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“La comunicazione per un processo di cambiamento”. L’intervista al Commissario Agcom Mario Morcellini

In un conteso segnato dall’incertezza, i media, anche locali, hanno la responsabilità di fornire strumenti di lettura e comprensione della realtà che riducano diffidenza e paura sociale.

Gli atteggiamenti “verso l’altro”, in particolare se diverso da noi, sono sempre più determinati dal tono e dai contenuti dei messaggi comunicativi e informativi che riceviamo dai media (tradizionali o innovativi) che, talora, indulgono ad una drammatizzazione del racconto. “Comunicare speranza e fiducia”, l’esortazione di Papa Francesco alla base del messaggio della 51ma giornata mondiale delle comunicazioni sociali, ha riproposto un tema che “ingaggia” la coscienza e la professionalità dei protagonisti della comunicazione e dell’informazione e che costituiscono “fattore critico” di una società che ha di fronte a se fenomeni epocali quali integrazione e multiculturalismo.

E’ questo il filo conduttore della riflessione che animerà l’incontro del prossimo 12 maggio “Comunicazione, accoglienza e fiducia nel racconto dei media”, in occasione della Cerimonia di consegna dei riconoscimenti del Premio per l’informazione del Lazio “Giubileo 2016”presso la sala Walter Togabi – FNSI, corso Vittorio Emanuele II 349 a Roma.

Il convegno, promosso dal Corecom Lazio, dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in collaborazione con il Vicariato di Roma, è organizzato con l’Associazione Forum Cultura, Pace e Vita. Dell’importante appuntamento ne abbiamo parlato, in esclusiva per Diritto Mercato Tecnologia, con il Prof. Mario Morcellini, Commissario Agcom e Presidente della Giuria del Premio.

Professore ci vuole raccontare come nasce questo progetto che vede coinvolte varie istituzioni?

Il Convegno ha una sua genesi culturale e istituzionale nell’ambito di una riflessione fatta dal presidente del Co.re.com. Lazio, Michele Petrucci, e degli altri componenti, ma anche da una serie di accademici, soprattutto afferenti all’Università “La Sapienza” e alla Lumsa, che hanno in varie sedi e in varie modalità collaborato a una specie di impostazione scientifica e culturale di questo evento, che quindi è interessante già a partire dalla sua genesi da come è stato immaginato, prodotto e poi realizzato.

Per questo sottolineo la fase della realizzazione perché è un bel caso di interazione istituzionale tra Co.re.com., quale organismo periferico dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, e gli atenei del territorio.

Tutto questo si è tradotto in diverse iniziative. Ne cito due che non hanno diritto di cittadinanza in questo convegno per ragioni di omogeneità che sono la rappresentazione dei nodi di genere nella comunicazione, quindi il nodo “donne e comunicazione” essenzialmente, e la trattazione del bullismo, del cyberbullismo e dell’aggressione nelle scuole e nell’adolescenza.

 Di questo grande progetto cosa possiamo trovare nel Convegno che si svolgerà il prossimo 12 maggio?

Sicuramente due delle linee culturali di questo progetto trovano sfogo nel convegno del 12 perché riguardano gli aspetti centrali: uno raccontato nel titolo e l’altro implicito nel fatto che alla fine della mattinata viene lanciato e consegnato il premio giornalistico “Giubileo” per la comunicazione nel Lazio.

Parto da questo secondo elemento perché è certamente quello più stigmatizzante dell’evento.

Durante l’anno giubilare ci sono state diverse iniziative promosse dal Co.re.com., quella che mi preme segnalare è l’idea di entrare nella tematica di come i media riescono a raccontare un evento religioso che solo religioso non è. Il Giubileo è, infatti, un evento anche di marketing, civile, economico, di importanza strategica, ma certamente promosso da un’istanza religiosa, che quindi rientra nella riflessione così cara a molti accademici, tra i quali mi ricomprendo, su quanto la comunicazione contemporanea con la sua sbadata attenzione alle mode, all’attualità, alle campagne aggressive riesce a trovare uno spazio di mente e di restituzione per un evento che cambia il panorama della metropoli di Roma quale è il Giubileo.

