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“Misure in materia fiscale per la concorrenza nell’economia digitale”

(Disegno di legge di iniziativa On. Massimo Mucchetti testo completo) Onorevoli Senatori. — Le pratiche di ottimizzazione fiscale delle maggiori multinazionali, specialmente di quelle dei servizi informatici e digitali, fanno sempre più leva sull’arbitraggio tra le normative nazionali, spiazzando i governi, in particolare quelli dell’Unione europea. Secondo uno studio dell’OCSE (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) del 2015, le imposte evitate dal big business oscillano tra i 100 e i 240 miliardi di dollari l’anno, ossia tra il 4 e il 10 per cento del gettito globale delle tasse sulle imprese. Un fenomeno che innesca e alimenta profondi contrasti di interessi tra i Paesi europei più piccoli, i Paesi più grandi e gli USA.

Stati come l’Irlanda, l’Olanda, il Lussemburgo e anche il Belgio hanno abbassato la tassazione del reddito d’impresa fin quasi ad annullarla. Emerge una relazione inversamente proporzionale tra dimensione demografica e aliquote fiscali tale per cui i Paesi più piccoli tendono a compensare la riduzione del gettito proveniente dagli utili imponibili delle imprese con i benefici effetti sull’economia, che derivano dagli investimenti e dai salari provenienti dalle multinazionali attratte dai vantaggi fiscali. Vantaggi, si badi bene, loro assicurati non solo dalla modestia delle aliquote ma anche da ancor più accomodanti tax ruling. È eloquente a tal proposito la reazione negativa del governo di Dublino alla disposizione della Commissione UE di recuperare 13 miliardi, più gli interessi, evasi dalle società irlandesi di Apple tra il 2003 e il 2013. Per quanto tale somma possa essere ingente rispetto al bilancio dello Stato irlandese, i vantaggi derivanti dallo scambio tra le imposte evitate e le risorse apportate dalle multinazionali instaura un interesse nazionale a difendere lo status quo più forte di quello al recupero di gettito.

I Paesi di maggior dimensione, avendo società più vaste e complesse, mostrano una maggiore difficoltà a funzionare come paradisi fiscali de facto. La pressione fiscale può variare molto da Paese a Paese, ma non potrà mai tendere verso lo zero o il quasi zero. Lo stesso Regno Unito, che presenta il regime fiscale più amichevole verso il big business tra i regimi dei Paesi maggiori, viene considerato poco attraente da multinazionali britanniche come la farmaceutica AstraZeneca.

Gli USA soffrono anch’essi di questa difficoltà, come si evince dal crescente stock di profitti concentrati nelle giurisdizioni più convenienti dalle multinazionali statunitensi, circa 2 trilioni di dollari, al puro scopo di evitare l’imposta nazionale del 35 per cento sull’utile. E tuttavia il governo di Washington difende comunque gli interessi di queste aziende al punto di rifiutarsi di affrontare la questione fiscale nei negoziati per il TTIP (il partenariato transatlantico su commercio e investimenti) e, ora, di aprire un contenzioso politico e giuridico con la Commissione UE che ha sanzionato l’Irlanda e, indirettamente, Apple.

Le principali ragioni degli USA sono tre, e vanno ricordate per inquadrare la soluzione proposta dal disegno di legge, che stiamo illustrando, nell’odierno contesto internazionale:

a) l’amministrazione fiscale statunitense mira a tassare l’utile consolidato delle grandi multinazionali ovunque si formi nel mondo;

b) le multinazionali cosiddette Over The Top (OTT) hanno quasi tutte la sede centrale e la ricerca negli USA e dunque assicurano un vantaggio competitivo al Paese nel mercato globale tale per cui la posizione delle OTT viene difesa anche sul mercato domestico: per esempio, nel confronto con le telecomunicazioni, attività molto più diffusa nel mondo e dunque meno strategica ai fini del primato americano, sulle politiche della concorrenza;

c) pur scontando temporanee contrapposizioni, come quella tra Apple ed Fbi sulla privacy degli iPhone, le OTT sono assai legate alla Casa Bianca e ai suoi inquilini, come documenta l’inchiesta «The Android administration», fatta dal giornale on line «The interceptor» e citata dal «Corriere della Sera» con particolare riguardo all’intreccio strettissimo fra Google e la presidenza obamiana.

