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L’Appunto di Gustavo Ghidini. Attuazione della direttiva copyright: gli snippets

 

L’Appunto

una rubrica a cura di

Gustavo Ghidini

 

L’Appunto è una rubrica mensile, una finestra di approfondimento per il giurista moderno che affronta le sfide e gli inevitabili interessi in gioco posti in essere da una realtà socio-economica e culturale sempre più complessa, espressiva e poliedrica.

La rubrica è curata dall’Avv. Prof. Gustavo Ghidini, Professore Emerito nell’Università degli Studi di Milano, Senior Professor di Diritto industriale e delle Comunicazioni nell’Università Luiss Guido Carli. Direttore dell’Osservatorio di Proprietà Intellettuale, Concorrenza e Comunicazioni dell’Università LUISS Guido Carli. Fondatore e Condirettore della Rivista “Concorrenza e Mercato” (Giuffré); Condirettore della Rivista “Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo (AIDA)” Giuffrè. Membro dell’Editorial Board del “Queen Mary Journal of Intellectual Property” del Queen Mary Intellectual Property Research Institute, University of London e membro del Comitato Scientifico della “Rivista italiana di antitrust“.

 

 

Avv. Prof. Gustavo Ghidini

 

Questo primo appuntamento verterà su un più lungo e “costruito” intervento rispetto alla nozione comune di appunto. Con il fine ultimo di servire la battaglia civile a difesa della libera stampa ed in previsione del recepimento della Direttiva Copyright.
L’invito al giurista è quello di non iniziare a sviluppare l’analisi giuridica partendo dalle norme, bensì dalle osservazioni degli interessi in gioco e dai successivi loro conflitti. Per valutare poi, secondo le sue dichiarate premesse valoriali, l’adeguatezza delle norme rispetto ai valori assunti dall’interprete.
Nasce qui l’esigenza di una valutazione normativa, avvalorata dell’esegesi, che non sconfini nell’attribuzione al testo normativo di significati che il testo stesso non consente ragionevolmente. Il buon giurista positivo può e deve svolgere un’interpretazione evolutiva in coerenza con i principi cardine, e costituzionali in primis, dell’ordinamento senza esprimere un significato in essere che non sussiste nella natura della norma.
Qui il giurista ha l’occasione, talvolta il dovere, di avanzare una sua personale proposta riformatrice.
La Redazione di DIMT

 

Attuazione della direttiva copyright: gli snippets

 

 

Da anni, come tutti sanno, il rapido successo della comunicazione online ha indotto una pesante crisi del settore della stampa. Il settore ha sofferto la “disintermediazione” dei contenuti informativi determinata dai nuovi meccanismi di distribuzione e accesso adottati da motori di ricerca, aggregatori di notizie e social network. Questi hanno progressivamente veicolato, tipicamente in modalità “gratuita”, le notizie di attualità attraverso la riutilizzazione di estratti dei contenuti editoriali accessibili sul web. E così si sono affermati come i nuovi mezzi di accesso all’informazione.

La crisi dell’editoria giornalistica è stata fortissima. Già cinque anni fa l’Impact Assessment che accompagnava la Proposta della Commissione Europea di nuove norme sul Copyright digitale, stimò che i fornitori di servizi online rappresentavano, per il 57% degli utenti europei, il principale canale di accesso all’informazione online.

La situazione degli editori è aggravata da un fatto concomitante. Mentre l’accesso ai giornali avviene ormai in larghissima parte attraverso Internet, la crescita dei ricavi digitali degli editori non è stata proporzionale al calo delle vendite delle copie cartacee. Secondo il medesimo Assessment il settore dell’editoria giornalistica segnò tra il 2010 e il 2014 una perdita netta dei ricavi del 13%, mentre gli abbonamenti online rappresenterebbero soltanto il 10% dei ricavi digitali degli editori di giornale. E naturalmente il calo delle vendite si è riflesso nel calo di ricavi pubblicitari degli editori (un’aggiornata ricostruzione delle vicende della stampa italiana ‘alla prova del digitale’ è stata compiuta da Fabio Pavesi su “Il fatto quotidiano” del 18 agosto scorso).

