La Commissione europea ha recentemente pubblicato i primi progetti ai quali è stato assegnato il…
Un vecchio tentativo di un soffio di novità nel panorama televisivo italiano
Di Francesco Graziadei, avvocato di Graziadei Studio Legale e professore presso la LUISS Guido Carli di Roma, dove insegna Diritto industriale e delle comunicazioni e Innovation law and regulation.
Un proverbio cinese recita: la vita è quella cosa che ti passa davanti quando non te ne accorgi (o almeno così una volta mi è stato riferito da una persona di cui ho grande stima, per cui non dubito dell’autenticità del detto). Correva l’anno 2006, un’era geologica fa nel campo dei media, quando fui coinvolto dal Prof. Alberto Gambino in un gruppo di politici ed intellettuali dall’aria inizialmente un po’ disorientata e massimalista che poi, forse senza neppure rendersene conto appunto, diede origine ad una proposta di legge molto concreta e che guardava al futuro. Cercherò di seguito di spiegare perché. Di questo gruppo, capitanato dalla senatrice Tana De Zulueta e con la essenziale partecipazione e promozione di Sabina Guzzanti (qualcuno ricorderà il movimento “per un’altra tv”) faceva parte anche Giulietto Chiesa, recentemente scomparso, con il suo contributo di lucidità, di coerenza e di sincera promozione del pluralismo informativo. Così come altre menti brillanti, senz’altro di chiaro orientamento politico, quali Enzo Biagi, Angela Finocchiaro, Dario Fo, Dacia Maraini, etc. nonché la stessa nota associazione Articolo 21. Gli obiettivi di quella proposta (AC 1616 del 6.9.2006) erano vari. Innanzitutto il tentativo di tagliare l’asfittico e cronico legame tra la politica e la concessionaria del servizio pubblico. Problema tuttora assai invalidante ed irrisolto. Con l’altra mano però la proposta mostrava una particolare modernità, sul piano dei concetti e delle soluzioni.
Ma andiamo per ordine. Già nella terminologia usata si intuiva una pulizia concettuale ed una visione prospettica. Le norme non riguardavano le “trasmissioni televisive” o la “radiodiffusione” ma più semplicemente ed in maniera omnicomprensiva le “comunicazioni audiovisive”, e ciò prima dell’approvazione del testo originario del 2007 della Direttiva europea sui servizi media audiovisivi e molto prima ovviamente del recepimento italiano – nel 2010 – di quella terminologia (che come noto comprendeva e comprende sia la tv lineare che i nuovi contenuti On Demand). Poi niente “trasmissione”, “radiodiffusione” etc., ma con linearità sistematica si utilizzava il concetto di “comunicazione al pubblico”, mutuato dalla disciplina del diritto d’autore, che a seguito delle modifiche introdotte nel 2001, ricomprende, come noto, qualunque forma di comunicazione ad un pubblico non presente, su qualunque mezzo (circolare o punto punto, lineare o interattiva che sia) ed infine usando il concetto – omnicomprensivo – di “rete di comunicazione elettronica” (introdotto nel 2002 dalla regolazione delle reti e servizi che una volta si chiamavano di telecomunicazione).
Quanto al delicato rapporto tra politica e televisione, la proposta prevedeva l’istituzione di un organismo, il Consiglio per le comunicazioni audiovisive, espressione anche della società civile, che avrebbe sostituito la Commissione di Vigilanza sul servizio radiotelevisivo, con funzioni di indirizzo sia sul sistema pubblico (in primo luogo con pareri obbligatori e vincolanti sul contratto di servizio) che su quello privato (con raccomandazioni vincolanti). La sua composizione era in minoranza politica ed in maggioranza espressione di istanze rappresentative di interessi rilevanti nella definizione del ruolo e funzioni dell’emittenza televisiva (contemplando rappresentanze di enti locali, consumatori e utenti, ricerca scientifica, sindacati, autori, imprenditori, terzo settore etc.). La sua composizione era chiaramente una proposta, una ipotesi, aperta al dibattito. Sarebbe durata 6 anni, svincolando anche la componente politica dalle maggioranze espresse dalla legislatura. Il suo ruolo si affiancava ovviamente a quello dell’Autorità di regolazione e vigilanza di settore, anzi il Consiglio sarebbe stato l’organo di nomina di quest’ultima, oltre che di nomina dei vertici Rai, secondo procedure di selezione pubbliche e trasparenti (invio curricula, pubbliche audizioni dei candidati etc.). Avrebbe svolto importanti funzioni come quella di definire le linee guida per le guide elettroniche dei programmi, incidendo pertanto su quello che si sta rivelando sempre di più un tema cruciale, ai fini della tutela del pluralismo esterno, nell’offerta via via più ricca di contenuti, come mostrano ora anche le criticità dei sistemi algoritmici di gestione della prominence dei contenuti. Assegnava alla Rai il ruolo di motore tecnologico della mobilità sociale (così come il Maestro Manzi era stato motore culturale della mobilità sociale stessa) assicurando la diffusone di una media literacy e l’uso di tecnologie volte ad una fruizione meno passiva dei mass media. Prevedeva una più chiara distinzione di funzioni e risorse fra anima di servizio pubblico e anima commerciale dell’emittente pubblica.
