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Intervista al Prof. Antonio Cassatella. La discrezionalità amministrativa nell’età digitale: più dati, meno scelte?

Il Professor Antonio Cassatella, laureatosi in giurisprudenza con il massimo dei voti presso l’Università degli Studi di Trento nel 2001, ha consolidato la propria carriera accademica tramite stabili collaborazioni con diverse cattedre universitarie, tra cui quelle di diritto amministrativo e diritto processuale amministrativo presso l’Università di Trento.

Nel corso degli anni, ha continuato a distinguersi come docente universitario, ricoprendo incarichi presso diverse facoltà e dipartimenti. La sua vasta esperienza didattica comprende insegnamenti su temi quali legislazione delle opere pubbliche, diritto urbanistico e diritto amministrativo avanzato.

Già membro della redazione della rivista Diritto Processuale Amministrativo (Giuffrè Francis Lefebvre, Milano).

Il Prof. Cassatella ha inoltre svolto ruoli importanti in varie commissioni, incluso il suo servizio come presidente dell’Associazione Alumni-Jus Unitn dal 2015 al 2021.

 

Il Prof. Antonio Cassatella

 

Quali sono, secondo Lei Prof. Cassatella, le principali preoccupazioni e dubbi legati all’introduzione dell’intelligenza artificiale nell’amministrazione pubblica, specialmente riguardo alla discrezionalità amministrativa?

Occorre muovere da una questione preliminare di carattere organizzativo.

Anche dando per assunta la piena disponibilità di i.c.t. utilizzabili nell’esercizio delle diverse funzioni amministrative, quello che sembra difettare sono le risorse finanziarie per acquisire gli strumenti più avanzati e, soprattutto, la capacità di farne un uso consapevole ed accorto da parte dei funzionari amministrativi.

Sussiste, infatti, una certa sproporzione fra evoluzione tecnologica ed involuzione dell’organizzazione amministrativa. La selezione del personale e le progressioni di carriera dovrebbero valorizzare la formazione di funzionari addestrati alla progettazione ed all’uso delle i.c.t. più avanzate, con gli opportuni incentivi economici.

I dati a nostra disposizione sono ambivalenti, specie se si guarda alle amministrazioni territoriali e locali, che potrebbero trarre i maggiori vantaggi dell’uso delle i.c.t. ma che spesso non sono nelle condizioni materiali di farne proficuo utilizzo.

Faccio riferimento alle rilevazioni Istat del 2022, pubblicate nel febbraio 2024. Le amministrazioni locali che offrono ai propri dipendenti corsi di formazione nell’uso delle i.c.t. sono pari al 23,5%: una crescita netta rispetto al 2018, in cui non si arrivava al 10%, indotta dalla pandemia e dalla necessità di svolgere una serie di attività da remoto. In termini assoluti si tratta, nondimeno, di una percentuale poco incoraggiante, tenendo conto che il 76,5% delle amministrazioni locali non offre formazione ai propri dipendenti.

La formazione riguarda, inoltre, i.c.t. fruibili nell’ambito di attività di routine, dove non si manifestano le autentiche prerogative decisionali degli apparati pubblici né emergono problemi giuridici di particolare rilevanza. La maggior parte dei corsi di aggiornamento concerne, infatti, l’uso di piattaforme per agevolare i pagamenti telematici, per gestire l’identità digitale, per l’uso del cloud computing.

Le difficoltà organizzative non devono tuttavia indurre a ridimensionare i problemi derivanti dall’applicazione delle i.c.t. all’attività propriamente decisionale delle amministrazioni, in cui si formano ed attuano le singole politiche pubbliche. Le potenzialità delle i.c.t. sono enormi ed è bene essere pronti a coglierne opportunità e rischi.

Anche in questo caso l’Istat fornisce dati che fanno riflettere.

La maggior parte delle amministrazioni locali ha previsto di implementare l’esercizio delle proprie funzioni mediante l’uso di i.c.t. avanzate, fruibili proprio al fine di gestire politiche pubbliche di livello locale (governo del territorio, del traffico, gestione di servizi locali e simili).

