skip to Main Content

Il diritto antitrust ai tempi del populismo

L’Antitrust può ridurre le disuguaglianze? La politica della concorrenza può avere altri obiettivi oltre quello di far funzionare i mercati in modo più efficiente e assicurare il benessere dei consumatori? Il ruolo della politica della concorrenza nella lotta alle disuguaglianze è entrato nel dibattito scientifico di recente e si intreccia sempre più con le questioni di carattere redistributivo. Abbiamo chiesto a Mariateresa Maggiolino, Professore di Diritto Commerciale nell’Università Bocconi di Milano, di tratteggiare alcuni spunti di riflessione su su come possono cambiare le prospettive di politica antitrust, sulle variabili macro e sul contributo che la concorrenza, in epoca di populismi, può offrire nella direzione della crescita economica e della riduzione delle diseguaglianze.

Prof.ssa Maggiolino, in occasione del convegno “Antitrust e riduzione delle diseguaglianze” svoltosi presso l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, ha tenuto un interessante intervento su: “Il diritto antitrust ai tempi del populismo”. Quale la relazione tra diritto antitrust e populismo?

Il populismo è stato variamente descritto, ma a contraddistinguere questo fenomeno è innanzitutto una specifica nozione di popolo. Per i populisti il popolo è un soggetto omogeneo, che non ammette differenze al suo interno, che si fa portatore di valori eminentemente positivi e che si individua nella sua singolarità lungo due fratture: “interno-esterno” e “basso-alto”.

Così il popolo si identifica differenziandosi dagli estranei, ossia dai diversi per cultura, religione e financo per abitudini alimentari; e il popolo si definisce perché si distingue dalle élite le quali, anziché rappresentare effettivamente gli interessi del popolo (di qui la delegittimazione della democrazia rappresentativa), lo ingannano (ecco spiegato l’atteggiamento anti-intellettualista) perseguendo interessi terzi estranei al popolo (così le teorie complottiste sugli interessi della finanza internazionale).

Pertanto, “semplificazione” nella descrizione della realtà e “rivendicazione” di un momento in cui il popolo si libererà delle élite corrotte diventano le parole d’ordine del populismo.

Consistenti flussi migratori, considerevole distanza tra centri decisionali e periferie, elevata disoccupazione e una distribuzione significativamente ineguale della ricchezza sono spesso considerati tra i fattori che innescano fenomeni populisti. E, in effetti, negli ultimi anni abbiamo assistito al loro verificarsi.

In particolar modo, con riguardo ai profili economici, abbiamo compreso l’impatto negativo prodotto da: (a) la libera circolazione delle merci e la delocalizzazione della produzione che hanno determinato la precarizzazione del lavoro e la diminuzione del potere contrattuale dei lavoratori; (b) la concentrazione delle industrie; e (c) la rivoluzione tecnologica che ha procurato maggiori rendimenti per il capitale e per la manodopera specializzata, nonché l’esclusione dal mercato di un numero crescente di piccole e medie imprese con conseguente  riduzione dell’occupazione ‘tradizionale’.

Ora, secondo alcuni, i c.d. hipster antitrust, il diritto della concorrenza può fare qualcosa e, segnatamente, potrebbe intervenire contro: (i) l’esclusione delle piccole e medie imprese; (ii) la disoccupazione; (iii) la distribuzione ineguale della ricchezza; e contro (iv) il grado di concentrazione delle industrie.       

Richard Whish afferma: “Le politiche antitrust non sono collocate in uno spazio vuoto: esse sono l’espressione dei valori e obiettivi esistenti in una società in uno specifico momento e sono suscettibili di cambiare, anche radicalmente, al cambiare del generale pensiero politico”. Di conseguenza, il diritto antitrust potrebbe perseguire gli obiettivi appena menzionati?

Ecco, come giustamente lei ricorda, in questo tempo diverso perché populista, nulla impedisce al diritto antitrust di perseguire gli obiettivi sopra ricordati. Tuttavia, occorre prendere in considerazione almeno tre obiezioni di carattere generale.

In primo luogo, la realizzazione di questi obiettivi impone dei costi che spesso non vengono adeguatamente ricordati al “popolo”, affinché esso possa decidere alla luce della complessità del mondo reale. Ad esempio, il salvataggio delle piccole e medie imprese dovrebbe garantirsi anche quando le imprese medio-piccole sono meno efficienti e meno innovative delle grandi imprese? Il popolo è cioè disposto a sostenere i costi di questa scelta, vale a dire prezzi di mercato più alti e/o prodotti/servizi di minore qualità e varietà, nonché un atteggiamento disincentivante per le grandi imprese?

Analogamente, la difesa dei posti di lavoro dovrebbe forse indurci a salvare i cartelli per la fissazione dei margini che, in ultima analisi, sono tesi a coprire le inefficienze produttive e l’obsolescenza delle imprese? Siamo sicuri che un “popolo” adeguatamente informato delle conseguenze di queste scelte voterebbe compatto a sostegno delle stesse?

In secondo luogo, la tutela del corretto funzionamento del mercato – l’attuale obiettivo del diritto antitrust – consente di individuare in via univoca e con un certo grado di precisione e prevedibilità le condotte anticompetitive, che infatti si riconoscono come le condotte che: riducono l’output e aumentano il prezzo di mercato, deteriorano la varietà e la qualità dell’offerta, nonché riducono il tasso di innovazione. Diversamente, la protezione di tutti gli obiettivi di cui sopra crea discrezionalità e manca di benchmark ragionevolmente oggettivi.

Come si diceva sopra, cioè, la tutela delle piccole e medie imprese e la protezione dell’occupazione non favoriscono un’equa distribuzione della ricchezza, ma impongono ai consumatori di comprare prodotti e servizi più costosi, nonché meno innovativi. Pertanto, cosa dovrebbe fare un’autorità antitrust chiamata a salvaguardare questi obiettivi contemporaneamente? Potrebbe disporsi diversamente caso per caso? Oppure dovrebbe creare un ordine di priorità e considerare alcuni obiettivi più meritevoli di tutela rispetto ad altri?

Infine, esistono molti altri strumenti, come ad esempio il codice del consumo o la disciplina control le pratiche commerciali scorrette, che già tentano di salvaguardare gli interessi dei soggetti più deboli e meno informati.

Complessivamente, dunque, nulla impedisce al diritto antitrust di modificare i suoi obiettivi; ma non bisogna farsi incantare dalle sirene delle decisioni a costo zero. Un diverso diritto antitrust produrrà conseguenze negative che, forse, laddove opportunamente spiegate al popolo, potrebbero essere da questo non preferite.

 

 

 

 

 

 

Back To Top