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“L’Appunto” di Gustavo Ghidini. Strategic patenting: il problema della “brevettazione strategica” e dei “poor quality patents”.

L’Appunto

una rubrica a cura di

Gustavo Ghidini

 

L’Appunto è una rubrica mensile, una finestra di approfondimento per il giurista moderno che affronta le sfide e gli inevitabili interessi in gioco posti in essere da una realtà socio-economica e culturale sempre più complessa, espressiva e poliedrica.

La rubrica è curata dall’Avv. Prof. Gustavo Ghidini, Professore Emerito nell’Università degli Studi di Milano, Senior Professor di Diritto industriale e delle Comunicazioni nell’Università Luiss Guido Carli. Direttore dell’Osservatorio di Proprietà Intellettuale, Concorrenza e Comunicazioni dell’Università LUISS Guido Carli. Fondatore e Condirettore della Rivista “Concorrenza e Mercato” (Giuffré); Condirettore della Rivista “Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo (AIDA)” Giuffrè. Membro dell’Editorial Board del “Queen Mary Journal of Intellectual Property” del Queen Mary Intellectual Property Research Institute, University of London e membro del Comitato Scientifico della “Rivista italiana di antitrust“.

 

Avv. Prof. Gustavo Ghidini

 

 

 Strategic patenting: il problema della “brevettazione strategica” e dei “poor quality patents”.

 

 

Seppur poco frequentemente, almeno sinora, l’esercizio stesso del diritto al brevetto è stato preso in considerazione come possibile violazione antitrust, quale abuso di posizione dominante. (Ciò ovviamente ferma restando la diversa possibilità che, anche in assenza di una posizione dominante, richieste di accesso al titolo infondate o addirittura fraudolente possano trovare adeguati rimedi e sanzioni nella legislazione IP – si pensi ad esempio all’azione di nullità ex art. 122 del Codice della Proprietà Industriale . O, nella legge penale, alla normativa in tema di frode consumata o tentata ).

Uno dei casi più noti è AstraZeneca (CGUE, 2012 Causa C-457/2010), in cui un certificato di protezione supplementare (SPC: titolo introdotto nel sistema dei brevetti europei dal regolamento del Consiglio (CEE) 1768/1992) era stato ottenuto anche grazie a informazioni errate fornite agli Uffici brevetti.

Dopo Astrazeneca, un altro abuso di posizione dominante compiuto per accedere al titolo è stato accertato sia dalla nostra AGCM (prov. n. 23194, 11 gennaio 2012, caso A431, sia dal Consiglio di Stato (sentenza del 12 febbraio 2014, n. 693), nel caso Ratiopharm/Pfizer.

Questo secondo caso è più complesso e interessante di quello di Astrazeneca, in quanto il comportamento di Pfizer, fatto di singole ‘mosse’ in sé lecite, fu valutato ,appunto, come un abuso di posizione dominante, in quanto espressione di un’astuta complessiva manovra messa in atto per aggirare – soprattutto grazie a ben calcolati ritardi nel deposito presso gli uffici brevetti italiano e spagnolo – i termini per depositare una domanda di brevetto divisionale su un farmaco anti-glaucoma, riconosciuto come lo standard de facto nel mercato delle prostaglandine.

La condotta di Pfizer si componeva, ripeto, di passi che erano ciascuno di per sé legali, corrispondenti a poteri conferiti dal diritto della proprietà intellettuale. Ma la loro sinergia, e la concomitanza di varie circostanze rivelatrici, convinsero i giudici che la manovra complessiva costituisse un abuso del diritto al brevetto, realizzato da un’impresa in posizione dominante per ritardare l’entrata sul mercato dei concorrenti produttori di farmaci “generici”.

La condotta di Pfizer può essere classificata come una forma di “strategic patenting”.
Il termine evoca un insieme di eterogenee pratiche unilaterali (spesso pittorescamente denominate da economisti e manager), volte essenzialmente ad arricchire e/o tenere in vita(evergreening), nonostante la scadenza del titolo l’arsenale brevettuale e la sua capacità ‘offensiva’. Pratiche , tipicamente, ma non esclusivamente, attuate da grandi imprese, detentrici di ampi portafogli di diritti di proprietà intellettuale.
Si pensi, ad esempio, al cosiddetto ‘product hopping’ – l’introduzione sul mercato, nella imminenza della scadenza di un precedente brevetto – di “nuove” versioni del prodotto con pseudo-miglioramenti, , per il quale si richiede la protezione brevettuale nel tentativo di mantenere in vita la posizione esclusiva Oppure, sempre ad esempio, al cosiddetto ‘patent hoarding ‘, l’accaparramento di brevetti che non si riferiscono alla specifica linea tecnologica della propria azienda (e sono quindi industrialmente ‘inutili’ per l’accaparratore ), ma che vengono ‘rastrellati’ per impedirne l’acquisto e lo sfruttamento da parte dei concorrenti, oppure per farne solo e specificamente oggetto di
commercio (cessioni o licenze) con terzi . O, ancora, alla creazione di una fitta rete di brevetti – c.d. patent thickets o patent clusters – riguardanti diverse formulazioni della stessa invenzione, al fine di creare incertezza sull’ambito (o, come nel caso di continui depositi di domande divisionali, sulla durata stessa ) della protezione. E così via.

