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Da grandi poteri derivano grandi responsabilità: Il Consiglio di Stato conferma la prima sanzione irrogata da Agcom a Google quale hosting provider attivo

Big Data

di Francesco Di Giorgi e Davide Mula*

 

I Giudici di Palazzo Spada con la sentenza n. 4277 del 13 maggio 2024, ribaltando la sentenza del TAR per il Lazio 11036/2021, hanno accolto l’appello presentato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (AGCOM) relativo alla prima sanzione amministrava pecuniaria adottata nei confronti di Google Ireland Limited.

La sentenza ha confermato la piena legittimità della prima sanzione dell’AGCOM, di cui alla delibera n. 541/20/CONS del 22 ottobre 2020, nei confronti di Google per la violazione commessa, attraverso il servizio “Google ADS”, dell’articolo 9 del Decreto Legge n. 87 del 12 luglio 2018, convertito con la Legge n. 96 del 9 agosto 2018 (c.d. “Decreto dignità”).

Ai sensi della predetta norma, il legislatore italiano ha inteso dotare l’ordinamento italiano di una previsione generale atta a garantire un più efficace contrasto del disturbo da gioco d’azzardo, vietando «qualsiasi forma di pubblicità, anche indiretta, relativa a giochi o scommesse con vincite di denaro nonché al gioco d’azzardo, comunque effettuata e su qualunque mezzo, incluse le manifestazioni sportive, culturali o artistiche, le trasmissioni televisive o radiofoniche, la stampa quotidiana e periodica, le pubblicazioni in genere, le affissioni e i canali informatici, digitali e telematici, compresi i social media». Tale divieto è posto a «carico del committente, del proprietario del mezzo o del sito di diffusione o di destinazione e dell’organizzatore della manifestazione, evento o attività» (art. 9, comma 2).

La ratio del divieto ivi contenuto, come si legge sul sito istituzionale dell’Autorità (https://www.agcom.it/divieto-di-pubblicita-di-giochi-con-vincite-in-denaro-online) è da individuarsi nel contrasto alla ludopatia e nel rafforzamento della tutela del consumatore/giocatore, con particolare riferimento alle categorie vulnerabili (giocatori patologici, minori, anziani).

Il relativo procedimento ha riguardo il riscontro effettuato da AGCOM, nell’ambito dell’attività di monitoraggio d’ufficio svolta e finalizzata alla verifica del rispetto del divieto di pubblicità relativo a giochi o scommesse con vincite in denaro sancito dal citato articolo 9 del Decreto dignità. In particolare, da tale attività è stato rilevato che in data 14 e 15 novembre 2019 alla pagina di ricerca www.google.com, digitando la parola chiave “casino online”, nella lista rimandata dal motore di ricerca, appariva in testa il sito http://sublime-casino.com, così descritto brevemente «Unisciti Ora Al Nuovissimo Casinò Online Italiano. Gioca Subito A Oltre 400 Giochi – Iscriviti Ora E Registrati In Meno Di 30 Secondi! Nessun download.Sicuro e Protetto». Al riguardo è emerso che detto sito veniva qualificato come “annuncio”. Conseguentemente, l’Autorità a valle del relativo procedimento con la predetta delibera ha adottato un’ordinanza ingiunzione per la violazione del citato divieto di diffusione, sul motore di ricerca www.google.com, di pubblicità di siti che svolgono attività di gioco e scommessa a pagamento irrogando una sanzione pecuniaria di euro 100.000 (50.000 per ciascuna giornata monitorata).

Google ha impugnato detta sanzione innanzi al TAR del Lazio che, con la sentenza n. 11036/2021, ha accolto in parte il ricorso. In particolare, il TAR, richiamando la distinzione elaborata dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale tra hosting provider attivo e hosting provider passivo, ha fondato la propria motivazione sulle disposizioni di cui all’art. 16 del D.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, di recepimento della Direttiva 2000/31/CE, che, pur non essendo ritenuta una disciplina direttamente applicabile al caso di specie, sarebbe espressione di principi generali laddove prevede un regime più favorevole di responsabilità per gli hosting provider passivi. Secondo il TAR, tali regole portano, nel caso di specie, ad escludere la sussistenza dell’illecito ascritto a Google dal momento che «la mera valorizzazione degli indici presenti nel provvedimento impugnato (strumentalità alla diffusione del messaggio ed elaborazione di quest’ultimo dal sistema utilizzato dal servizio di posizionamento) non [è] di per sé sufficiente, alla luce del riportato ampio e costante quadro giurisprudenziale, a fondare, nel caso di specie, la responsabilità del gestore della piattaforma per la violazione del “Decreto dignità”».