E così, sia la “gratuità” dei contenuti veicolati dalle piattaforme via internet sia l’ampia disponibilità di articoli giornalistici accessibili online hanno progressivamente favorito, a danno dell’editoria giornalistica, l’espansione del potere informativo degli intermediari digitali (motori di ricerca, aggregatori di notizie e social media). I quali, dunque, hanno concentrato i loro modelli di business sulla riutilizzazione o l’agevolazione dell’accesso a tali contenuti. E ciò senza pagar dazio, cioè compenso agli editori: comoda e vantaggiosa abitudine, indubbiamente, destinata a perdurare sino alla Direttiva (recte: al suo recepimento negli ordinamenti nazionali).

Ho citato fra virgolette la tipica gratuità dell’accesso offerto dalle piattaforme/intermediarie agli utenti finali. Confermo, anzi raddoppierei le virgolette. Aderendo all’offerta ‘gratuita’ di una app, noi utenti a) cediamo dati personali che le piattaforme usano (non evoco altri usi inquietanti) per profilarci come consumatori e quindi indirizzarci offerte di beni o servizi ‘mirate’; b) siamo più facilmente indotti ad abboccare a tali offerte proprio perché l’amo è confezionato ‘su misura’ del nostro profilo consumeristico; c) diamo comunque alle piattaforme la possibilità di immettere in rete una massa di dati che di per sé incrementa la raccolta pubblicitaria dei titani del web (definizione dell’ Economist).

La situazione sinteticamente descritta, ove non corretta adeguatamente, mette la libera stampa, baluardo del pluralismo delle idee e quindi della stessa democrazia, a rischio di naufragio (o -parimenti inquietante – di subordinazione alle piattaforme: v. il passaggio del controllo del Washington Post ad Amazon). Pertanto, come ricordato, già nel 2016 la Commissione Europea propose l’introduzione, a carico delle piattaforme, di un diritto di compenso degli editori di giornali per la ‘appropriazione’ e l’uso, anche parziali (il caso tipico, peraltro, su cui tornerò fra breve), di contenuti giornalistici originali. Un diritto -della durata di due anni dalla pubblicazione dell’articolo giornalistico- impropriamente definito ‘connesso’: gli articoli di giornale, di regola, sono già di proprietà degli editori della stampa, aventi causa dei giornalisti. Si tratta dunque di un vero e proprio ‘nuovo’ copyright, di durata molto breve, degli editori.

A parte l’improprietà definitoria -peccato veniale- convince l’idea ‘politica’ alla base della proposta della Commissione: proposta rifluita nella Direttiva 2019/790, in travagliata attesa di recepimento in Italia (Francia e Germania, in particolare, l’hanno già recepita: rispettivamente nel 2019 e nel 2021).

E’ l’idea che non si possano impunemente ‘rubare’, per sfruttare commercialmente in vari modi, contenuti informativi che costa, eccome, produrre: in termini finanziari, materiali, professionali.

Il ‘nocciolo del nocciolo’, in realtà, riguarda l’appropriazione che a fini commerciali le piattaforme, nello svolgimento dei loro servizi (di aggregazione/anteprima/lancio di notizie), erano avvezze a compiere – senza appunto pagar dazio- di parti, anche piccole, di articoli e servizi giornalistici. Parti piccole in gergo corrente chiamate snippets.

L’introduzione di questo nuovo diritto degli editori di giornali non rappresenta un’idea originale della Commissione, bensì una… idea derivata da precedenti esperienze di alcuni Stati Membri. Come ricordavo in un recente saggio scritto con Francesco Banterle in onore di Vincenzo Di Cataldo, Germania e Spagna, in particolare, avevano già adottato, rispettivamente nel 2013 (novellando lo Urheberrecht Gesetz del 1965) e nel 2014, uno schema di diritto “connesso” degli editori di giornale contro gli usi online non autorizzati delle loro pubblicazioni o di parti di esse.