Nel corso dei prossimi anni il 70,9% degli enti locali dichiara di voler ricorrere a tecnologie legate ai dati derivanti dal c.d. “internet delle cose”, ossia telecamere, sensori di traffico, centraline meteo. Il 59,9% degli enti locali programma di utilizzare dati derivanti dal c.d. “internet delle persone”, ossia tweet, social media, smartphone e accessi ai siti web. Il 26,4% prevede l’uso di chatbot o assistenti digitali virtuali. Il 15,1% intende investire in tecniche di analisi di big data come text mining e analisi automatica del linguaggio.

Occorre dunque interrogarsi sui problemi correlabili alla diffusione delle menzionate tecnologie. Ne segnalo quattro.

Il primo problema è strettamente collegato al rilevato difetto di capacità amministrativa. Esiste un digital divide fra chi progetta le i.c.t. e chi ne fa uso, specie con riferimento all’attività svolta mediante algoritmi.

Anche in tal caso i dati dell’Istat appaiono di estremo interesse. I prodotti informatici utilizzati dagli enti locali sono forniti in larghissima prevalenza da operatori privati (nel 94,7% dei casi). É vero che le Regioni stanno costituendo imprese a controllo pubblico capaci di sostituirsi ai privati nella progettazione e fornitura di i.c.t., ma questo non garantisce, di per sé, il superamento del digital divide, visto che i tecnici operanti nelle società partecipate hanno cultura e formazione analoga a chi opera nel settore privato.

Dirigenti e funzionari possono infatti ovviare al digital divide contribuendo alla progettazione dell’algoritmo ed indicando i presupposti, gli scopi e gli effetti che ci si attende dal suo uso, ma la materiale elaborazione del linguaggio macchina rimane di competenza degli esperti. Questo può determinare errori dovuti a bias cognitivi, errata progettazione degli strumenti, effetti indesiderati, opacità: tutto ciò che l’art. 97 della Costituzione e l’art. 1 della l. n. 241/1990 qualificano come un disvalore.

La soluzione al problema, almeno in astratto, è agevole: rafforzare gli apparati tecnico-giuridici della p.a. al fine di una pronta pianificazione, gestione e verifica dell’attività di fornitori di servizi informatici e tecnologici, siano essi privati o in house. In concreto non pare tuttavia la soluzione percorsa nel nostro sistema, dove i migliori laureati non sono attratti dal pubblico impiego e dove i vertici degli apparati amministrativi sono raramente in possesso delle cognizioni tecniche utili a favorire il dialogo con i prestatori di servizi informatici.

Il secondo problema riguarda il diffuso rischio di opacità dell’uso degli algoritmi da parte delle amministrazioni, anche nell’ipotesi in cui esse siano dotate di personale capace di fare uso consapevole delle i.c.t. più avanzate.

Per esemplificare: gli algoritmi sono usati ai fini della valutazione delle offerte nelle gare di appalto, sulla base di formule logico-matematiche facilmente accessibili, ma difficilmente comprensibili da parte del comune cittadino, o di chi non abbia dimestichezza con queste tecniche. Allo stesso modo, gli algoritmi sono utilizzati nella prevenzione dei rischi idrogeologici, ricorrendo a formule sconosciute ai più, ma sulle quali i più fanno un affidamento che si spera ben riposto.

Occorre considerare che ogni tecnica si traduce in un potere: dai tempi antichi, chi ha il possesso di conoscenze ignote alla maggioranza delle persone ha anche il potere di usare queste conoscenze come strumento per imporre proprie visioni del mondo, o, più sommessamente, una propria preferenza nella scelta dei modi e degli scopi delle azioni basate sull’uso delle tecniche.

Così avviene anche per le i.c.t., che nel risolvere un dato problema rispecchiano pur sempre le preferenze, e gli stessi limiti cognitivi e valutativi, di chi le ha ideate. Penso alle vicende del progetto SyRI che, nei Paesi Bassi, negava sostegno economico a famiglie che non rientravano in parametri rivelatisi discriminatori.

Non credo basti rendere pubblici e conoscibili gli algoritmi, e in genere i meccanismi di funzionamento delle i.c.t., per risolvere il problema: anche a tacere dei problemi legati alla tutela della proprietà intellettuale, questa soluzione è sub-ottimale nella parte in cui postula una capacità di lettura ed interpretazione di queste formule da parte di una vasta platea di individui. Del che è ragionevole dubitare.