Il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4277 del 13 maggio 2024 ha, invece, ribaltato l’arresto del giudice di prime cure ritenendo che «l’art. 16 cit. non possa applicarsi alla fattispecie per cui è causa perché, come correttamente rilevato dal TAR, la Direttiva 2000/31/CE esclude testualmente dal proprio ambito di applicazione (art. 1, comma 5) “i giochi d’azzardo che implicano una posta pecuniaria in giochi di fortuna, comprese le lotterie e le scommesse”». Su tale aspetto, il Consiglio di Stato ha osservato che detta esclusione non riguarda solamente l’attività che ha ad oggetto lo svolgimento on line del gioco d’azzardo a pagamento, come sostenuto da Google, ma anche l’attività diretta alla pubblicizzazione dei giochi medesimi.

Inoltre, i Giudici di Palazzo Spada hanno statuito, innovando per la prima volta rispetto alla granitica giurisprudenza europea maturata proprio nei confronti della società di Mountain View, che «comunque, nel caso di specie, Google non rientrerebbe nel perimetro soggettivo di applicazione di tale art. 16 dal momento che opera quale hosting provider attivo». Il ragionamento seguito dal Consiglio di Stato si è basato sul fatto che, mentre l’ordinario motore di ricerca (Google Web Search) fornito dalla società Google consente agli utenti di ricercare su internet contenuti pubblicati da terze parti, il servizio Google Ads, tramite il quale è stato pubblicato l’annuncio oggetto di contestazione da parte dei AGCOM, è un servizio di posizionamento pubblicitario online che consente agli operatori economici di pubblicare (a pagamento) “link sponsorizzati” verso determinati siti (cosiddetti “siti di destinazione“) associati a determinate parole o chiavi di ricerca, che Google deduce essere scelte dall’inserzionista. Sul punto il Consiglio di Stato ha osservato che «al momento in cui l’utente inserisce nel motore di ricerca la parola o le chiavi di ricerca, appariranno all’utente gli annunci corrispondenti sul lato destro o nella parte superiore dei risultati, preceduti dalla parola “annuncio” o da espressioni analoghe, in modo da essere maggiormente visibili rispetto ai risultati “ordinari” restituiti dal motore di ricerca, e ciò anche a non voler considerare l’incidenza dell’attività di profilazione degli utenti nella promozione degli annunci, che AGCOM imputa a Google con un’allegazione che la seconda contesta. L’attività promozionale svolta da Google è confermata dalla circostanza per cui gli inserzionisti remunerano il servizio in modo proporzionale rispetto alle effettive visualizzazioni che il messaggio pubblicitario riceve».

Ciò posto il Consiglio di Stato ha ritenuto «che tale servizio pubblicitario non vede Google quale mero hosting provider passivo, dal momento che la società svolge, mediante una gestione imprenditoriale, un servizio di indicizzazione e promozione di contenuti di terze parti non rimanendo, pertanto, “neutrale” rispetto a detti contenuti ma promuovendoli sul mercato e avendo al riguardo un proprio interesse economico alla buona riuscita di tale promozione. Google, nei sensi anzidetti, realizza quindi un “controllo” delle informazioni pubblicate e consente ai suoi clienti di “ottimizzare la loro vendita online”». Alla luce di tanto ha quindi rilevato integrati i presupposti richiesti dalla giurisprudenza, comunitaria e nazionale, per poter qualificare un operatore quale hosting provider attivo.

Per l’effetto, ha osservato il Consiglio di Stato che l’illecito amministrativo discendente dalla violazione del divieto di cui all’art. 9 del Decreto dignità è disciplinato dalle ordinarie regole in materia di illeciti amministrativi, senza potersi fare applicazione, nel caso di specie, del regime privilegiato di responsabilità riservato agli hosting provider cd. passivi.

