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Surrogazione di maternità, progresso tecnologico e diritti del bambino nel nuovo libro del Prof. Alberto Gambino

Ottobre 2015 Numero Pagine 210 CDU 19F 166 ISBN/EAN 9788821596612

La politica continua ad interrogarsi, e dividersi anche all’interno della maggioranza e della formazione di governo, sul tema delle unioni civili alla luce del Ddl Cirinnà ormai prossimo alla discussione parlamentare. Se il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi ha spiegato che non c’è una posizione della maggioranza e che ci sarà libertà di coscienza sulle stepchild adoption, raccogliendo un plauso dal ministro dell’Interno Angelino Alfano, è ancora ferma la posizione della Cei, che per bocca del segretario Nunzio Galantino chiede alla politica di “non essere strabica” e chiosa: “Spero che si riesca ad avere con chiarezza attenzione alla famiglia fatta di padre, madre e figli e che governo stia attento anche ad altre realtà che hanno bisogno di essere accompagnate”.

Ottobre 2015 Numero pagine 210  CDU 19F 166 ISBN/EAN 9788821596612
Ottobre 2015
Numero pagine 210
CDU 19F 166
ISBN/EAN 9788821596612
È dunque in un momento di profonda riflessione comune su temi eticamente sensibili che si inserisce la nuova pubblicazione del Prof. Alberto Gambino, Direttore della Rivista Diritto,Mercato e Tecnologia “Matrimonio, famiglia e legge naturale” (San Paolo). Il volume esplora il territorio dei diritti e dei doveri legati al matrimonio e alla famiglia e ai rapporti di convivenza, nonché in particolare i temi della genitorialità biologica e il ricorso alla procreazione medicalmente assistita. Con riferimento a quest’ultimo punto e alle pratiche di  maternità surrogata, si ricorda che “il progresso tecnologico ha reso ora possibile la non coincidenza tra chi ha partorito e chi ha generato il figlio”, segnalandosi casi problematici “anche in ordinamenti europei di impronta tradizionalmente liberale. L’Alta Corte di Giustizia del Regno Unito – scrive l’autore –  ha stabilito che un donatore di sperma ha il diritto di avere incontri regolari con i suoi figli nati attraverso la fecondazione assistita. Due donatori gay, padri biologici dei figli partoriti da due donne lesbiche, hanno rivendicato dei diritti sull’educazione dei minorenni e si sono visti dare ragione. Al donatore degli spermatozoi può essere riconosciuto il diritto di incontrarsi regolarmente con i figli biologici”. Ma, prosegue Gambino,  “La domanda andrebbe in realtà ribaltata. Hanno diritto i figli a conoscere la loro origine biologica? Certamente sì, in quanto nessuna legge dello Stato potrà mai estirpare il diritto inalienabile di conoscere la propria storia genetica, sociale e culturale. Quanto al genitore naturale che dona il seme, ci troviamo davanti ad una situazione di abbandono, ma poiché il materiale biologico, essendo all’origine della vita, non è una cosa o una merce qualsiasi, ecco che potranno darsi casi di bambini procreati con donatore esterno che vogliono conoscere le loro origini. Più complicato è, invece, ritenere che gli stessi diritti li abbia il padre-donatore nel caso in cui rinunzi deliberatamente ad esercitare responsabilmente la propria paternità”. “Nel caso dell’adozione – si legge ancora nel volume – c’è uno stato di abbandono del figlio che giudizialmente diviene adottabile eliminando ogni legame giuridico con la famiglia di origine, che evidentemente lo ha abbandonato. È in nome dell’interesse del minore che si crea una nuova famiglia cui spettano tutte le prerogative genitoriali”. Il civilista affronta poi i temi di stringente attualità: È recente un nuovo intervento in materia di maternità surrogata da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo. Con la sentenza del gennaio 2015, n. 25358/12 nel caso Paradiso e Campanelli contro Italia, il giudice europeo ha affermato che il divieto di maternità surrogata previsto dalla legge italiana si traduce nella violazione del diritto dei figli nati con tale modalità di procreazione al rispetto della loro vita familiare e si pone quindi in contrasto con l’art. 8 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo quando all’atto pratico giustifica il provvedimento di allontanamento dall’ambiente familiare dei genitori surrogati. I magistrati Ue hanno