Questa è storia, e vicenda, “freschissima”, legata alla rivoluzione digitale. Una storia che innova profondamente la prospettiva tradizionale del droit d’auteur. Non è pura erudizione rievocarla.

Dall‘800 sino all’età moderna, prima dell’avvento del web, nel diritto d’autore dominava la dottrina dei cd. larcins imperceptibles (furtarelli insignificanti: come quelli che, capitando in un buon albergo, molti fanno  di articoli di toilette di marca). Una dottrina che aveva radici in normative autoriali del XIX secolo: quelle, in particolare, dell’ordinamento austriaco, tedesco, e lombardo-veneto. E che trovava una eco nella anglosassone de minimis doctrine.

L’evocazione, dicevo, non è puramente erudita. Il rationale di quella esclusione era appunto, per dirla con precisione sistemica, la “insignificanza competitiva” di quelle mini-citazioni, inidonee a togliere interesse a leggere il testo originale, dunque a sottrarre lettori all’autore ed editore di questo -anzi, spesso fonti di réclame.

NB: ho usato,e confermo, il richiamo alla concorrenza. Una storica linea guida del discrimen tra lecito e illecito nelle citazioni e utilizzazioni anche parziali di opere e raccolte di dati altrui. Cfr. ad esempio, nella vigente LA., gli artt. 68.6, 70.1, e altresì, nella sostanza, l’ art 64-quater.4, e, in materia di banche dati, l’art. 64-sexies 1. a).

La comunicazione digitale, con i suoi modi tipici, ha archiviato la dottrina dei furtarelli impercettibili. In un ambiente (una “cultura”) in cui domina la brevità estrema, la destrutturazione grammaticale delle frasi, gli acronimi del tipo “tvb”, “tks”, e consimili grugniti digitali -in un tale ambiente, dicevo, il “furtarello”, anche di poche parole, non è più affatto di per sé impercettibile, bensì può divenire ed essere diffuso -e così avviene- come “prodotto di informazione”(Presseerzeugnis, nella locuzione normativa tedesca): tant’è che di quegli snippets le piattaforme fanno, e quanto, uso come “notizie in breve” messe online a scopo commerciale.

Il discrimen tra appropriazione insignificante e appropriazione rilevante si è fatto dunque più sottile, e sostanzialmente incentrato sulla presenza o meno di una “qualità informativa” autonoma (autonoma, ripeto, nell’ecosistema digitale) dello snippet. E’ in sostanza il confine sistemico tracciato anche dalla Convenzione di Berna proprio per il settore giornalistico: la protezione autoriale “non si applica alle notizie del giorno od a fatti di cronaca [e il considerando 57 della Direttiva ribadisce la libertà di riproduzione di “mere facts”, ndr] o che abbiano carattere di semplici informazioni di stampa”. Un principio che viene da lontano, dalla dottrina USA in Feist 111 Sup Ct 1282 (1991) [499 U.S. 340 (1991).

 

La Direttiva, art 15, nel sancire il diritto degli editori di giornali e riviste a ricevere un compenso, lo ha escluso per l’utilizzazione di singole parole o di “estratti molto brevi” (oltre che per usi non commerciali, nonchè per collegamenti ipertestuali).

Il concetto di “molto breve” non è affidato, nemmeno in parte, a una ‘conta’ di parole (come fece l’Ufficio Tedesco Brevetti e Marchi nel 2015 nel precisare  il concetto di kleinste Textausschnitte: non oltre sette parole)  bensì a un criterio in ultima analisi ‘concorrenziale’, esplicitato dal considerando 58 della Direttiva: brani molto brevi ‘may not undermine’ the investments made by publishers…in the production of content”.

NB: un rationale ‘informativo’ distinto da quello ‘estetico’ che ispirò la Corte di Giustizia, in Infopaq, ove ammise   che anche  pochissime parole potessero costituire opera ‘d’autore’.

Ulteriore NB: quella di Infopaq mi è sempre parsa affermazione scontata, quasi banale: chi potrebbe negare ‘autorialità’ al verso  virgiliano sic vos non vobis mellificatis apes; o alla poesia “Mattina” di Ungaretti: “M’illumino/ d’immenso” ?!

