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Gender pay gap, il costo del divario di genere nel mercato del lavoro. Intervista all’Avvocato Maddalena Valli

Il divario di genere nel mercato del lavoro è un problema attuale che impatta in maniera incisiva nella realtà economica del nostro Paese e del resto del mondo. La maggiore consapevolezza delle imprese è una delle vie più importanti da seguire per poter cambiare questa problematica.

In Italia è il Decreto 254/2016 ad obbligare le imprese ad indicare le misure attuate per la parità di genere, tramite una dichiarazione non finanziaria che viene inclusa nel bilancio di esercizio. Ma solamente le società che soddisfano alcune condizioni sono tenute a seguire il decreto. Nello specifico: che operino nel pubblico, che abbiano in media durante l’esercizio finanziario un numero di dipendenti che supera i 500 e che abbiano, alla data di chiusura del bilancio, superato uno dei seguenti limiti dimensionali: un totale dello stato patrimoniale di almeno 20 milioni di Euro; un totale dei ricavi netti delle vendite o delle prestazioni di almeno 40 milioni di Euro.  Il Codice delle pari opportunità  (d.l.gs 198\2006 e smi) prevede, inoltre, per le aziende pubbliche e private che occupano oltre cento dipendenti, un obbligo di rendicontanzione. Nello specifico: “sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”. L’obbligo di rendicontazione in esame deve essere redatto almeno ogni due anni, non è pubblico e le sanzioni in caso di mancato rispetto di tale obbligo sono irrisorie e per di più disattese.

Diversa è invece la politica sul contrasto alla diversità di genere in altri Paesi Europei, tra cui il Regno Unito. Infatti, in Inghilterra le aziende con più di 250 dipendenti sono obbligate a redigere e pubblicare il “gender pay gap report”. Tale report deve contenere i dati sull’eventuale divario retributivo di genere, compresi i premi, nonchè le relative proporzioni occupazionali. Oltre questo semplice obbligo di comunicazione governativa dei dati, in UK vi è l’obbligo di pubblicazione anche nel libro paghe e nel sito internet aziendale. In Inghilterra, dopo la prima legge volta a contrastare il divario salariale “the Equal Pay Act” del 1970 ed un successivo “Equality Act” del 2010, gli obiettivi a lungo termine per ridurre la disparità di genere nelle condizioni e nell’ambiente di lavoro sono stati fissati nel 2017 con il “The Equality Act 2010 (gender Pay Gap Information). Regulations 2017”. La stessa Commissione Europea nel 2019, ha fissato il raggiungimento entro il 2050 della parità di genere. La riduzione di questo divario porterebbe alla creazione di 10.5 milioni di posti di lavoro, con una crescita dell’UE tra i 1950 e 3150 miliardi di euro.

Per esplorare le conseguenze e gli strumenti utili ad arginare il gender pay gap, la redazione di DIMT ha intervistato Maddalena Valli,, avvocato, si occupa prevalentemente di consulenza stragiudiziale, compliance e contenzioso. Professionista specializzata in particolare in diritto della privacy, digital marketing, web e nuove tecnologie; è Responsabile della Protezione dei Dati (DPO) per società complesse ed assiste clienti nazionali ed internazionali operanti in particolare nei settori della grande distribuzione e della vendita di prodotti di consumo.

Alla luce di tutto questo quali possono essere, secondo Lei, gli strumenti più efficienti che permettano al nostro Paese di raggiungere ed allinearci agli obiettivi europei?

 

Avv. Valli: La rendicontazione extra-finanziaria introdotta dal Decreto 254/2016, che ha attuato la direttiva 2014/95/UE, è uno strumento certamente valido a mettere in luce, rendendole pubbliche, le politiche sociali attinenti alla gestione del personale; incluse le azioni poste in essere per garantire la parità di genere.

