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Per una rete di tutti. Dall’epoca delle utopie tristi al digital new deal

Un classico degli psichiatri Miguel Benasayag e Gèrard Schmit del 2004 annunciava: siamo nell’epoca delle spinoziane “passioni tristi”. Un’era, cioè, in cui dal “futuro-promessa” siamo passati al “futuro-minaccia”. In cui la speranza, la vitalità, perfino il significato e la verità sembrano rassegnate alla sconfitta, alla sparizione.

Storicamente, una delle soluzioni all’abisso delle prospettive e delle possibilità è stata l’utopia. Ma oggi la tristezza delle passioni sembra avere contagiato anche i modi della nostra immaginazione. Temo, insomma, che si sia oggi costretti ad ammettere una tristezza forse perfino più radicale: che viviamo soprattutto un’epoca di utopie tristi.

Perfino quando il nostro desiderio si spinge nell’ordine ideale, oltre la vita quotidiana, non facciamo che proiettare insicurezza, precarietà, disordine, insensatezza. Nella migliore delle ipotesi, vagheggiare un impossibile ritorno al passato.

A furia di guardare tutto con gli occhi del presente abbiamo dimenticato come si pensa il futuro, e lo abbiamo scambiato per il passato. Al Future Shock del classico di Alvin Toffler del 1970 abbiamo sostituito il più recente Present Shock di Douglas Rushkoff. L’aggressione del tempo reale è tale da mettere in secondo piano perfino quella del tempo che verrà, imbrigliarne i ragionamenti.

Ma la forza di una civiltà si misura anche dai suoi sogni, dalla sua capacità di immaginare alternative radicali allo stato presente delle cose. La fantasia politica, il desiderio collettivo, sono “resistenza speculativa”, dice la scrittrice e ricercatrice Malka Older: immaginare il mondo come diverso serve a cambiarlo davvero.

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