La Prof.ssa Virginia Zambrano è PhD in Diritto Civile presso l'Università di Napoli, attualmente è docente…
La messaggistica WhatsApp è prova documentale
di Luigi Annunziata* Con la sentenza n. 1822 del 16 gennaio 2018, la V Sezione della Suprema Corte sembra porre fine al dibattito in ordine alla natura ed alla utilizzazione – nell’ambito del processo penale – delle conversazioni e delle comunicazioni che sfruttano la nota applicazione WhatsApp, ossia quello che è oramai diventato il più comune software di messaggistica istantanea.
Proprio il capillare sviluppo e la rapida diffusione del suddetto mezzo di comunicazione, sempre più spesso propedeutico alla commissione di reati di vario genere, ha comportato l’insorgenza di numerose questioni concernenti – tra l’altro – la natura giuridico-processuale dello strumento, le tecniche di acquisizione e di conservazione dei flussi di dati in esso contenuti, nonché gli eventuali limiti alla utilizzabilità del dato euristico.
Con particolare riguardo alla natura dello strumento in parola ed alla sua riconducibilità nell’alveo di questo o di quel mezzo di prova tipico (ovvero di questo o di quel mezzo di ricerca della prova), si deve rammentare come – negli ultimi anni – si siano confrontati indirizzi interpretativi divergenti sia negli approcci che nelle conclusioni: ad ogni modo, il tema centrale attorno al quale ruotano tali indirizzi attiene sempre al concetto di “flusso informatico”.
Secondo un primo orientamento, uno scambio di messaggi perfezionatosi attraverso WhatsApp (o altro strumento simile) ovvero una corrispondenza e-mail effettivamente intrattenuta tra due o più soggetti costituirebbero tipici esempi di “flusso informatico”, con conseguente integrazione dei presupposti utili a consentire l’applicazione della disciplina in materia di intercettazioni telematiche di cui all’art. 266 bis c.p.p.: potrebbero dunque essere oggetto di intercettazione anche i messaggi (già inviati o ricevuti) giacenti nell’account di posta elettronica o nella memoria del dispositivo elettronico nella disponibilità dell’utente-obiettivo (in tal senso, Cass. pen., sez. IV, 28 giugno 2016 – dep. 30 settembre 2016, n. 40903); aderendo alla soluzione de qua, la Suprema Corte ha ritenuto legittimo il ricorso alla disciplina delle intercettazioni telematiche con riguardo alle conversazioni intrattenute attraverso le chat in dotazione ai telefoni Blackberry (in tal senso, Cass. pen., sez. III, 9 marzo 2016, n. 17193; Cass. pen., sez. III, 23 dicembre 2015, n. 50452).
Ne deriverebbe che, per potersi legittimamente acquisire le conversazioni in parola al procedimento penale, l’autorità giudiziaria dovrebbe agire nel pieno rispetto della disciplina dettata in materia di intercettazioni agli artt. 266 ss. c.p.p.
Viceversa, secondo altro orientamento, la natura e la qualificazione dello strumento di cui si tratta dipenderebbe dalla tecnica investigativa impiegata per l’acquisizione o per la captazione della conversazione: se l’apprensione del messaggio avviene in modo occulto, cioè attraverso l’intervento del gestore telefonico o per mezzo del captatore informatico, allora si tratterebbe di una intercettazione (con conseguente applicazione della normativa di riferimento); se invece avviene in modo palese (seppur “a sorpresa”), cioè all’esito di una attività perquirente, si tratterebbe di un sequestro probatorio.
Ebbene, la pronuncia in commento diverge da entrambi gli indirizzi appena riportati, aderendo – secondo argomentazioni del tutto condivisibili – ad un terzo orientamento dottrinale e giurisprudenziale.
In buona sostanza, la Suprema Corte afferma che «i dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono in uso all’indagata (sms, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio cellulare) hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 cod. proc. pen.», aggiungendo che «la relativa attività acquisitiva non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche».
Quanto infatti al sequestro di corrispondenza, le conversazioni WhatsApp non possono essere assimilate al concetto di “corrispondenza” di cui all’art. 254 c.p.p., la cui nozione implica un’attività di spedizione in corso o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi di una qualsivoglia comunicazione per il recapito della stessa al destinatario (in tal senso, Cass. pen., sez. III, 25 novembre 2015 – dep. 13 gennaio 2016, n. 928): attività, queste, che non si rinvengono nelle ipotesi in considerazione, in cui il flusso di messaggi risulta già inviato/ricevuto e giace sul dispositivo in uso all’indagato.