sanzionato l’Italia per aver tolto a una coppia il bambino nato, un anno e mezzo prima, in Russia da una madre surrogata. L’Unione Europea sostiene che non è stato dimostrato che l’allontanamento del piccolo dalla coppia era necessario”. Ma il giurista critica la sentenza: “La decisione di Strasburgo è una decisione che torna a far leva sull’art. 8 della Convinzione europea per i diritti dell’uomo, cioè l’assolutizzazione del diritto alla vita privata e familiare. Dentro a questo diritto alla vita familiare c’è anche il diritto ad avere figli che non siano nati naturalmente dalla coppia, né siano arrivati attraverso la procedura di adozione, ma attraverso la surrogazione di maternità. Questo però si scontra in modo molto chiaro con l’ordinamento civile italiano, che invece vieta la surrogazione di maternità. Con la sentenza in materia di eterologa, la Corte Costituzionale ha sancito che la pratica della maternità surrogata lede la dignità della donna e il diritto, perché solo l’adozione è consentita in Italia”. La maternità surrogata viene così vista con la lente del contratto che si stipula tra le parti e dei passaggi di denaro che ne conseguono, dinamiche che “urtano decisamente con la dignità della donna, la dignità anche del nascituro e in particolare la concezione di famiglia civile – e non famiglia religiosa – che c’è all’interno del nostro ordinamento civilistico. Molto diverso è il caso, invece, dell’adozione: nell’adozione c’è uno stato di abbandono, il bambino non ha più i genitori e quindi viene ricondotto nell’albero di un’altra famiglia, che lo accoglie. La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia perché non avrebbe  dimostrato che l’allontanamento del bambino dalla coppia fosse necessario. Utilizzare l’affetto tra bambino e genitori – che sicuramente esiste – risulta un po’ uno escamotage per scardinare una norma prevista dalla legge italiana”. Nel libro si fa inoltre riferimento allo scambio di embrioni avvenuto nell’aprile dello scorso anno all’ospedale Pertini di Roma. Ultimi, ma non meno importanti aspetti toccati nel libro su questo argomento sono l’anonimato dei donatori, il rimborso agli stessi e la selezione dei gameti: “La scelta di alcuni piuttosto che altri per venire incontro ad esigenze di somiglianza somatica con la coppia è ormai prassi in non pochi centri stranieri: anche qui va dato un riferimento normativo certo onde scongiurare scenari di derive selettive del genere umano”. http://issuu.com/edizionisanpaolo/docs/estratto-matrimonio-famiglia-legge-

Pubblichiamo di seguito due recensioni al volume e una intervista al Prof. Gambino

Unioni non tradizionali tra persone stabilmente conviventi e mutamenti del diritto in un libro recente

di Salvatore Prisco

Dipartimento di Giurisprudenza – Università di Napoli Federico II

1. – Alberto Gambino, ordinario di diritto privato nell’Università Europea di Roma, dove dirige il Dipartimento di Scienze umane, è un autorevole esperto di diritto e nuove tecnologie, come dimostra anche la rivista che anima, DiMT, acronimo appunto di Diritto, Mercato e Tecnologia. Egli è però anche sollecitato da altri interessi culturali e uomo di fede e formazione cattolica. A questo aspetto della sua personalità va ricondotto il volumetto che ha di recente dedicato a Matrimonio, Famiglia e legge naturale. Uno sguardo ai diritti e ai doveri, che fa parte di una collana di altri libri uscita nel 2015 presso le Edizioni Paoline – sotto il titolo complessivo Questioni di famiglia – in allegato al settimanale Famiglia Cristiana e pubblicata sotto il patrocinio dell’ufficio per la pastorale familiare della Conferenza episcopale italiana, tant’è che si chiude con una scheda operativa per chi debba svolgere questa funzione. Per definire lo studio si è usato un diminutivo non certo nell’intento di sminuire lo sforzo dell’autore, ma solo per segnalarne il carattere volutamente divulgativo e per così dire “di battaglia culturale”, il che spiega anche la tendenza a ribadire spesso i concetti chiave, nel momento in cui – dividendo le coscienze, manifestandosi in raduni di piazza ispirati da contrapposte visioni e nelle pubbliche discussioni intrecciate sui mezzi di comunicazioni di massa – approda finalmente alla fase del dibattito e della decisione parlamentare in merito (con molto ritardo, rispetto a quanto accaduto in altri Paesi occidentali) la vexata quaestio dello statuto giuridico dei diritti delle coppie di fatto delle persone con orientamento etero, ma soprattutto omosessuale. Il disegno di legge del Senato n. 2081/ XVII Legislatura, recante Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze, ormai a tutti noto come “Cirinnà”, dal nome della senatrice del Partito Democratico che ne è la prima firmataria (con diversi altri, in larga prevalenza appartenenti al gruppo di questa formazione politica), riguarda infatti entrambe le categorie di soggetti e coppie, ma l’attenzione di gran lunga prevalente si è concentrata sulla seconda. Il libro ha il merito, in tre densi capitoli, rispettivamente dedicati a “La famiglia come vincolo giuridico: istituzione o contratto?”, “La famiglia come fonte di diritti e doveri”, “La famiglia come diritto a una famiglia”, di sintetizzare l’orientamento culturale dell’autore e di filtrare alla sua luce orientamenti dottrinali e pronunzie giurisprudenziali sul tema, senza tacere o diplomatizzare consensi e dissensi verso altre posizioni ed usando un linguaggio chiaro, diretto, adatto al pubblico dei non addetti ai lavori ai quali è intenzionalmente indirizzato. 2. – Chi scrive dichiara il proprio accordo di partenza con le tesi sostenute nel lavoro in ordine a due punti di vista essenziali: l’idea che la famiglia (ciascuna, anzi, in modo diverso: come scriveva Tolstoj proprio all’inizio di Anna Karenina, “Tutte le famiglie felici si assomigliano, ogni famiglia infelice lo è a modo suo”) abbia un proprio patrimonio assiologico e si concreti in un autonomo ordinamento – anche giuridico, nel senso romaniano – di peculiari rapporti tra persone, con carattere pre-statuale (come chiaramente emerge dalla Costituzione italiana) e inoltre quella che tale vita comunitaria non si risolva semplicemente nella somma dei diritti e doveri dei rispettivi componenti, ma contenga un quid pluris, un valore aggiunto consistente nell’intento di dettare a se stessa una specifica progettualità e proiezione verso il futuro, con assunzione perciò anche di una responsabilità (si pensi al compito – indicato da un significativo climax – di mantenere, istruire ed educare i figli, costituzionalmente assegnato) nei confronti della collettività generale ordinata a Stato, che impedisce di confinare siffatta istituzione socio-giuridica sotto nell’ambito privatistico. Con altrettanta onestà intellettuale di quella che Gambino non dissimula, deve però dichiararsi che oltre questi aspetti l’accordo finisce ed emergono nel recensore perplessità. In particolare, dalla constatata pre-giuridicità rispetto a quella statuale della comunità familiare, l’autore non deriva – come allora sarebbe sembrata logica conseguenza che facesse – la conseguenza del suo carattere di formazione sociale modellata da logiche di sviluppo autonomo, che lo Stato può soltanto riconoscere e garantire ed il cui dinamismo impone quindi di contestualizzare il dato testuale canonizzato dall’art. 29 della Carta fondamentale, per proporsi di valutare se la lettura tradizionale del suo (almeno apparentemente) incontroverso tenore letterale sia l’unica possibile o se esso sopporti in ipotesi anche una lettura evolutiva, che vada oltre l’assunto original intent dei Costituenti. Il punto di caduta e di compromesso si raggiunse invero in quella sede intorno ad un dettato che risultò da una faticosissima mediazione, non priva di asperità interpretative per il futuro commentatore, giacché fondare una realtà “naturale “ e quindi pre-statuale su un istituto dell’ordinamento statale come il matrimonio avviluppa la formula in una contraddizione che non appare facile sciogliere. Non esiste invero – a parere dello scrivente – una ragione teorica e ontologica per non considerare “famiglia” anche un’aggregazione umana, purché non occasionale e sempre fondata su relazioni mutualmente solidaristico-affettive, diversa da quella (eterosessuale e coniugata secondo le leggi dello Stato, vale a dire con rito civile, ovvero – ma sempre in base ad esse – davanti ad un ministro di culto, cattolico o appartenente ad una confessione che ha stipulato un’intesa con lo Stato medesimo, con successiva trascrizione nei registri dello stato civile) che l’esegesi