Questa situazione distorce la concorrenza. Lo ha riconosciuto, del resto, la Commissione UE sulla questione dei tax ruling rilasciati dall’Irlanda ad Apple. Più in generale, si dovrà valutare se non sia arrivato il momento di definire su scala consolidata globale la base imponibile delle multinazionali, alla quale verrebbero poi applicate le diverse aliquote fiscali nazionali. Aliquote che sopravviverebbero almeno fino a quando non si avrà un’armonizzazione fiscale completa su scala europea come fu quella raggiunta nel secolo XIX su scala nazionale dall’unificazione di Germania e Italia. Ma ai fini del disegno di legge che stiamo illustrando basterà ricordare come distorsione della concorrenza possa manifestarsi su tre piani principali:

a) tra le OTT e le imprese che competono nello stesso settore: per esempio, nel settore della pubblicità, si è ormai consolidata da anni una situazione di privilegio a vantaggio di Google e Facebook, che accentrano ricavi e redditi imponibili in giurisdizioni fiscali di comodo e a svantaggio delle altre imprese europee, che pagano le imposte agli Stati nazionali dove realizzano ricavi e reddito;

b) tra le OTT e le altre imprese che producono e distribuiscono beni e servizi diversi da quelli digitali dematerializzati, ma non certo meno utili alla collettività;

c) tra le OTT e le altre imprese in genere nell’accesso al mercato dei capitali che si regola sui bilanci di ciascuna impresa.

Il fenomeno è ancora relativamente nuovo ma si va estendendo rapidamente. E si associa — in Italia ma non solo — alla più tradizionale migrazione delle grandi società, specialmente se holding, verso Paesi a normativa fiscale più accomodante e a normativa societaria più protettiva degli assetti di controllo. Di conseguenza, le fonti di entrata della finanza pubblica vengono sempre più erose. Con esse, viene insidiato il principio costituzionale dell’eguaglianza davanti alla legge. E tuttavia la principale ragione di un tale gravissimo fenomeno può anche non essere sempre riconducibile alla violazione delle norme vigenti. Non sempre siamo di fronte, quantomeno in prima battuta, a sofisticate tecniche di evasione fiscale. Siamo di fronte, piuttosto, ad una più semplice evoluzione della modalità di realizzazione di redditi in contesti internazionali dove le norme risultano ormai obsolete e dunque consentono, di fatto, quegli arbitraggi fiscali, lesivi dell’interesse nazionale della maggioranza degli Stati nei quali i redditi vanno a formarsi, ai quali abbiamo fatto cenno all’inizio.

Le norme applicabili in un contesto tributario internazionale richiedono, infatti, che le imprese residenti di un Paese (per ipotesi: l’Irlanda) siano tassabili nel Paese in cui realizzano anche abbondanti profitti (per ipotesi: l’Italia) solo a condizione di avere ivi impiantato una «stabile organizzazione» ovvero una sede materiale fissa. Ne consegue che, ove la stabile organizzazione non ci sia, l’Italia non ha il diritto di tassare i profitti derivanti da ricavi realizzati sul suo suolo. Essi saranno tassati in Irlanda. E questo Paese avrà il duplice — e ingiustificato — beneficio di mantenere saldamente legata al suo territorio un’attività con caratteri mondiali e di percepire entrate fiscali a fronte di redditi realizzati altrove, magari basse in termini di aliquote reali ma altissime in cifra assoluta.

Una tale modalità di individuazione del Paese, al quale compete la tassazione di un certo profitto, era giustificata al tempo in cui le attività si potevano svolgere in altri Paesi solo costruendovi fabbriche, catene di negozi e palazzi per uffici con legioni di dipendenti. Ma ha ancora senso oggi? Per le attività di quella che si usa chiamare old economy probabilmente sì. Per le attività digitali dematerializzate, certamente no. Occorre, quindi, superare o almeno aggiornare il concetto di «stabile organizzazione».