Tuttavia, i limiti di questa normativa sono evidenti, soprattutto se comparata a livello europeo: infatti,  i)  il bacino di soggetti obbligati è troppo ristretto, essendo limitato ai soli enti di interesse pubblico con oltre 500 dipendenti, stato patrimoniale di almeno 20 milioni di Euro e ricavi netti di almeno 40 milioni di Euro; ed inoltre,  ii) la tipologia di informazioni volta ad evidenziare le sole “azioni poste in essere per garantire la parità di genere”  potrebbe non essere sufficiente ad evidenziare eventuali discriminazioni di genere, come ad esempio l’applicazione di differenze retributive di genere.

Con riferimento invece al rapporto previsto dall’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità, è prevista una analisi un po’ più dettagliata che deve relazionare “sulla situazione del personale maschile e femminile in ognuna delle professioni ed in relazione allo stato di assunzioni, della formazione, della promozione professionale, dei livelli, dei passaggi di categoria o di qualifica, di altri fenomeni di mobilità, dell’intervento della Cassa integrazione guadagni, dei licenziamenti, dei prepensionamenti e pensionamenti, della retribuzione effettivamente corrisposta”.

Tuttavia, questo report, che deve essere redatto solo una volta ogni due anni, non integra alcuna forma di pubblicità, le sanzioni in caso di mancata redazione sono molto blande e nella pratica i controlli ancora molto pochi diffusi. E questi limiti ne impediscono una costruttiva utilizzabilità da parte delle imprese, che spesso disattendono di redigerlo.

In questo quadro, la base di partenza per contrastare il fenomeno delle discriminazioni nei luoghi di lavoro ed il divario retributivo di genere, avvicinandosi maggiormente agli obiettivi comunitari già attuati da altri paesi, dovrebbe essere l’incremento degli obblighi di analisi e reporting dei dati occupazionali e retributivi a carico delle imprese.

Andrebbero, a mio avviso, i) riviste le soglie di applicazione degli obblighi di reporting (di cui al D. Lgs. 254/2016), in modo da ricomprendere un numero maggiore di imprese soggette a tale attività di analisi; ii) meglio individuati e circoscritti i dati da indicare nel report, ricomprendendo non solo le attività poste in essere per garantire la parità di genere, ma i numeri che cristallizzano la situazione di fatto, dimostrando se effettivamente l’azienda segue un modello ispirato all’equiparity gender o meno (come ad esempio i dati afferenti la retribuzione e i premi, idonei ad evidenziare un eventuale divario retributivo di genere); e ancora, andrebbero iii) previste forme sanzionatorie effettive nel caso di mancata effettuazione dei report (con riferimento in particolare a quanto previsto dall’art. 46 del Codice delle pari opportunità), nonché iv) forme di trasparenza per i report in esame, analoghe a quelle della Gran Bretagna, come la pubblicazione obbligatoria dei medesimi anche nei siti internet aziendali.

Ciò comporterebbe anche una maggiore consapevolezza interna in merito alle eventuali divergenze di genere da sanare e comunque una effettiva trasparenza dei dati in questione verso l’esterno.

 

Recentemente è stato sviluppato lo strumento di autovalutazione del gender gap per le imprese: Gender gap analysis tool, nato dall’iniziativa congiunta del Global Compact dell’ONU e delle Nazioni Unite. L’obiettivo è quello di consolidare un nuovo concetto di sostenibilità in termini di equiparity gender. Una chiave di volta per la valorizzazione dell’impresa ed il potenziamento di modelli aziendali concretamente ispirati a principi sostenibili, modelli che puntino a non perdere di vista il concetto che la “sostenibilità” passa anche attraverso l’equiparity gender.

La valorizzazione di un’azienda, secondo Lei, può aumentare tramite l’applicazione di condotte sostenibili improntante sulla parità di genere? L’esempio italiano che troviamo nell’articolo “Rivoluzione Kering – Ai neopapà congedo di tre mesi e mezzo”della Repubblica in data 10 Ottobre 2019, può essere un giusto modello da seguire?

 

Avv. Valli: Non vi è dubbio che le informazioni non finanziarie pubblicate delle società consentono già oggi a soggetti terzi investitori, di misurare la “sostenibilità” aziendale ed effettuare quindi una più completa valutazione della capacità delle imprese di creare valore nel lungo periodo.

