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Odio e disinformazione, perché il problema non è l’anonimato

Il dibattito di questi giorni sull’anonimato in Rete (se ne parla da almeno 20 anni) è dovuto a un tweet del deputato di Italia Viva Luigi Marattin, in cui annuncia che sta pensando di lavorare a una legge contro l’anonimato online contro l’odio e la disinformazione. Lo ha fatto ritwittando un tweet del regista Gabriele Muccino che chiede l’obbligo di registrarsi ai social media solo consegnando la propria carta di identità.

Abolire l’anonimato non avrà nessun effetto su odio e disinformazione. Perché? Andiamo per ordine. L’odio. La maggior parte delle persone odia con il proprio nome e cognome, mettendoci orgogliosamente la faccia. Semmai usano un nickname che non è propriamente anonimato. Significa che si sono registrati con il nome vero ma poi hanno scelto di comparire online con un “soprannome”. In pochissimi hanno l’abilità di muoversi online dietro anonimato (stiamo parlando di una percentuale davvero minima di cittadini, capaci di usare tecniche più o meno sofisticate per “nascondere” la propria identità”). I media tradizionali spesso parlano di troll anonimi. Ma in realtà stanno parlando di persone che usano un nickname.

Ognuno di noi quando si collega da un computer o da mobile usa un IP (un indirizzo) che permette facilmente di individuare da quale device ci si è collegati e quindi anche al proprietario. Certo in una indagine per una ipotesi di reato si dovrà anche dimostrare che quel device appartenente a X sia stato poi usato proprio da X per commettere il reato su cui si indaga. Vale lo stesso però se decidiamo di rendere obbligatoria la registrazione con un documento di identità. Bisognerà dimostrare che quell’account è stato usato proprio da quella persona nel momento in cui è stato compiuto un reato o un illecito civile (diffamazione, insulto…).

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