 

L’assenza di un concorrente e pur orientativo criterio ‘quantitativo’, capace di aiutare a definire con maggiore ‘certezza’ il raggio del diritto al compenso -assenza testimone di un compromesso un tantino pilatesco tra gli interessi in conflitto- si è riverberata nello schema di decreto (legislativo) italiano recante attuazione della direttiva, licenziato dal Governo e trasmesso alle Camere il 6 agosto scorso. (Un testo che merita qualche correzione, anche non marginale, ma non certe  critiche demolitorie – talune, temo, di non trasparente fonte originaria).

In detto schema di decreto “per estratto molto breve[ dunque escluso dal diritto a compenso,ndr] si intende qualsiasi porzione di tale pubblicazione che non dispensi dalla necessità di consultazione dell’articolo giornalistico nella sua integrità” (art.1.7; corsivo mio).

A mio personale parere, tale definizione (criticata anche dalla AGCM come “eccessivamente generica e di difficile applicazione pratica”) non offre sufficiente ‘certezza’. In particolare, si presta a riconoscere  raramente -forse anzi eccezionalmente- quella sufficiente ampiezza minima del brano che obblighi al compenso. “Necesssità di consultazione” per chi? Per un lettore ‘professionale’ (un giornalista, un critico, uno scrittore, uno studioso, un docente), e comunque colto? O per l’utenza digitale ‘media’, la massa  avvezza ad accontentarsi di  leggere le notizie sul telefonino? Qualcuno forse crede che quest’ultima avverta una vera  necessità di consultare l’intero articolo se, ad esempio, la piattaforma le comunicasse “ Bancarotta fraudolenta: arrestato il finanziere X”. Sei parole, estratte da un articolo ‘scoop’ costato al giornalista e quindi all’editore ardue ricerche in ambito di polizia giudiziaria e altre riservate fonti. Solo sei  parole: ma che attrattiva breaking news! Che ‘boccone’ per un lancio in rete capace di far lievitare l’audience!

Viceversa, quelle sei  parole sarebbero del tutto insufficienti, ad esempio, per un cronista giudiziario di  altro giornale o periodico. O per una associazione di tutela di risparmiatori. O per uno studio legale incaricato di difendere investitori beffati. Ora, se la ‘necessità’ si misurasse su costoro, o altri tipi di utenti  ‘specialistici’, ben pochi snippets meritevoli di compenso si troverebbero. Intelligenti pauca: ricordiamo  la novella dall’albero di Bertoldo, che non trovava mai quello cui essere impiccato.

Potenza (eterna potenza) delle formule ambigue!

Dalla critica, e comunque dal dubbio, alla proposta. In sede di Commissione o di Aula, il Parlamento potrebbe adottare una formula più realisticamente ‘stringente’: “qualsiasi porzione la cui comprensione come autonoma notizia breve da parte dell’utente digitale medio,   non richieda la consultazione dell’articolo originale nella sua integrità”. Del resto -e qui chiudo- se quelle sei  parole non costituissero un ‘prodotto informativo’, la piattaforma non le avrebbe estratte e lanciate. L’averlo fatto, o il prepararsi a farlo, è testimonianza ‘autentica’ -‘confessione’!- che si tratta di un Presseerzeugnis.

Su questa diversa linea concettuale, insieme più realistica ed ‘equa’ nelle conseguenze, adeguate  negoziazioni potranno concludersi tra editori e piattaforme, eventualmente con l’intervento di AGCOM (art.1.10 del progetto governativo).

Il Parlamento ricordi che la legge di recepimento deve riflettere effettivamente l’obbiettivo giuspolitico della Direttiva:  la fluidità di circolazione online dell’informazione -e quindi l’attività dei grandi intermediari- non può assestare una (ulteriore) pugnalata alla libera stampa, baluardo del pluralismo informativo e culturale: della democrazia tout court.

Rileggiamo attentamente l’art 41.2 della Costituzione.

 

 

 

Gustavo Ghidini

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