Nel mercato finanziario sono infatti sempre di più gli investitori istituzionali, si pensi a fondi pensione, fondazioni, assicurazioni e banche, che inseriscono criteri di sostenibilità nelle valutazioni d’investimento che vengono adottate. Per questi investitori, la valutazione “sociale” rappresenta, infatti, uno strumento idoneo a calcolare il rischio, non solo economico e finanziario ma anche d’immagine e reputazionale di una società.

Lo strumento del Gender Gap Analysis Tool, promosso dall’ONU e dalle Nazioni Unite, si integra in questo contesto e permette ai leader aziendali globali, attraverso una piattaforma on-line dedicata, di identificare i punti di forza, le lacune e le opportunità per migliorare l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne sul posto di lavoro. Questo strumento offre nello specifico delle statistiche, con cui l’azienda può valutare i propri progressi nel promuovere l’uguaglianza di genere. In base al livello di armonizzazione creatasi, l’azienda può essere classificata come “Principiante”, “Miglioratore”, “Achiever” o “Leader”.

In Italia, tuttavia, non vi è ancora una adeguata attenzione all’uguaglianza di genere in ambito lavorativo. La Rivoluzione Kering da Lei citata, evidenzia, infatti, come le aziende italiane siano ancora strutturate sullo stereotipo del ruolo della donna e dell’uomo, dove la donna deve dedicarsi all’economia domestica mentre l’uomo all’economia del lavoro. Ma una non corretta attenzione all’uguaglianza di genere in ambito lavorativo rischia di ripercuotersi nel valore aziendale che come detto non si basa solo su criteri di produttività, ma anche di sostenibilità. Le imprese hanno, dunque, tutto l’interesse a realizzare modelli aziendali concretamente ispirati a principi di parità di genere, ad analizzare le eventuali differenze retributive e colmarle, nonché a stabilire regole che mettano in pari condizioni di trattamento colleghi uomini e donne.

Per tornare, quindi, all’esempio della Sua domanda, concordo sul fatto che se venisse istituita una norma atta a prevedere che siano entrambi i genitori (e non solo le madri) ad avere il congedo obbligatorio, tale condizione non comporterebbe più effetti discriminatori a carico delle sole lavoratrici madri e porrebbe queste ultime in una condizione di “parità” rispetto ai colleghi lavoratori padri.

 

In definitiva il valore delle aziende, dipende anche dal raggiungimento di una parità di genere. A Suo parere, come può un’impresa, tramite l’utilizzo di politiche pubblicitarie, aumentare la sostenibilità e la visibilità esterna?

 

Avv. Valli: La pubblicità di modelli aziendali improntati all’eliminazione di discriminazione di genere in ambito lavorativo o più in generale a trasparenza circa l’attuazione di queste politiche può certamente avere dei vantaggi per le aziende; sia sotto il profilo della reputazione sia sotto il profilo della sua valorizzazione. Ed è su questo presupposto che ritengo meritevole di attenzione, non solo per le lavoratici donne ma anche per le stesse aziende, una possibile modifica della normativa italiana in tali termini.

A tal fine dovremmo ispirarci, a mio avviso, al modello UK, che impone alle società con più di 250 dipendenti l’obbligo di pubblicazione del Gender Pay Gap Report, consistente in una dettagliata analisi sull’eventuale divario retributivo di genere, compresi i premi, nonchè sulle relative proporzioni occupazionali.  La vetrina virtuale dell’azienda risulterebbe così non solo improntata a fornire al pubblico una limitata trasparenza inerente le informazioni aziendali e i prodotti e servizi offerti dalla stessa. La trasparenza salariale ammetterebbe la condivisione di informazioni ben più profonde, davvero idonee a mostrare il valore (e i valori) aziendale: infatti, comporterebbe da parte delle aziende un impegno a verificare eventuali disuguaglianze di genere e a migliorarle.

La comunicazione delle disparità retributive di genere comporterebbe, a mio avviso, nell’immediato l’effetto di ridurre il divario retributivo e le disuguaglianze di genere nei luoghi di lavoro. E tutto ciò con il vantaggio per l’azienda di dimostrare la sua solidità interna all’esterno.

 

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