La questione è ben nota fra gli specialisti di diritto tributario internazionale tanto che se ne è di recente occupata anche l’OCSE (cfr. Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy. Action 1, Final Report 2015, presentato il 5 ottobre 2015) e la stessa Commissione europea (cfr. Commission Expert Group on Taxation of the Digital Economy del 28 maggio 2014). In particolare le conclusioni cui giunge l’OCSE, senza prendere posizione definitiva sul tema, suggeriscono agli Stati che intendono anticiparne le mosse di farlo nel rispetto dei relativi impegni convenzionali e mediante adozione di misure che vi si adattino («adaptation to ensure consistency with existing international legal commitments». Action 1, Executive Summary). Misura, questa, che è stata di fatto anticipata dalla Gran Bretagna attraverso la cosiddetta Diverted Profit Tax varata con il Financial Bill del 2015. La nuova legge britannica non porta di per sé un colpo mortale all’elusione fiscale delle OTT. Basti considerare quanto l’accordo raggiunto all’inizio del 2016 dal ministro Osborne con Apple in applicazione della Diverted Profit Tax comporti un recupero fiscale nettamente inferiore in cifra assoluta e in percentuale sul giro d’affari all’accordo che la stessa Apple ha raggiunto con l’Agenzia delle entrate italiana. E tuttavia la legge britannica segna un principio. Che non è stato contestato in sede UE.

Ora, pur considerando preferibile un intervento incisivo e definitivo dell’OCSE sull’argomento, e pur lasciando i profili IVA alla Commissione UE, che ne ha la competenza esclusiva, è tuttavia possibile mirare meglio l’azione accertativa dell’Amministrazione finanziaria italiana dotando la stessa di più adeguati strumenti informativi che la mettano in condizione di disporre i più efficaci interventi antielusivi.

Non ci si propone, quindi, almeno in questa sede, di riscrivere le disposizioni atte a individuare una stabile organizzazione. Questo lavoro certo merita di essere accelerato in tutti i modi, considerata la vetustà delle categorie normative in vigore ed anche dei concetti espressi nei commentari OCSE sull’argomento. E tuttavia non può che essere affidato alle organizzazioni internazionali, con l’inevitabile lungaggine procedimentale. Del resto, se così non si facesse, si entrerebbe in conflitto insanabile con i trattati contro le doppie imposizioni sottoscritti dall’Italia. Trattati che non è pensabile riscrivere in tempi brevi, tenuto conto non solo del loro numero ma anche dell’ovvia necessità, ove vi si mettesse davvero mano, di non limitarsi al solo tema della stabile organizzazione ma anche alle altre materie di comune interesse nel quadro dei rapporti bilaterali tra l’Italia e ciascun altro Paese.

Di qui l’evidente opportunità di limitare per quanto possibile l’orizzonte dell’intervento, di cui al disegno di legge, lasciando che la tematica della stabile organizzazione trovi una ridefinizione condivisa a livello internazionale e non caratterizzi in negativo, con iniziative unilaterali, il nostro Paese come un mercato non-business friendly.

Ma tale opportunità non può cancellare l’esigenza di garantire al settore in senso lato informatico e dell’e-commerce quell’attenzione che la storia e la cronaca sollecitano. Un’esigenza che va soddisfatta riservando a ciascuno degli operatori coinvolti il ruolo che è più appropriato. Il che vuol dire riservare all’Agenzia delle entrate il compito di svolgere gli accertamenti di natura tributaria e agli intermediari finanziari, che normalmente eseguono i pagamenti a favore di fornitori di beni e servizi scambiati sul circuito digitale, quello di raccogliere informazioni sul percettore del flusso di denaro da trasferire all’Agenzia perché questa le utilizzi con intelligenza e prontezza di riflessi.

Per queste ragioni le norme qui illustrate prevedono una duplice serie di interventi e sono formulate così da consentire una progressiva accentuazione delle incombenze di carattere fiscale. Nessun colpo di testa, dunque, ma l’avvio di un intervento non tanto genericamente minaccioso quanto via via più stringente in funzione delle risposte che gli operatori (e il contesto internazionale) forniranno.