Il terzo problema attiene al rischio che le i.c.t. più complesse sfuggano al controllo umano e che funzionino secondo modalità di autoapprendimento e rielaborazione dei dati non gestibile ad opera degli stessi programmatori ed operatori.

Le macchine sono infatti dotate di una capacità di raccolta, selezione e combinazione dei dati che supera il livello di conoscenza umana, al punto da renderle decisamente più “informate” di qualunque individuo su una serie di questioni. Basti ricordare come il nostro smartphone sappia di noi e delle nostre abitudini più di quanto ne sappiamo noi stessi, grazie al fatto gli strumenti registrano, ricordano e prevedono tutta una serie di nostri comportamenti.

Più dati e più tecniche combinatorie sono a disposizione delle i.c.t., più queste orientano le nostre condotte. Lo stesso accade per i funzionari pubblici che, lasciato alla macchina il compito di assumere e rielaborare informazioni, rischiano di subire passivamente le decisioni dell’algoritmo. Sono noti i casi delle graduatorie scolastiche elaborate sulla base di parametri contestati dagli insegnanti che subivano le scelte delle i.c.t., su cui sono intervenuti i nostri giudici amministrativi.

Si insiste molto sulla necessità di evitare questi rischi mediante il riconoscimento di una “riserva di umanità” nei procedimenti algoritmici, in termini attualmente codificati dall’art. 19, comma 5, del Codice dei contratti pubblici.

L’uomo dovrebbe essere sempre nelle condizioni di controllare l’attività di elaborazione dei dati, sostituendosi alla macchina nei casi in cui ne ravvisi i presupposti: tesi del tutto condivisibile, ma fondata sull’assunto che l’human in the loop, ossia l’uomo in grado di controllare il ciclo di elaborazione dei dati, sia in possesso di conoscenze e capacità superiori alla media.

A valle di tutti questi problemi si situa quello più complesso: il tipo di responsabilità da attribuire all’amministrazione che, facendo uso di una i.c.t., abbia causato danni a carico di cittadini ed imprese.

Si pensi al caso in cui un algoritmo abbia attribuito ad un insegnante una sede di lavoro lontana da casa; o in cui un algoritmo abbia portato ad una errata formazione della graduatoria di accesso ad un corso di laurea. Sono decisioni che causano danni patrimoniali risarcibili.

Il punto è capire se l’amministrazione debba rispondere a titolo di responsabilità riferibile a comportamenti umani (contrattuale o extracontrattuale poco interessa, almeno in questa sede) o se non sia più opportuno, come credo, ricorrere al modello del danno da attività pericolosa, con tutte le conseguenze derivanti dalla scelta di questo schema ai fini della prova del danno, del nesso di causalità fra danno ed attività e altre questioni correlate.

Resta fermo il fatto che il tipo di modello di responsabilità prescelto incide sul modo in cui la p.a. può fare uso delle i.c.t.

Si è già visto, con riferimento a tipiche attività umane, come l’aumento della sfera delle responsabilità (civili, penali ed amministrative) degli enti e dei funzionari sia alla base di fenomeni come la medicina difensiva e, in generale, la burocrazia difensiva. L’azione amministrativa si irrigidisce e il funzionario ha paura della decisione o della firma; si innesca una spirale negativa che non giova a nessuno.

Lo stesso avverrebbe nel caso di aumento delle responsabilità connesse all’uso delle i.c.t., che potrebbe addirittura rallentare il percorso di modernizzazione degli apparati pubblici, con una crescente arretratezza del nostro sistema socio-economico.

D’altro canto, le soluzioni apparentemente più favorevoli all’amministrazione rischiano di produrre effetti non meno gravi: deresponsabilizzando la p.a. si rischia di favorire l’uso incontrollato delle tecniche e dei poteri, innescando una spirale altrettanto negativa a danno delle libertà individuali. L’esigenza di un’amministrazione “responsabile” – sia nel senso di liable che in quello di accountable – non appare eludibile ed è imposta dagli articoli 28 e 97 Cost., oltre che dai generalissimi doveri di solidarietà sociale derivanti dall’art. 2 Cost. e dalla qualificazione del nostro ordinamento come uno Stato di diritto.

Spetta alla politica effettuare i giusti bilanciamenti ed elaborare uno statuto generale dell’attività amministrativa digitale, come accaduto ai tempi dell’elaborazione della l. n. 241/1990 per l’attività amministrativa generale.