Secondo Lei i media sono in grado di raccontare correttamente il Giubileo, cogliendo l’importanza, diretta o indiretta che sia, per i cittadini, quali spettatori laici, e per i fedeli, quali pellegrini?

Ad una prima lettura la risposta è negativa. I media non sono in grado di cogliere appieno la potenza di un messaggio come quello inventato da Bonifaccio VIII, oltre sette secoli fa, di convocare a Roma, sulla tomba di Pietro, i pellegrini con l’impatto che tutto ciò porta con sé nel tempo e nelle culture; è un impatto troppo profondo per la sbrigativa attenzione dei nostri media. 

Perché secondo Lei?

I media sono oggi attratti da altre cose, per cui devono faticare a contestualizzare l’informazione, a realizzare un serio accompagnamento informativo e di promozione.

Proprio per questo è nata l’idea di segnalare non i casi in cui i media “non ce la fanno” – perché è un esercizio troppo facile e noi non vogliamo avere la penna rossa per correggere eventuali storture – preferendo segnalare i casi positivi di impegno, di capacità di restituzione e, comunque, di capacità di mettere in linea l’importanza di un evento con la narrazione delle sue ricadute nella quotidianità del sistema informativo e comunicativo italiano.

Insisto che poche volte si è capito quanto il Giubileo sia una invenzione straordinariamente post-moderna. Tutti pensano a Bonifacio, alle invettive di Dante contro la vendita delle indulgenze, alla simonia della distorsione delle risorse spirituali versus risorse economiche, ma nessuno coglie l’aspetto di invenzione della modernità: un Papa che scopre un tipo di evento che farebbe la fortuna di qualunque sociologo della comunicazione contemporanea.

Si è infatti assistito alla costruzione intorno all’evento religioso di un movimento che cambia le società e l’economia. Basti ricordare che molte vie del centro di Roma, come via dei coronari, traggono i loro nomi dalle professioni legate a quello che oggi chiameremmo turismo religioso. Tutto ciò è stato inventato da Bonifaccio nel 1300, anzi un po’ prima se è vero che, come ci è stato raccontato da Giotto, il Giubileo è stato bandito alla fine dell’anno precedente.

Se pensiamo che tre anni dopo questo evento Bonifaccio inventa anche La Sapienza, cioè costruisce a Roma, città cuore della cristianità ma che ancora non era una capitale politica, uno studium urbis, si capisce la capacità di questo Papa che è stato quasi sempre sottoposto ad una revisione indispettita e laicistica di regalare stimoli alla modernità. Basterebbe solo questo ad assegnare a Bonifaccio un ruolo fondamentale nella storia.

Tutto questo fa capire perché ci siamo accaniti sulla narrazione giornalistica.

 Quali esiti ha avuto l’indagine condotta?

La risposta non è stata esaltante, non abbiamo avuto un numero amplissimo di pezzi, ma proprio per questo ci è sembrato giusto segnalare i casi di maggiore efficienza della narrazione.

 Come ha lavorato la Giuria del premio da Lei presieduta?

Abbiamo lavorato ovviamente su una modalità tipica della giuria ovvero quello della rilevanza degli argomenti, quello della capacità di innovazione e di contestualizzazione e di uno sguardo largo, non solo confessionale, come è giusto che si richieda ad una istituzione pubblica. Quindi siamo molto soddisfatti di questa idea che consideriamo un tassello che resterà nella storia del Co.re.com. del Lazio.

 E come è stato individuato il tema del convengo?

Il convegno assume un significato e un titolo molto più impegnativi poiché cerca di mettere in relazione la comunicazione e il racconto dei media con l’accoglienza e la fiducia.

Questo è un altro di quei nodi che impone di dire un po’ di verità, di non accontentarsi delle solite banalità di dire che la comunicazione è importante, che la comunicazione è un presidio alla democrazia, perché non è così. Lo è solo quando funziona, quando riesce a essere un elemento di sostegno alle persone nei processi di cambiamento. Ed ecco che, allora, interpellare la comunicazione contemporanea, compresa l’informazione, alla luce di due parole chiave dei nostri valori come accoglienza e fiducia diventa fondamentale.

