La decisione sul mio processo è una VITTORIA, perché la Corte NON ha solo rimandato: ha anche riconosciuto l’inadeguatezza della legge. Ciò significa che se il Parlamento non farà, o farà male, sarà la Corte a intervenire tra 11 mesi. #DjFabo @ass_coscioni #LiberiFinoAllaFine
Passo di lato non significa però passo indietro, abdicazione alla propria funzione. La Corte, infatti, affida al Parlamento il compito di regolare la materia, ma non si fida, scottata da una lunga serie di moniti ignorati dal legislatore. Né vuole abbandonare Marco Cappato al suo destino, con il rischio di una condanna, se la legge non dovesse arrivare o arrivasse troppo tardi.
Ed è per questo che si riserva l’ultima parola, preannunciando un suo intervento forte in caso di inerzia del Parlamento. Una Corte dunque innovativa nel metodo, ma nel merito ancorata ai grandi principi costituzionali, che pongono il giudice costituzionale, riprendendo la bella espressione di Roberto Bin, come “ultima fortezza” del sistema, specie quando sono in gioco i diritti fondamentali della persona.
A questo punto, quali possono essere gli scenari? È difficile immaginare se il Parlamento legifererà o se lascerà ancora una volta al giudice il compito di intervenire in un tema così delicato e politico; se interverrà con una normativa equilibrata, o se, come nel caso della legge sulla procreazione assistita, prevarranno le posizioni ideologiche. Altrettanto complicato, almeno prima di leggere l’ordinanza, è capire che cosa farà la Corte di fronte a un legislatore muto. Potrebbe dichiarare l’illegittimità del reato di aiuto al suicidio o provvedere in modo meno drastico, magari definendo le condizioni che rendono tale comportamento non punibile.
Più facile forse predire l’esito del processo penale a carico di Marco Cappato: le poche parole del comunicato della Corte fanno intravedere un esito fausto, sia nel caso che il legislatore agisca con equilibrio, sia che taccia e parli la Corte.
Certo è che da ieri, in sostanza, è venuto meno il divieto assoluto di aiuto al suicidio, scolpito nel Codice penale del 1930 in nome del primato dello Stato sulla persona e rimasto in età repubblicana in ragione di una concezione paternalista che considera la vita come un bene da proteggere sempre e comunque, anche nei confronti dello stesso individuo. Un risultato non scontato, che salutiamo con favore.