 

Come viene valutato il ruolo dell’intelligenza artificiale nella formazione delle decisioni discrezionali, alla luce degli insegnamenti dei maestri della scuola romana come Giannini e Scoca?

Occorre innanzitutto intenderci sul significato di decisione discrezionale in senso proprio, nei termini messi a punto da Giannini e dai suoi allievi, come Piras e Scoca, a partire dalla fine degli anni Trenta dello scorso secolo: si tratta di quel particolare tipo di decisione amministrativa che implica una selezione e ponderazione di interessi pubblici e privati relativi ad un determinato problema amministrativo da risolvere mediante una decisione.

L’attività di selezione e ponderazione di interessi porta ad individuare l’interesse pubblico concreto che giustifica la singola decisione.

Tradizionalmente si è ritenuto che queste scelte, in quanto caratterizzate da una intrinseca politicità, fossero riservate ai titolari di cariche politiche o, in altri casi, ai dirigenti o a funzionari di elevata preparazione. La politicità delle scelte implica, inoltre, che esse siano riservate all’amministrazione, in quanto unico soggetto autorizzato dalla legge ad assumere la decisione discrezionale.

Questo comporta che i giudici amministrativi (T.a.r. e Consiglio di Stato) non possano sindacare le scelte discrezionali, se non nel caso in cui esse siano manifestamente arbitrarie, ossia caratterizzate da errori percepibili con immediatezza e sulla base della motivazione dei singoli atti. Pure in questo caso il giudice non potrebbe mai sostituirsi all’amministrazione, indicandole la scelta più idonea alla cura dell’interesse pubblico concreto: questo, a fronte della perdurante vigenza del principio di distinzione fra funzione amministrativa e giurisdizionale, implicitamente ricavabile dalla Costituzione e dal Codice del processo amministrativo.

Vi è tuttavia da chiedersi se questo modello sia ancora in grado di spiegare tutte le manifestazioni dell’attività amministrativa discrezionale.

Sul versante della teoria generale del diritto amministrativo, ancor prima della diffusione delle i.c.t., era già maturata l’idea di una riduzione dell’area della discrezionalità amministrativa.

Questo, principalmente per effetto della diffusione delle tecniche di analisi economico-sociale e della procedimentalizzazione dell’attività amministrativa, specie ad opera della l. n. 241/1990.

Ci si è presto resi conto che l’attività discrezionale deve risolvere il problema amministrativo sottoposto all’apparato mediante una raccolta e selezione di dati da compendiare nelle “risultanze” dell’attività istruttoria a cui fa riferimento l’art. 3, comma 1, della legge generale sull’attività amministrativa (gli antecedenti culturali di questa disposizione possono rinvenirsi negli studi di Nigro, Levi e Ledda, oltre che nelle ricerche comparatistiche di Pastori).

L’attività finalizzata alla formazione delle risultanze non può tuttavia concepirsi come libera o lasciata al caso: nel corso dell’istruttoria si “conosce” per “decidere” e l’attività conoscitiva implica necessariamente che l’azione si basi su criteri epistemici dotati di un qualche grado di attendibilità.

Per quanto politica, ogni decisione discrezionale si fonda dunque su dati raccolti grazie a determinate tecniche, strumentali a definire la cornice entro la quale scegliere fra una o più alternative possibili.

L’esempio più lampante riguarda la pianificazione territoriale: in astratto il potere esercitato dai consigli comunali è discrezionale, in quanto la zonizzazione urbanistica è l’effetto di una ponderazione di interessi connotata da una certa politicità. Non si può tuttavia sottostimare l’impatto della tecnica nell’analisi del territorio e delle sue fragilità (geologia), del suo pregio storico-artistico (storia dell’arte) della composizione socio-economica del Comune (economia, sociologia) e simili. Questo incide necessariamente sul tipo di zonizzazione prescelto e sulle caratteristiche dei vincoli conformativi ed espropriativi imposti alle varie aree.

Una parte della dottrina continua a rifiutare l’idea che questa attività possa essere svolta con il supporto delle i.c.t., ma mi pare evidente come sia vero il contrario, e sia opportuno prenderne coscienza nell’immediato: non nel senso che la discrezionalità amministrativa possa essere integralmente sostituita dalla macchina, ma nel senso che la scelta politica comunque riservata ai singoli individui, o a gruppi di individui, può essere supportata da un’attività conoscitiva facilitata dalle i.c.t.