Quanto poi alle intercettazioni (telefoniche o telematiche che siano), l’acquisizione investigativa delle conversazioni WhatsApp si risolve nella mera estrapolazione postuma del flusso di dati dal dispositivo oggetto di indagine, mancando dunque qualsivoglia attività captativa in senso stretto, la quale – per sua natura – postula l’intercettazione di un flusso di comunicazioni in corso di svolgimento, ossia “in tempo reale”: ancora una volta, nulla di tutto ciò si verifica nelle ipotesi in considerazione.
Pertanto, per l’acquisizione della messaggistica WhatsApp agli atti del procedimento penale (e, nello specifico, al fascicolo delle indagini preliminari), si deve ricorrere ad altri mezzi di ricerca della prova, con particolare riguardo al sequestro probatorio del dispositivo sul quale risulti conservata la conversazione: una volta sequestrato il dispositivo, i dati digitali potranno essere appresi ed acquisiti come documenti, possibilmente – come affermato anche dalla Suprema Corte nella sentenza in commento – eseguendo la c.d. copia forense del dispositivo medesimo, sì da garantire l’integrità e l’affidabilità del dato probatorio.
Ne deriva che la messaggistica WhatsApp, automaticamente conservata nel dispositivo sul quale risulta installata tale applicazione, costituisce una forma di memorizzazione di un fatto storico, della quale può dunque legittimamente disporsi ai fini probatori, essendo comunque producibile ed acquisibile agli atti processuali quale prova documentale.
Discorso diverso dalla acquisizione del dato è, però, quello riguardante la sua utilizzabilità: si tratta di un tema legato a doppio filo proprio alla integrità ed alla affidabilità di cui si è detto, solo sfiorato dalla sentenza in commento nel passaggio motivazionale dedicato alla auspicabile effettuazione della copia forense del dispositivo elettronico; la centralità del tema merita comunque qualche breve riflessione.
Difatti, come noto, la realizzazione della copia forense non è sempre possibile, sia per ragioni tecnico-informatiche sia perché – molto semplicemente – l’acquisizione della messaggistica WhatsApp viene spesso richiesta dall’imputato nel corso del dibattimento, senza che – durante le indagini preliminari – sul di lui dispositivo sia mai stato apposto un vincolo di indisponibilità: va da sé che imporre, quale condizione insuperabile per l’acquisizione della messaggistica WhatsApp, la copia forense del dispositivo rappresenterebbe una ingiusta compressione del diritto di difesa dell’imputato.
In queste situazioni (peraltro le più frequenti), la giurisprudenza di legittimità ha correttamente stabilito che l’utilizzazione del dato probatorio deve ritenersi condizionata alla acquisizione processuale del dispositivo contenente la conversazione o la comunicazione, poiché la relativa trascrizione svolge una funzione meramente riproduttiva della prova documentale: diventa infatti fondamentale – ai fini della utilizzabilità processuale del dato – il controllo giudiziale in ordine alla affidabilità della prova, da esercitarsi mediante l’esame diretto del dispositivo, onde verificare con certezza sia la paternità della memorizzazione sia l’attendibilità di quanto dalla stessa documentato (in tal senso, Cass. pen., sez. V, 19 giugno 2017 – dep. 25 ottobre 2017, n. 49016; Cass. pen., sez. II, 6 ottobre 2016, n. 50986; Cass. pen., sez. V, 29 settembre 2015 – dep. 2 febbraio 2016, n. 4287).
Non v’è dubbio, infatti, che le prove digitali sono caratterizzate da una intrinseca fragilità, in quanto facilmente soggette ad alterazioni, danneggiamenti o modificazioni da parte di coloro i quali si trovino a poterne o doverne disporre: le criticità concernenti il momento della acquisizione ed utilizzazione processuale attengono dunque alle fasi precedenti, vale a dire a quelle della raccolta e della conservazione dei dati informatici, le quali necessitano di accorgimenti idonei ad assicurare l’adozione di un sistema che risulti capace di garantire l’integrità e la non alterabilità della prova.
Per tali ragioni, l’unico strumento processuale geneticamente in grado di soddisfare tali fondamentali esigenze sembra essere quel mezzo di prova tipico che va sotto il nome di “perizia”: l’accertamento tecnico-informatico sul dispositivo contenente la conversazione WhatsApp da acquisire sembra infatti l’unico meccanismo idoneo a fotografare lo scheletro del flusso di dati in questione, attestandone la genuinità o – al contrario – facendo emergere eventuali manomissioni.
*Avvocato e Dottore di Ricerca in Diritto e Procedura Penale – Università Sapienza di Roma