corrente della disposizione costituzionale sembra invece definire come tale in via esclusiva. Lo riconobbe implicitamente in Assemblea Costituente un cattolico come Moro, argomentando nella seduta della I Sottocommissione del 5 novembre 1946 sul non necessario riconoscimento della sacramentalità del matrimonio ai fini civili – pur cara ai cattolici, egli dichiarò – ma sul carattere invece indispensabilmente naturale della famiglia comunque costituita (corsivo nostro). Sempre l’on. Moro, in Adunanza Plenaria, reintervenne il 15 gennaio 1947 per sostenere che “naturale” non era equivalente ad “animale”, ma alludeva a un vincolo etico-sociale razionale all’invadenza possibile dell’ordinamento statale. Le posizioni di altri Costituenti della medesima sensibilità politico-culturale – come Corsanego, relatore nella medesima Sottocommissione e soprattutto Dossetti e La Pira – erano sul punto più nette e miravano in sostanza e più che altro all’introduzione nella Carta fondamentale della clausola di indissolubilità matrimoniale, in questo favoriti anche dalla cautela tattica di Togliatti, consapevole del sentire di larga parte dell’elettorato comunista contro il divorzio e tesa a fare breccia nel corpo dell’elettorato democristiano, in nome di comuni radici popolari e di una dichiarata minore attenzione ai temi “borghesi” dei diritti civili, che infatti sarebbero prepotentemente ritornati al entro della discussione due decenni dopo, vale a dire nel clima della “contestazione” sessantottina [Per un’accurata ricostruzione del dibattito in argomento in seno all’Assemblea Costituente, nelle sue diverse fasi, si può leggere, con gli ulteriori richiami bibliografici ivi indicati, V. Caporrella, La famiglia nella Costituzione italiana. La genesi dell’articolo 29 e il dibattito della Costituente, pubblicato in Dossier: Fare e rifare famiglia, in Storicamente.org, 6/2010]. L’aggettivo “naturale” può in effetti rimandare, in questo quadro di riflessioni, anche alla nozione di “unione socialmente riconosciuta e stabilizzata”, in modo da connotare ogni forma di convivenza che appaia alla coscienza sociale diffusa meritevole di tutela (l’area di ambiguità semantica dell’aggettivo su cui si convenne infine in Assemblea fu lucidamente rilevata da Vittorio Emanuele Orlando, che giocò con l’immagine “fumosa” cui esso rinviava, in cambio dell’ “arrosto” di accordi politici tra DC e PCI su altri tavoli e tentò vanamente – contrastato ad esempio da Laconi e Mortati, che l’ebbero vinta – di fare abrogare ogni pretesa di compromesso verbale e solo definitorio, per fare invece restare in Costituzione soltanto disposizioni di taglio immediatamente operativo), sicché in definitiva cosa sia “famiglia” è, in questo senso, una questione interamente storica e antropologica, secondo quanto notò opportunamente nella stessa sede il socialista Basso. Chi ne studia le variazioni attraverso i secoli e i luoghi, in disparte ogni giudizio di valore, ne rinviene in effetti una pluralità di forme e funzioni, onde una “naturalezza” ontologica è difficile da cogliere. In Egitto tra i Faraoni ci si sposava endogamicamente e quindi tra fratelli o tra genitori e figli ed anche per questo tale civiltà è decaduta per tare fisio-psichiche manifestatesi nella discendenza (già il mito di Edipo condannava, nella civiltà greca, l’incesto). In certe culture erano ammesse la pedofilia e l’omofilia, altre erano poliandriche o poliginiche, in tutte – in antico – la famiglia era intesa in senso largo, come un clan o una gens (e così è ancora oggi in culture dell’Africa e dell’Asia), in alcune matriarcale, in altre dominata dal’autorità della figura maschile. La società borghese occidentale ha dal suo canto costruito la famiglia come monogamica, in certe opzioni indissolubile (ma con previsioni di nullità civili o canoniche del vincolo matrimoniale) e a dominanza del maschio, la cui prevalenza legittimava ad esempio un diverso trattamento dell’adulterio del marito e della moglie e motivava come “valvola di sfogo” il controllo pubblico sull’esercizio della prostituzione. In età a noi contemporanea, la famiglia (con le donne che avevano conquistato diritto di voto e abituale – anche se discriminata – presenza sul mercato del lavoro) è tendenzialmente egualitaria e non più legalmente