Sempre restando su un piano teorico generale, ci si deve però chiedere se la diffusione delle i.c.t. abbia effetto sulla scelta finale, restringendo i margini di scelta dell’amministrazione fino al punto di orientare la decisione verso un’unica soluzione “ottimale”.

Il tema non è affatto nuovo ed è stato oggetto di una risalente polemica fra Giannini e Mortati, protrattasi in una serie di scritti risalenti agli anni ’40.

In breve, mentre Giannini riteneva che la scelta discrezionale fosse – e dovesse rimanere – completamente libera, non essendovi strumenti idonei a comprovare sul piano giuridico quale alternativa fosse preferibile alle altre, Mortati riteneva che ogni decisione discrezionale sottendesse una soluzione “esatta”, ossia in grado di soddisfare meglio di altre il pubblico interesse.

Nell’immediato fu Giannini a dare la risposta più convincente: mancavano i parametri giuridici per dimostrare quale soluzione fosse preferibile alle altre, cosicché la decisione discrezionale era in concreto frutto di valutazioni empiriche circa l’adeguatezza del mezzo al fine.

Ad ottant’anni di distanza il problema può essere probabilmente rimeditato: da un lato, abbiamo oggi a disposizione parametri giuridici che orientano l’esercizio del potere discrezionale, come i criteri di proporzionalità e precauzione. Dall’altro, abbiamo gli strumenti che guidano raccolta e selezione dei dati rilevanti per assumere decisioni proporzionate e caute.

Questo non vuol dire che esista un’unica risposta esatta a problemi complessi, come quelli devoluti alle decisioni discrezionali. Ne abbiamo avuto riprova durante le fasi più acute della pandemia, in cui i decisori pubblici – pur se in possesso di una mole esorbitante di dati e tutti animati dall’intento di tutelare la salute pubblica – non erano nelle condizioni di assumere decisioni universalmente condivisibili.

Reputo, tuttavia, che il rapporto fra discrezionalità ed i.c.t. possa essere rivisitato alla ricerca di un prudente equilibrio: la tecnica aiuta a selezionare gli “scenari” decisionali, ossia a prefigurare un numero sufficientemente ristretto di soluzioni di cui è possibile prevedere gli effetti più immediati.

La scelta discrezionale può basarsi su questi scenari: aderendo a quello preferito, apportandovi varianti più o meno significative; o non ritenendo credibile nessuno di essi, al punto di scegliere liberamente un’alternativa non prefigurata.

Quello che conta, da un punto di vista giuridico, è che il decisore assuma scopertamente la responsabilità della scelta, fornendo adeguata indicazione dei criteri seguiti per selezionare l’alternativa preferita.

Risulta cruciale, pertanto, la motivazione del provvedimento, in rapporto al tipo di parametro che ha guidato la scelta. Inutile nascondere che alcuni amministratori e funzionari potrebbero essere indotti a scegliere lo scenario “algoritmico” proprio al fine di attribuire alla macchina la responsabilità della scelta e trincerare dietro le i.c.t. la propria incapacità di scegliere.

Temo che la questione sia più esistenziale che giuridica, sicché le opinioni del giurista devono cedere il passo a quelle dell’epistemologo.

 

Nel Suo intervento menziona l’esempio dell’urbanistica parametrica e del building information modeling (BIM) come casi in cui gli algoritmi elaborano dati e prefigurano alternative decisionali discrezionali. Quali sono le implicazioni di queste tecnologie sul processo decisionale e sulla formazione delle risultanze istruttorie?

Si tratta di due esempi di integrazione della tecnica nella decisione discrezionale, che mostrano, dal punto di vista empirico, come sia insostenibile la tesi di chi ritiene incompatibili i.c.t. e discrezionalità amministrativa.

Nel caso dell’urbanistica parametrica, l’amministrazione è in possesso di una serie di dati (ottenuti mediante l’internet delle cose e delle persone) che permettono di ricostruire i comportamenti degli individui – e dei flussi di individui – all’interno dello spazio urbano: si pensi ai dati relativi all’uso dei cellulari, agli accessi ai social network, all’uso di autovetture e monopattini elettrici.