Quanto agli strumenti per la tutela del c.d. pluralismo esterno, la proposta tentava di affrancarsi dalla commistione, abbozzata dalla legge Mammì, rafforzata dalla legge Maccanico e confermata dall’attuale TUSMAR, tra tutela del pluralismo e tutela della concorrenza, nel presupposto teorico – secondo quelle norme – di una (quasi) piena funzionalizzazione della tutela di un valore alla promozione e garanzia dell’altro. Innanzitutto terminologicamente. Già nella rubrica degli articoli abbandonava il riferimento al divieto di posizioni dominanti nei media (frutto di una giurisprudenza costituzionale che in epoca risalente e prima della grande enfasi sul diritto antitrust, aveva usato quel termine in maniera atecnica) per un più chiaro e netto divieto di posizioni lesive del pluralismo ma soprattutto utilizzando dei mezzi più adatti alla finalità perseguita. E così, dava rilevanza al dato centrale che occorre valutare nell’impatto di un medium sulla formazione delle opinioni, vale a dire l’audience, che non a caso ha costituito il parametro della prima norma anticoncentrazione nei media introdotta nel nostro ordinamento, quella sulla stampa quotidiana, che appunto fissava delle soglie di tiratura (e non soglie economiche, di mezzi o valutazione di dominanza o altro ancora). In più – e conformemente a questa finalità – la proposta di legge introduceva un criterio di valutazione ponderale dei vari mezzi di informazione, sulla base del quale valutare il reale potere informativo finale di un determinato editore, soppesando la posizione di quest’ultimo nell’audience di una serie di mezzi affini. Infine, il paniere di mezzi affini (valutati ponderalmente in maniera diversa in base all’impatto sulla formazione delle opinioni) era soggetto ad un possibile aggiornamento periodico alla luce degli sviluppi tecnologici da operare sulla base della valutazione del peso (eventualmente mutato) di ogni mezzo di comunicazione sulla formazione delle opinioni e di incisione su livelli culturali e stili di vita , anche alla luce delle modalità di comunicazione (ad esempio tenendo conto della maggiore o minore passività nella fruizione del mezzo).
Criteri principi e strumenti che non sembrano distanti da quelli utilizzati poi dall’Autorità per le comunicazioni nell’applicazione del TUSMAR a partire da una Delibera del 2010, dove si considerava che l’analisi dei mercati delle comunicazioni spostasse inevitabilmente l’accento sul versante dei consumatori/cittadini, dovendo valutare la sostituibilità dei mezzi (e all’interno degli stessi) tra i consumatori e dove si ammetteva che se il punto di partenza dell’analisi fosse il diritto della concorrenza (anche perché così richiedeva e richiede il macchinoso sistema della legge vigente n.d.r.) il focus dovesse essere l’individuazione di mercati rilevanti ai fini del pluralismo (abbandonando dunque la mera sostituibilità economica, che difatti è funzionale all’individuazione della dominanza economica). Si doveva cioè svolgere un’analisi dei consumi dei media da parte dei cittadini con un’attenzione centrale agli indici quantitativi di diffusione e consumo dei vari mezzi (l’audience appunto). Si parlava di “rilevanza dei media” e di indicatori (quali la passività o meno della fruizione) che fornissero una valutazione circa la capacità di un mezzo di informare e influenzare.
E per quanto riguarda i rimedi? Forse una soluzione più liberal di quella volta ad ottenere pesanti dismissioni (o migrazioni su altri mezzi, come sia il dibattito che le leggi contemplavano): correggere la carenza di pluralismo esterno con un maggiore pluralismo interno, fondato sul nodo centrale dell’ orientamento politico culturale di un dato mezzo di comunicazione di massa, vale a dire la linea editoriale, ed assegnando a terzi spazi editorialmente indipendenti, tanto da ridurre quella che – on a case by case basis – si dimostrasse periodicamente come una audience eccessiva di quel mezzo attribuibile alla linea editoriale proprietaria.
Scardinava infine gli effetti negativi di una integrazione verticale tra reti e contenuti, spostando il momento selettivo pubblico per l’accesso al mercato dei fornitori di contenuto alla fase di autorizzazione degli stessi, autorizzazione che avrebbe attribuito ai content providers il diritto di accedere alla rete (e conseguente obbligo di contrarre degli operatori di rete, ne presupposto – come dovrebbe essere – di una loro indifferenza rispetto al contenuto che paga per fruire dei servizi tecnici di trasmissione. Insomma una sorta di modello wholesale open access per le reti televisive digitali). Sembrerebbe una soluzione scontata ma all’epoca non era così. E lo dimostra il mutato orientamento del Regolatore), il quale, da un certo punto in poi (a partire dal 2007), ha iniziato ad introdurre delle procedure selettive ad evidenza pubblica per l’assegnazione della capacità trasmissiva (sulla falsariga di quelle che si erano adottate per il rilascio dei vecchi titoli abilitativi per le diffusioni analogiche terrestri).
Insomma tanti spunti, forse un po’ visionari, senz’altro discutibili e da mettere a punto nel corso del dibattito parlamentare (che alla fine non ci fu), ma un ottimo punto di partenza per una riflessione più moderna sui media e sul loro assetto pluralistico.