 Quale è secondo Lei lo stato di questa relazione?

La risposta è diversa per la comunicazione e per l’informazione.

La comunicazione sembra più capace di incalzare i bisogni di vivere il proprio tempo dei contemporanei, quindi rispetto al giornalismo che è un po’ attardato su scelte di rappresentazione un po’ oligarchiche, la comunicazione è più larga, più capace di avere una cosmologia di interessi che sono in qualche misura sovrapponibili con i bisogni degli uomini. Cioè la tavola dei bisogni dei moderni è indiscutibilmente abbastanza riconoscibile nei temi della comunicazione: la finzione, l’intrattenimento, l’informazione, ma soprattutto la sintonia.

C’è una frase di una studiosa di consumi culturali che diceva “gran parte dei bisogni umani sono soddisfatti dal consumo”, questa frase è stata a lungo citata ed è un falso. Appare invece ben più vero rovesciare questa frase ovvero che gran parte di bisogni umani sono anzitutto affrontati e messi in scena dalla comunicazione. Sul rapporto tra comunicazione e fiducia, dunque, la comunicazione se la cava, ma anche li c’è, purtroppo, un residuo di cronaca nera, di incattivimento che troveremo di più nell’informazione. Però devo ammettere che se si interroga la comunicazione dal punto di vista del capitale sociale, cioè della fiducia che riesce a instillare, la diagnosi è ancora problematica, ma sostanzialmente positiva.

 E per il giornalismo e l’informazione?

Per loro non vale quanto appena detto, lì occorre cominciare a dubitare che i media informativi stiano sempre più oscillando tra essere portatori di interessi politici indiretti, non forme di collateralismo come in passato, cioè non da alleanze di offerte politiche che nascono nella società, ossia movimenti politici legittimamente nati nella società e che la comunicazione amplifica e di cui qualche volta si è fatta portatrice, ma veri e propri promotori di formazione di idee politiche indirette e dunque quasi costruttori di un meccanismo di racconto della politica in cui la socializzazione della politica è una socializzazione contro la politica.

Non si è mai assistito ad un mutamento di questo tipo nella storia dei media, cioè che i media si mettono ad essere non più alleati della società, ma attaccanti delle istituzioni, aggressivi portatori di campagne contro il buon andamento delle cose. Questo è un rischio che occorre additare con grande fermezza perché si chiama informazione, non si chiama manipolazione degli animi e del cuore. È molto più facile promuovere critica e anonia che promuovere socialità e fiducia. In questo lasso sta l’onore dei media, se scadono nella trappola di essere semplicemente promotori di forme di disgregazione sociale rischiano di diventare i genitori illegittimi delle “fake news”, cioè di tutto ciò che arriva ad una degradazione del concetto di informazione.

Quali soluzioni, dunque, vede nel futuro dei media?

Il rischio dei media non è quello di essere quello che diceva Pansa, prima maniera, “quasi partiti”, ma quello di essere consapevolmente uno strumento di ipertensione dell’animo e del cuore delle persone.

Nell’epoca dei cambiamenti sociali accelerati e della crisi economica, nell’epoca delle tante crisi che attanagliano soprattutto i giovani, ma in generale le società, non cogliere l’aspetto che la comunicazione e il giornalismo debbono dare ai soggetti strumenti di comprensione della realtà prima di instillare visioni politiche e ideologiche significa, in qualche modo, limitarsi al compito di essere un Savonarola culturalmente ingiustificato nel nostro tempo. Savonarola se l’era guadagnato il titolo, perché è stato coerente fino in fondo, i media si limitano ad essere disgregatori del sistema sociale e politico senza una vera e propria proposta alternativa. Quindi occorre una grande fermezza di analisi nel capire che noi dobbiamo vigilare più di sempre non sul giornalismo, ma sulla distorsione delle narrazioni giornalistiche assumendo letteralmente un compito di calmiere, cioè di denunciare gli eccessi critici delle narrazioni.

Nessuna società, neanche digitale, può vivere semplicemente accendendo l’ipertensione degli esseri umani perché tutti pagherebbero il conto di un pizzo a una comunicazione drammatizzante che finirebbe poi per essere vittima di sé stessa.

 

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