skip to Main Content

Così l’algoritmo ci nega la libertà

*Costruire arabeschi. O meglio reimpariamo a farli. Da qualche parte nell’ immenso Trattato di sociologia generale Vilfredo Pareto, che certo non disdegnava l’ idea di razionalizzare con linguaggi formali la teoria economica, annota che se sulla carta la distanza più breve tra due punti è una linea retta questo principio non vale nella vita di tutti i giorni.

Conducendo le loro esistenze, gli esseri umani per raggiungere il punto d’ arrivo tracciano percorsi arzigogolati non certo linee rette.

Ebbene forse proprio la costruzione di arabeschi e l’ incapacità di battere traiettorie dritte sono il sintomo della libertà umana. Soluzione dispendiosa, poco razionale e antieconomica di sicuro ma forse, per questo, custode del mistero della vita.

Oggi però si preferirebbe praticare altre vie, più razionali e più accorte, avvalendosi anche di nuove tecnologie e algoritmi sofisticatissimi. Sante illusioni. «Lo studio sistematico dell’ efficienza degli algoritmi, iniziato intorno alla metà del Novecento, è da attribuire soprattutto non tanto all’ esigenza pratica di minimizzare il costo dei processi di calcolo, quanto all’ ovvia necessità di cercare sempre il percorso minimo per arrivare alla soluzione di un problema qualsiasi» scrive il matematico Paolo Zellini in un affascinante e coltissimo libretto appena pubblicato da Adelphi col titolo inequivoco, La dittatura del calcolo (pagine 186, euro 12).

Ebbene a essere ricercati oggi sono proprio l’ efficacia e l’ effettività del calcolo, la capacità dell’ algoritmo di condurre a esiti certi in tempi stabiliti i comportamenti degli uomini e non invece l’ imprevedibile arabesco simbolo della libertà umana. Zellini scorre i passaggi della storia della matematica che portano al primato della scienza del calcolo e all’ affermarsi degli algoritmi come gettonato campo di ricerca. Da Cantor, Dedekind e Émile Borel a Turing, Norbert Wiener fino a Cooley e Turkey si dipana il filo che impone alla ricerca il primato della matematica computazionale.

Se essa prende slancio dal tentativo di risolvere il problema dell’ infinito attuale e porre una soluzione alla crisi dei fondamenti della matematica di fine Ottocento le ricadute del primato odierno degli algoritmi nel dirigere la vita quotidiana di ogni uomo potrebbe avere conseguenze al momento inimmaginabili. Come nelle più sulfuree distopie ogni comportamento umano potrebbe non essere esito di libertà e responsabilità ma del calcolo predittivo realizzato da un algoritmo a partire da una sterminata messe di dati.

Questa è la data science! All’ apparenza sono innocui, gli algoritmi. Una semplice sequenza di istruzioni che il calcolatore elabora in un processo di calcolo.

Non basta però. Per essere efficaci gli algoritmi devono soddisfare almeno due requisiti. «Ad ogni passo della sequenza è già deciso – precisa Zellini -, in modo deterministico, quale sarà il passo successivo, e la sequenza deve essere effettiva, cioè tendere a un risultato concreto, reale e virtualmente utile». Altrimenti come sarebbe possibile risolvere i piccoli problemi quotidiani del cui peso dovrebbero sgravare gli uomini.

Avvisare dei consumi di una macchina in corsa, segnalare sui profili social i prodotti di gusto dell’ utente, regolare umidità e temperatura di una casa o avvertire cosa manca nel frigorifero. Solo se garantiscono effettività, alleggerendoli del peso della loro vita, gli uomini sono disposti a delegare a questa magica sequenza di istruzioni il potere decisionale sulle loro esistenze. Trovarsi la spesa davanti alla porta di casa senza dover verificare il contenuto del frigo e recarsi al supermercato per gli acquisti non fatica a sedurre. E dunque a incoraggiare la cessione della propria libertà.

Ma quando «i computer – ricorda provocatoriamente il matematico dell’ università di Tor Vergata – diverranno in futuro apprezzabili assistenti degli psichiatri imparando a decifrare i pensieri che si celano dietro le nostre espressioni facciali» gli uomini saranno ancora disposti a cedere a un algoritmo tutto questo potere?

E se, aggiungiamo noi, si arrivasse al controllo di polizia predittivo tipo quello preconizzato da Philip Dick nel racconto Minority Report? «Nel grandioso universo che così si configura la matematica detta ovunque le sue leggi e dirige perfino il nostro pensiero che si conforma ai dettami del calcolo e alla forza ermetica degli algoritmi anche quando dà mostra di governarli con le sue scelte e il suo arbitrio.

È così che la scienza positiva pretenderebbe di dar conto della nostra libertà e della nostra coscienza». 

 

*L’articolo di Simone Paliaga è stato pubblicato su Avvenire, domenica 15 luglio 2018, pag. 23

Back To Top