I primi interventi sono mirati a fare sì che gli intermediari finanziari raccolgano, in sede di accensione del rapporto con un non residente, l’esistenza del numero di partita IVA se il non residente ne dispone (avendo cura di verificarne la veridicità). Ove così non fosse — perché il non residente appare essere un privato o un operatore estraneo alla UE — il rapporto può comunque essere acceso ed operare. Ma se in un lasso di tempo non brevissimo (sei mesi) detto operatore estero riceve più di duecento pagamenti, un campanello d’allarme deve scattare. Di qui l’obbligo di segnalazione all’Agenzia delle entrate, la comunicazione all’operatore estero che detta segnalazione è stata inviata, l’invito a farsi attribuire un numero di partita IVA (dall’autorità UE competente se ne ricorrono i presupposti ovvero dall’Agenzia delle entrate italiana se questi non ricorrono) e la sospensione di ogni ulteriore attività di pagamento fino a quando detto numero di partita IVA non risulti attribuito e comunicato all’intermediario finanziario italiano (articolo 1). L’attribuzione del numero di partita IVA, peraltro, non testimonia ancora, di per sé, l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia: ma consente alle autorità italiane di iniziare a raccogliere informazioni di interesse ai fini di successivi interventi, se essi si rendono opportuni.

L’articolo 2 ha lo scopo di fornire una clausola antielusiva mirata qualora si verifichino situazioni che lasciano presagire l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia dell’operatore non residente abilmente dissimulata. Lo stesso documento OCSE del 5 ottobre 2015 lascia intendere la frequenza e pericolosità delle manipolazioni poste in essere da operatori internazionali con lo scopo di sfuggire alle catalogazioni delle fattispecie idonee, oggi, a dare luogo a stabili organizzazioni nel senso tradizionale che questa locuzione ha storicamente assunto. La formulazione dell’articolo 162-bis che viene introdotto nel testo unico delle imposte sui redditi (di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 917 del 1986) ha proprio lo scopo di sottolineare la stabilità, la ricorrenza e la dimensione economica della presenza dell’operatore estero pur nell’accortezza che questi manifesta nell’evitare l’emersione di spazi fisici cui ricondurre l’esistenza delle stabile organizzazione. La norma rinvia all’Agenzia delle entrate la migliore puntualizzazione dell’espressione «attività digitale pienamente dematerializzata» nella considerazione che vari documenti OCSE ne precisano il contenuto e che questa espressione condensa attività anche assai diversificate e inevitabilmente variabili nel tempo. Al verificarsi dei relativi presupposti, peraltro, l’Agenzia è titolata ad accertare i redditi relativi facendo ricorso al metodo induttivo, basato cioè sugli elementi conosciuti e suscettibile di contraddittorio con il contribuente che però viene invitato a manifestarsi come tale. Viene poi stimolata la creazione di un ufficio centralizzato ad hoc come organo competente per accertamenti che richiedono, con tutta evidenza, una inconsueta competenza specialistica sia per i profili tributari, sia, soprattutto, per la tipologia di attività economica posta in essere.

Nell’articolo 6 trovano sbocco le attività accertatrici annunciate nel citato articolo 162-bis e si traducono nell’invito rivolto all’operatore estero a prendere contatto con l’ufficio competente così da definire in contraddittorio la propria posizione, ivi compresa l’effettiva esistenza della stabile organizzazione. Potrà, in questa sede, farsi ricorso tanto all’utilizzo del cosiddetto ruling internazionale che a quello del ruling disapplicativo di recente istituzione. Solo la mancata collaborazione dell’operatore non residente potrà, quindi, produrre una situazione estrema di conflitto dichiarato cui seguirà la comunicazione all’intero corpo degli intermediari finanziari italiani della necessità di applicare, sui successivi pagamenti eseguiti a favore dell’operatore in questione, una ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento sull’ammontare di ciascuna transazione.

Negli articoli 3 e 4 vengono riscritte alcune disposizioni strumentali in tema di ritenute da operare in fattispecie qui trattate. Nell’articolo 5 viene, invece, disposta la ritenuta da applicare qualora la situazione fra contribuente ed estero ed Amministrazione italiana non abbia trovato una sua affidabile ricostruzione operativa.

DISEGNO DI LEGGE

Art. 1.

