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Digital tax italiana e digital tax europea: siamo sulla stessa rotta?

di Alessio Persiani* Il 21 marzo scorso la Commissione europea ha presentato due proposte di direttiva in tema di tassazione dell’economia digitale. Si tratta di proposte articolate, che giungono dopo diversi anni di riflessione da parte delle istituzioni europee su un tema di straordinaria complessità e che sta impegnando a fondo molte organizzazioni internazionali (l’OCSE su tutte, ma anche le Nazioni Unite e il Fondo Monetario Internazionale) e diversi Governi nazionali.

Le due proposte di direttiva sono tra loro complementari. La prima[1] – più ambiziosa, di più ampio respiro e da attuare in un arco di tempo più lungo – introduce la nozione di stabile organizzazione virtuale, al fine di tassare i profitti delle imprese dell’economia digitale nel luogo in cui esse hanno una presenza digitale significativa riferita all’ammontare dei ricavi, al numero di utenti ed al numero di contratto conclusi. Si tratta di una proposta che incide sulla nozione di stabile organizzazione quale criterio di collegamento attualmente previsto a livello internazionale per l’assoggettamento ad imposizione del reddito d’impresa prodotto in un determinato territorio e che, evidentemente, richiede un coordinamento tra i diversi Stati della Comunità internazionale, anche nel senso di modificare i trattati contro le doppie imposizioni da questi conclusi.

La seconda proposta di direttiva[2], espressamente connotata in senso transitorio e “in attesa di trovare una soluzione globale”, mira ad introdurre un’imposta sui servizi digitali europea, applicata con un’aliquota del 3% sui ricavi generati da talune attività digitali svolte da imprese che superino determinate soglie dimensionali (nello specifico, si applicherebbe ai soli gruppi con ricavi consolidati globali superiori a 750 milioni di Euro, di cui almeno 50 milioni derivanti da attività svolte nell’UE).

Concentrando l’attenzione su questa seconda proposta, balza subito all’occhio la sua similitudine con l’imposta sulle transazioni digitali recentemente introdotta nel nostro ordinamento ad opera della Legge di Bilancio 2018[3] con decorrenza dal 2019 e la cui disciplina di attuazione dovrebbe essere prevista con un decreto ministeriale da adottarsi entro il 30 aprile 2018. Anche l’imposta italiana, infatti, si applicherà con un’aliquota del 3% sul corrispettivo dovuto per le prestazioni di servizi digitali effettuate tramite mezzi elettronici a favore di soggetti residenti in Italia, a condizione che il prestatore dei servizi ponga in essere almeno 3.000 transazioni su base annua.

Tuttavia, se si analizzano la proposta di direttiva europea e la disciplina dell’imposta italiana andando oltre l’aliquota e la base imponibile ci si avvede di talune differenze tutt’altro che trascurabili, che fanno emergere la diversità delle relative finalità perseguite.

Anzitutto vale la pena concentrare l’attenzione sulle transazioni rilevanti ai fini dei due tributi.

L’imposta italiana colpisce le sole prestazioni di servizi business to businessfornite attraverso internet o una rete elettronica e la cui natura rende la prestazione essenzialmente automatizzata, corredata di un intervento umano minimo e impossibile da garantire in assenza della tecnologia dell’informazione”. Sebbene le prestazioni di servizi rientranti nel presupposto debbano essere individuate dall’emanando decreto ministeriale di attuazione, la locuzione normativa richiama quella dell’art. 7 del Regolamento 282/2011/UE in materia di IVA. In base a tale previsione, tra i servizi prestati tramite mezzi elettronici rientrano, ad esempio, la fornitura di prodotti digitali in generale, compresi software, loro modifiche e aggiornamenti, nonché le offerte forfettarie di servizi internet nelle quali la componente delle telecomunicazioni costituisce un elemento accessorio e subordinato (vale a dire, quei casi in cui il forfait va oltre il semplice accesso a internet e comprende altri elementi, quali pagine con contenuto che danno accesso alle notizie di attualità, alle informazioni meteorologiche o turistiche, spazi di gioco, hosting di siti, accessi a dibattiti on line, ecc.).