Questi dati possono essere utilizzati, nel fermo rispetto del diritto alla privacy e con il divieto di profilare comportamenti individuali, per la creazione di modelli di sviluppo urbano, facendo uso di apposite i.c.t. disponibili sul mercato.

Si può sapere, ad esempio, quante persone si muovono da una stazione ferroviaria le sedi degli uffici, delle scuole, i musei ed altri edifici che attraggono flussi di persone nell’arco della giornata.

Sapendo come si muovono e comportano gli individui, si è in grado di comprenderne e soddisfarne i bisogni: ad esempio situando lungo il percorso dalla stazione al luogo di lavoro, ed attorno ai principali luoghi di lavoro, aree commerciali o verdi. Interpretando i dati si possono ideare anche interventi di rigenerazione urbana, valorizzando determinati edifici o aree dismesse a garanzia delle necessità della cittadinanza. Lo stesso può avvenire anche ai fini della regolazione dei flussi di traffico e per la predisposizione di servizi pubblici di trasporto locale adeguati o per la progettazione di percorsi ciclabili o pedonali.

Le possibilità applicative sono innumerevoli. L’aspetto più affascinante, dal punto di vista della struttura delle decisioni amministrative, è dato dal modo in cui le simulazioni ottenute mediante le i.c.t. possono orientare la ponderazione discrezionali di interessi e, dunque, guidare la stessa politica locale.

I vantaggi ed i rischi sono palesi e sono stati già menzionati in precedenza. Le soluzioni passano per un dialogo interdisciplinare fra urbanisti e giuristi, che merita di essere intensificato soprattutto ai fini dell’esplorazione delle nuove tecniche di modellizzazione urbanistica.

Quello che conta è che l’uso di questi strumenti sia noto alla cittadinanza, sia oggetto di dibattito nelle opportune sedi istituzionali, non occulti le responsabilità politico-amministrative di chi decide di avvalersi delle sue risultanze nei procedimenti di pianificazione territoriale e localizzazione delle opere pubbliche.

Altrettanto interessante l’esempio dei BIM, specie perché trova applicazione in un settore di grande rilevanza economico-giuridica, come quello dei contratti pubblici. L’art. 43 del nuovo Codice dei contratti pubblici prevede che il ricorso al BIM sia obbligatorio, da inizio 2025, per tutti gli appalti di lavori per un valore superiore ad un milione di euro. In tutti gli altri casi il ricorso ai BIM è comunque incentivato nell’ambito delle procedure di gara.

Il BIM consente di valutare e misurare tutto il “ciclo di vita” dell’edificio, con previsioni accurate dei costi derivanti dal suo impatto ambientale, dalla sua manutenzione e dal suo utilizzo nel corso del tempo. Esso consente, pertanto, di valutare l’impatto economico-sociale di un’opera, così da orientare l’agire dell’amministrazione appaltante verso le conseguenze delle proprie scelte ed azioni.

Anche da questo punto di vista, pertanto, la tecnica può orientare l’attività di progettazione e programmazione dell’attività amministrativa volta a gestire il patrimonio immobiliare, che un tempo si sarebbe pacificamente ascritta alla discrezionalità ed all’autonomia contrattuale degli enti pubblici. La discrezionalità non scompare, ma è sicuramente influenzabile dall’insieme dei dati a disposizione dei pubblici poteri, che contribuiscono a circoscrivere e determinare le alternative a disposizione della pubblica amministrazione.

Volendo trarre una sintesi da questi esempi reputo che essi incidano sul modo di esercizio del potere discrezionale nella parte in cui contribuiscono a focalizzare il problema amministrativo da risolvere, indicandone le possibili soluzioni già nella fase di raccolta e di selezione dei dati messi a disposizione del decisore pubblico.

Resta fermo che la scarsa trasparenza e controllabilità del percorso di raccolta e selezione dei dati può falsare l’intera procedura: su questi problemi devono concentrarsi ingegneri informatici e giuristi.

 

Riguardo alla tutela processuale, quali proposte avanzerebbe per garantire una cognizione piena del giudice amministrativo e per gestire le controversie legate all’uso dell’intelligenza artificiale, considerando la necessità di affidabilità dei periti e degli esperti coinvolti?