1. Gli intermediari finanziari che procedono, per conto di propri clienti, a pagamenti verso l’estero devono assumere, fra i dati identificativi del beneficiario, anche il numero di partita IVA e l’autorità che lo ha rilasciato. Qualora il beneficiario non disponga del numero di partita IVA e le transazioni effettuate, per il tramite del medesimo intermediario finanziario, superino, nel corso di un semestre, le duecento unità, l’incaricato del pagamento deve informare senza indugio l’Agenzia delle entrate con le modalità stabilite con provvedimento direttoriale emanato da quest’ultima.

2. L’informativa di cui al comma 1 è comunicata al beneficiario ed è accompagnata dall’invito a farsi rilasciare un numero di partita IVA dall’autorità competente, se l’operatore appartiene ad un Paese membro dell’Unione europea; ovvero dall’Agenzia delle entrate in caso contrario. L’intermediario finanziario interessato non può procedere con ulteriori pagamenti fino a quando il numero di partita IVA non è stato comunicato.

Art. 2.

1. Dopo l’articolo 162 del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, è inserito il seguente:

«Art. 162-bis — (Stabile organizzazione occulta) — 1. Indipendentemente dalla presenza di mezzi materiali fissi, si considera esistente una stabile organizzazione occulta qualora vengano svolte nel territorio dello Stato, in via continuativa, attività digitali pienamente dematerializzate da parte di soggetti non residenti.

2. L’esistenza di una stabile organizzazione occulta si configura qualora il soggetto non residente:

a) manifesti la sua presenza sul circuito digitale ponendo in essere un numero di transazioni superiore, in un singolo semestre, a cinquecentocento unità;

b) percepisca nel medesimo periodo un ammontare complessivo non inferiore a un milione di euro.

3. Le attività digitali pienamente dematerializzate di cui al comma 1 sono individuate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle entrate.

4. Per la determinazione del reddito della stabile organizzazione occulta si applica l’articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600. La competenza per l’accertamento è attribuita ad apposito ufficio costituito presso la sede centrale dell’Agenzia delle entrate».

Art. 3.

1. All’articolo 23, comma 2, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, la lettera c) è sostituita dalla seguente:

«c) i compensi per l’utilizzazione di opere dell’ingegno, di brevetti industriali e di marchi d’impresa, nonché di processi, formule e informazioni relativi ad esperienze acquisite in campo industriale, commerciale e scientifico e i compensi pagati da operatori nazionali a fronte dell’acquisto di licenze software distribuite sul mercato italiano;».

Art. 4.

1. All’articolo 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, il quarto comma è sostituito dal seguente:

«I compensi di cui all’articolo 23, comma 2, lettera c), del testo unico dalle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, corrisposti a non residenti, sono soggetti ad una ritenuta del trenta per cento a titolo di imposta sulla parte imponibile del loro ammontare».

Art. 5.

1. All’articolo 25-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, dopo l’ottavo comma è aggiunto il seguente:

«I soggetti incaricati di eseguire i pagamenti verso non residenti di cui all’articolo 41.1, comma 2, devono operare una ritenuta a titolo d’imposta del 26 per cento sull’importo da corrispondere. La ritenuta non si applica nei confronti di non residenti che hanno stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Per i termini di versamento e le modalità dichiarative si applicano le disposizioni previste nel settimo comma del presente articolo».

Art. 6.

1. Dopo l’articolo 41 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, è inserito il seguente:

«Art. 41.1. — (Accertamento di stabile organizzazione occulta) — 1. L’ufficio competente, qualora accerti il verificarsi di situazioni che configurano l’esistenza di una stabile organizzazione occulta di cui all’articolo 162-bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, comunica all’operatore non residente, per il tramite di almeno un intermediario finanziario da questi incaricato, l’emersione dei relativi presupposti di fatto ed invita il medesimo a regolarizzare l’esistenza della stabile organizzazione anche avvalendosi delle procedure previste dall’articolo 11, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, e successive modificazioni, e dall’articolo 31-ter del presente decreto.

2. Qualora nei trenta giorni successivi all’invito la regolarizzazione non sia intervenuta né sia pervenuta richiesta di avvalersi delle procedure indicate nel comma 1, l’ufficio competente comunica agli intermediari finanziari residenti che, qualora vengano incaricati di eseguire operazioni di pagamento a favore dell’operatore non residente di cui al comma 1, devono operare, sui pagamenti effettuati, la ritenuta di cui al nono comma dell’articolo 25-bis».

31 gennaio 2017

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