L’imposta europea, invece, colpisce un novero soggettivamente più ampio, ma oggettivamente più ristretto di prestazioni di servizi. Da un lato, infatti, vi rientrano anche i ricavi derivanti da prestazioni di servizi business to consumer, mentre dall’altro lato l’imposta intende colpire i soli servizi digitali caratterizzati dalla creazione di valore da parte degli utenti, vale a dire quelli in cui la partecipazione degli utenti costituisce un contributo fondamentale per l’impresa che svolge l’attività digitale e che le consente di ottenerne dei ricavi. Di qui la rilevanza dei servizi consistenti: (i) nella collocazione su un’interfaccia digitale di pubblicità mirata agli utenti di tale interfaccia; (ii) nella trasmissione di dati raccolti sugli utenti e generati dalle attività degli utenti sulle interfacce digitali; (iii) nella messa a disposizione degli utenti di interfacce digitali multilaterali (cd. servizi di intermediazione), che permettono agli utenti di trovare altri utenti e di interagire con essi e che possono anche agevolare le corrispondenti cessioni di beni o prestazioni di servizi direttamente tra gli utenti.

Diversamente dall’imposta italiana – quantomeno per quanto è possibile ipotizzare allo stato sulla scorta della previsione dettata in ambito IVA di cui si è detto – restano dunque al di fuori sia le forniture di prodotti digitali (come appunto i software) per le quali si ritiene che “la creazione di valore […] consista nei beni o servizi forniti, mentre l’interfaccia digitale viene usata semplicemente come mezzo di comunicazione[4] sia i servizi internet di contenuti digitali, per i quali “è meno certa la misura in cui la partecipazione degli utenti è fondamentale per la creazione di valore per l’impresa[5].

Siamo dunque di fronte a diversità nell’individuazione del presupposto d’imposta che sottendono una diversità delle finalità perseguite dai tributi in discorso: l’imposta italiana intende colpire la generalità dei servizi forniti alle imprese attraverso internet e connotati da un rilevante grado di automazione senza una particolare attenzione per il ruolo che l’utente rivesta nella catena di creazione del valore, l’imposta europea, invece, si concentra proprio e solo su quei servizi – siano essi prestati a imprese o consumatori finali – in cui l’utente svolge un ruolo fondamentale nella creazione del valore (e, dunque, nella generazione dei ricavi) per l’impresa prestatrice.

Ancora, la diversa finalità dei due tributi trova conferma anche con riferimento al profilo territoriale. L’imposta italiana si applica in relazione ai servizi prestati alle imprese italiane, così individuate in base alla loro residenza fiscale, mentre l’imposta europea si discosta nettamente dalla residenza fiscale del committente e – coerentemente con la ratio del tributo di tassare i servizi connotati da un significativo ruolo degli utenti nella creazione del valore – ha riguardo al luogo in cui si trova l’utente al momento di prestazione del servizio.

Differenze tra i due tributi emergono anche con riferimento ad altri aspetti parimenti rilevanti, quali l’identificazione dei soggetti passivi o la disciplina di attuazione delle imposte.

Dall’analisi compiuta emerge, quindi, una significativa distanza nell’impostazione sottesa e nelle finalità perseguite dai due tributi; distanza che non sembra colmabile in sede ministeriale mediante l’adozione delle norme di attuazione della disciplina italiana. In termini più chiari: se il nostro legislatore vuole realmente adottare un’imposizione che sia in linea con gli indirizzi maturati a livello europeo e che non costituisca uno di quei frammenti tributari che si stanno delineando nel contesto della tassazione delle imprese dell’economia digitale[6] sono probabilmente necessarie modifiche – se non addirittura un vero e proprio ripensamento – della disciplina delineata dalla Legge di Bilancio 2018.

 Note

[1] Proposta di direttiva n. COM (2018) 147.

[2] Proposta di direttiva n. COM (2018) 148.

[3] Art. 1, commi 1011 e ss., legge n. 205 del 2017.

[4] Si veda la relazione illustrativa della proposta di direttiva n. COM (2018) 148, pag. 8-9.

[5] Si veda la relazione illustrativa della proposta di direttiva n. COM (2018) 148, pag. 9.

[6] Come rileva la relazione illustrativa della proposta di direttiva n. COM (2018) 148, pag. 5 “un’azione dell’Unione è necessaria per attenuare la frammentazione del mercato unico e la comparsa di distorsioni della concorrenza all’interno dell’Unione in seguito all’adozione di […] misure unilaterali divergenti a livello nazionale”.

 Assegnista di ricerca – Università Europea di Roma

 

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