacrifica, lo dicevamo prima, la libertà di circolazione, quella di riunione, la libertà di culto, quella d’iniziativa economica, con conseguenze disastrose per l’economia. Tali conseguenze si riflettono poderosamente sui conti pubblici e, in ultima analisi, sulla tenuta dello Stato sociale che, in una situazione di crisi economica, è costretto a dolorosissimi tagli delle prestazioni pubbliche e a conseguenti restrizioni al godimento di altri diritti fondamentali come quello alla salute, all’istruzione, al lavoro.

Dunque, le alternative all’uso obbligatorio delle tecnologie di tracciamento sono molto più invasive di numerosi diritti della persona, che oltretutto, rispetto a limitate restrizioni della privacy, verrebbero invece molto più compressi. La riservatezza, con le restrizioni di cui parliamo, verrebbe ristretta sotto il profilo della registrazione dei contatti fisici della persona, ma resterebbe garantita per tanti altri aspetti, come la segretezza delle comunicazioni, della navigazione su Internet e così via. Invece, con il lockdown, salvo alcune eccezioni, per esempio, la libertà di circolazione viene di fatto sostanzialmente vanificata e così anche quella d’iniziativa economica.

Dunque, di fronte alle richieste della scienza medica, la restrizione della privacy con il tracciamento obbligatorio è la misura meno invasiva tra quelle possibili per arginare la pandemia. Dopodiché i dati registrati dovrebbero essere utilizzabili solo per contenere la pandemia e dovrebbero essere distrutti magari dopo tre settimane dalla loro registrazione. Inoltre, il sistema di tracciamento obbligatorio dovrebbe cessare appena venute meno le esigenze per cui sarebbe istituito.

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