Infine, relativamente alla qualificazione dell’illecito amministrativo in oggetto alla luce del divieto generale di pubblicità ai sensi dell’art. 9 in parole, i Giudici di Palazzo Spada hanno osservato che «Nel caso di specie, la condotta realizzata da Google si pone in contrasto con tale previsione dal momento che è stata pubblicata dalla società la pubblicità di un sito che a sua volta conteneva una lista di link ad ulteriori siti web che, in alcuni casi, consentivano di giocare a pagamento online».

Ed ancora, accertata l’esistenza di una condotta vietata, il Consiglio di Stato ha osservato la presenza dell’elemento soggettivo dell’illecito. In particolare «Il Collegio osserva, anzitutto, che la condotta richiesta dall’art. 9 cit. non è di per sé inesigibile, anche laddove si sia in presenza, come nel caso che ci occupa, di intermediari di dimensioni mondiali che pubblicano giornalmente un massivo quantitativo di annunci pubblicitari, dal momento che proprio tali grandi numeri impongono a detti soggetti di dotarsi di adeguati sistemi organizzativi, anche di tipo automatizzato e con ricorso a strumenti di intelligenza artificiale, per prevenire, nei limiti di quanto esigibile, le prescrizioni poste dal legislatore nazionale a tutela di un interesse pubblico ritenuto particolarmente rilevante (id est il contrasto alla ludopatia). L’alternativa, a quanto appena osservato, non potrebbe essere rivendicare un regime di esenzione sempre e comunque ma, piuttosto, rinunciare agli (o ridurre il numero degli) inserzionisti».

In conclusione, il Consiglio di Stato ha ritenuto integrati tutti i presupposti dell’illecito amministrativo ascritto a Google e, pertanto, ha accolto i motivi di appello avverso la sentenza del TAR presentati dall’AGCOM.

Come detto, si tratta di una sentenza che nel riconoscere il ruolo attivo di Google nella sua attività di hosting provider ha innovato, alla luce delle previsioni della Direttiva e-commerce (2000/31/CE) ed oggi del Regolamento DSA (2022/2065), il precedente orientamento giurisprudenziale maturato nel corso degli ultimi 20 anni nei confronti delle piattaforme digitali che, valorizzando gli aspetti tecnici di funzionamento delle piattaforme, conduceva sempre a qualificare i provider come passivi (Corte di giustizia, grande sezione, 23 marzo 2010, n. 236, Google France e Google, cause da C-236/08 a C-238/08, punto 113; cfr. anche Id., grande sezione, 12 luglio 2011, L’Oréal e a., C-324/09, punto 113; Id., terza sezione, 7 agosto 2018, Coóperative Vereniging SNBREACT U.A. c. Deepak Mehta, C-521/17, punto 47; Id., grande sezione, 22 giugno 2021, YouTube, cause C-682/18 e C-683/18, punto 115-116).

La sentenza del Consiglio di Stato è giunta a questo radicale passo valorizzando, per quanto riguardo il caso specifico, la comunicazione COM (2017) 555 della Commissione europea del 28 settembre 2017, relativa alla “Lotta ai contenuti illeciti online. Verso una maggiore responsabilizzazione delle piattaforme online”, nonché il più recente orientamento della Corte di giustizia, secondo cui la deroga alla responsabilità di cui all’art. 14 della direttiva e-commerce e oggi del Regolamento DSA è disponibile solo per i prestatori di servizi di hosting “che non rivestono un ruolo attivo”.

È, dunque, caduto il velo della esenzione generale di responsabilità per l’attività di hosting provider, riconoscendosi che non per tutti i servizi si possono applicare le regole di esenzione di responsabilità, ad esempio nella pubblicità di giochi d’azzardo e nella vendita di biglietti sui mercati secondari (c.d. secondary ticketing).

Ciò, in disparte l’effettiva sussistenza anche degli ulteriori indici di conoscibilità della condotta illecita che l’Autorità, procedendo ad un’analisi puntuale, aveva evidenziato.

 

* Le opinioni espresse dagli Autori non coinvolgono in alcun modo l’amministrazione di appartenenza

 

 

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