Prese insieme, queste e altre pratiche sono essenzialmente il risultato di due fattori ‘a monte’. Uno, economico, è la tendenza alla concentrazione, particolarmente intensa nei mercati ‘avanzati’, tra cui quello farmaceutico (e quello dei media digitali), che si muove costantemente verso strutture oligopolistiche che richiedono politiche aziendali e/o di gruppo sempre più ad ampio, ‘strategico’ raggio, per la valorizzazione dei propri assets competitivi, fra i quali emergono ovviamente le esclusive legali.
L’altro fattore è scientifico e tecnologico, ed è rappresentato dal rallentamento, più accentuato in certi settori, dell’innovazione ‘d’avanguardia’ : sono anni e anni, per esempio, che non vengono sviluppati antibiotici efficaci contro ceppi di batteri sempre più resistenti. Da qui la esigenza di difendere con sempre maggiore cura, anche con artificiosi ‘ringiovanimenti’, i titoli esclusivi sulle innovazioni realizzate in passato.

Dal punto di vista giuridico, poiché, come detto, queste pratiche si avvalgono frequentemente delle facoltà concesse dal regime giuridico della proprietà intellettuale, il confine tra attività lecite e condotte assimilabili ad un “abuso” è spesso sottile (salvo casi eclatanti, come la promozione, a scopo defatigatorio/ricattatorio, di liti temerarie—sham litigations ). E deve pertanto essere cautamente ricercato con una attenzione … aristotelica alle circostanze specifiche del singolo caso. Circostanze oggettive specifiche, vorrei sottolineare, poiché l’intenzione soggettiva di “distruggere” i concorrenti è permanentemente, fisiologicamente associata alla lotta per il mercato.

E così, ad esempio, rispetto ai casi di ‘accaparramento’, per separare il grano dalla pula, le autorità della concorrenza dovrebbero individuare, da un lato, i casi in cui i brevetti ‘rastrellati’ siano effettivamente destinati a rafforzare il core business del titolare del brevetto (cosa che non può certo essere vietata: tranne che nel caso delle concentrazioni, il vigente diritto della concorrenza non consente di dire alle imprese ” non crescete troppo”).

Con lo stesso grano di sale, il via libera dovrebbe essere viceversa negato quando, ad esempio, l’accaparramento riguardi brevetti che l’azienda non usa effettivamente, né si prepara ad usare nella propria azienda, bensì li usa per tagliare l’erba sotto i piedi dei rivali impegnati nella ricerca di tecnologie sostitutive.

La linea di politica del diritto sottesa alla impostazione or ora evocata è abbastanza evidente. Si tratta di una politica che mira a ‘liberare la concorrenza’ da ostacoli ingiustificati attraverso un approccio strettamente selettivo all’accesso ai brevetti e/o alla protezione autoriale delle tecnologie.

Questa linea appare del tutto coerente con la parallela tendenza ( in Italia non dominante) a delegittimare, e così disincentivare, i ‘poor quality patents’—ideazioni di scarsissimo valore innovativo. Qui è d’obbligo richiamare la decisione KRS Int’ v. Teleflex (550 US 2007), in cui la Corte Suprema ammonì il Patent Office ad alzare l’asticella della non-ovvietà al di sopra della “ordinaria
innovazione”, sottolineando il rischio che altrimenti l’innovazione – la vera innovazione – venisse ostacolata.
Certo, questa non è una direzione facile da percorrere in un’epoca caratterizzata dalla cosiddetta innovazione incrementale. Ma è giusto combattere il rischio di facilitare la diffusione, grazie a brevetti di scarsa qualità , di ostacoli (“legali”!) ingiustificati sul cammino dei concorrenti innovativi.

Il rischio di un’inflazione di ostacoli ingiustificati alla concorrenza è Il rischio di un’inflazione di ostacoli ingiustificati alla concorrenza è ancora più evidente, e grave, in relazione alla protezione da copyright del software: e questo grazie al basso livello di ‘creatività’ tradizionalmente ammesso per accedere alla protezione autoriale: e ciò, come noto, in nome della libertà di espressione. Ora, un basso livello di selettività era, ed è, giustificato rispetto alle tradizionali opere storicamente soggette al diritto d’autore: opere artistiche e scientifiche: opere. dunque di fruizione meramente intellettuale, non utilitaria. Ma il software – nonostante la sua fittizia e strumentale assimilazione (prima negli Stati Uniti e poi anche in Europa) alle ‘opere letterarie’, è in realtà solo tecnologia, anzi: è ‘la’ tecnologia dell’epoca contemporanea. Quindi la sua ‘creatività’ dovrebbe essere valutata con lo stesso rigore che la SC statunitense, in KRS, ha giustamente preteso per i brevetti.

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