La domanda complica un quadro di per sé incerto: se, da un lato, è necessario garantire che il ricorso alle i.c.t. da parte delle amministrazioni debba essere sindacato dal giudice (amministrativo o ordinario, poco conta ai fini della questione), dall’altro ci si deve sempre interrogare sui limiti della cognizione del giudice.

Si tratta del dilemma che caratterizza, a tutti i livelli, il nostro sistema processuale.

L’esigenza di garantire una tutela piena ed effettiva – ai sensi dell’art. 24 Cost., dell’art. 6 Cedu, dell’art. 47 della Carta di Nizza e dell’art. 1 c.p.a. – giustifica una estensione del sindacato del giudice; al contempo, il principio di separazione dei poteri – evincibile dall’art. 101 Cost. e dall’architettura dell’intero c.p.a. – impone di limitare il sindacato entro i limiti dello scrutinio di legittimità delle decisioni amministrative, senza intrusioni nel merito delle scelte rimesse ai singoli enti.

Con riferimento all’uso delle i.c.t., il sindacato si deve quindi estendere ai profili procedimentali dell’attività di individuazione dei fabbisogni dell’amministrazione, di fissazione dei criteri di progettazione degli algoritmi, di applicazione degli algoritmi da parte dei tecnici e dei funzionari esperti.

Si tratterebbe di stabilire se l’attività sia conforme ai parametri generali stabiliti dall’art. 1 della l. n. 241/1990 – anche in termini di ragionevolezza, proporzionalità e cautela delle decisioni assunte – e se essa sia coerente con gli ulteriori parametri individuati dalla giurisprudenza amministrativa pronunciatasi sul tema a partire dall’uso degli algoritmi nell’ambito delle procedure di gara e nella formazione di graduatorie: conoscibilità dell’algoritmo, non esclusività dell’uso e necessario intervento dell’uomo, non discriminazione algoritmica (rinvio a Cons. Stato, Sez. VI, n. 8472/2019 ed alla giurisprudenza successiva).

Sarebbe invece precluso al giudice di valutare l’opportunità della scelta di ricorrere ad una data i.c.t. per affrontare un problema amministrativo, come pure di indicare quali parametri debbano essere utilizzati nella progettazione ed applicazione degli algoritmi.

In questa cornice, già abbastanza incerta, si inserisce il tema cruciale sollevato dalla domanda: se i funzionari amministrativi non sono normalmente in possesso delle cognizioni tecniche adeguate all’uso consapevole delle i.c.t., non può certamente dirsi che i giudici siano maggiormente provveduti, stante il loro usuale percorso formativo.

Questo implica che la cognizione dei fatti alla base di controversie in cui sia discusso l’uso delle i.c.t. implichi il ricorso a perizie, verificazioni e c.t.u. Il problema si sposta, allora, sulle capacità tecniche dei periti e dei consulenti, dal cui operato finisce per dipendere lo stesso esito della lite.

Da un punto di vista giuridico, la disciplina delle attività dei periti, verificatori e consulenti si esaurisce nelle scarne ma nitide previsioni degli artt. 19 e 20 c.p.a., che impongono la designazione di soggetti dotati di particolari competenze e privi di conflitti di interessi con le parti in lite.

Va da sé che queste disposizioni non bastano a risolvere il problema, metagiuridico, del necessario dialogo fra giudice, parti, ed esperti: i principi del giusto processo impongono di estendere anche a questi momenti il metodo del contraddittorio, ma a monte resta fermo il problema delle cognizioni necessarie all’operatività del contraddittorio stesso. Se non si ha chiaro cosa dire, o di che cosa si parla, il contraddittorio gira a vuoto e non produce attendibili verità processuali.

Anche rispetto a questo fenomeno, credo che le risposte del giurista debbano arrestarsi alla constatazione dei limiti della legislazione, che non può – né potrebbe – risolvere tutti i problemi derivanti dall’applicazione delle i.c.t. nel procedimento amministrativo e nel processo.

Questi problemi hanno, per lo più, matrici culturali: occorre formare ad ogni livello personale capace di governare le tecnologie, integrando formazione giuridica e tecnica nell’ambito di percorsi di specializzazione universitaria e post-universitaria adeguatamente strutturati.

Quanto vale per le amministrazioni vale, pur se in diversa misura, per i magistrati e per gli stessi avvocati.

 

 

 

a cura di 

Valeria Montani

 

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