indissolubile, formalmente legittimata non più soltanto dalla contrazione del vincolo, in nome della divinità, dai ministri di un culto (non più solo, cioè, “sacramento”), ma costituita altresì in forma secolare come contratto e da ufficiali di stato civile, indi ancora “aperta” (in diritto e/o in fatto) e ci sono anche state – nell’esperienza che si è aperta dopo il ‘68 – le “comuni”, che taluna filosofia classica greca aveva del resto teorizzato e antiche poleis avevano altresì praticato, essendone poi state anche costituite nelle aree rurali della Repubblica Popolare Cinese [Per questa parte del paragrafo ci si può riferire a D. e G. Francescato, Famiglie aperte: la comune, Milano, 1975, nonché a M. Barbagli, ad vocem, in Enciclopedia delle Scienze Sociali, Roma, III, 1993, 767 ss. e a C. Saraceni, Coppie e famiglie, Feltrinelli, 2012 ed è di grande interesse anche il recentissimo racconto di casi specifici e di una complessiva esperienza di magistrato minorile di M. Cavallo, Si fa presto a dire famiglia, Roma – Bari, 2016, la cui autrice è stata negli anni in servizio a Milano, a Napoli e a Roma, dove ha concluso l’esercizio delle proprie funzioni come presidente del Tribunale dei Minori, come tale ispiratrice o coautrice anche di sentenze innovative]. 3. – Ciò posto, siccome la tradizione è proprio stabilizzazione della storia pensata per modelli, insomma cristallizzazione e proiezione verso il futuro di una immagine maturata in un certo contesto culturale e l’antropologia comprende anche il sentire e le identità religiosi, l’una e l’altra vanno rispettate, in quanto vengano introiettate in un vissuto individuale e collettivo, purché comunque ne venga riconosciuta la relatività. Equiparare pertanto tout court ciò che è (appunto, ma soltanto, per ragioni storiche) diverso è scorretto, innanzitutto logicamente. Tuttavia la domanda da porsi di fronte ad ogni nuova rivendicazione di equiparazione di trattamento (posto che ogni situazione è davvero uguale soltanto a se stessa), è innanzitutto se, sotto il profilo di volta in volta rivendicato come uguagliabile, la richiesta sia o meno ragionevolmente giustificata. Questa nota viene licenziata nell’immediata vigilia dell’inizio delle discussioni di merito nell’assemblea plenaria del Senato della Repubblica sul disegno di legge ricordato all’inizio, non potendo dunque lo scrivente sapere come andrà a finire la vicenda parlamentare. Nessuna delle due schiere, quella favorevole e quella contraria, può all’apparenza dirsi sicura dell’esito rispettivamente sperato, giacché sul punto essenziale del contendere – la c. d. stepchild adoption, o “adozione del figlio biologico del partner omosessuale convivente” (“figliastro” è termine usualmente deprecatorio, che qui si preferisce evitare) – si registrano contrasti all’interno di ciascun gruppo parlamentare e i rispettivi leaders hanno aperto al ricorso al voto segreto per motivi di coscienza, intrecciandosi poi prevedibilmente questo piano di decisione con le manovre di politica contingente favorevoli o contrarie al governo in carica. Siano consentite alcune osservazioni finali, a questo punto delle discussioni in corso nell’opinione pubblica e quindi ben al di là della mera recensione al testo da cui si sono prese le mosse, il che è però forse perdonabile, proprio in ragione del suo dichiarato porsi come un materiale che si è sopra definito quale anche di “battaglia” politico-culturale, per cui non si ritiene di tradire l’intento dell’autore se lo si discute anche da questo punto di vista. Innanzitutto, non tanto inesplicabilmente (perché questo è il segno che si tocca un punto antropologicamente decisivo), la storia si ripete: anche la seduta del 23 aprile 2947 dell’Assemblea Costituente in cui si deliberò sull’indissolubilità del matrimonio – e che si protrasse oltre la mezzanotte, chiudendosi al fotofinish con un esito che per due soli voti non introduceva tale menzione, pur precedentemente in vantaggio – vide un voto segreto, tanto inusuale per i suoi lavori che il Presidente Terracini dovette innanzitutto mettere ai voti la preliminare questione della legittimità della richiesta procedurale in termini. In secondo luogo, è probabilmente nel vero chi rileva come la questione della legittimazione delle unioni omosessuali (presente in campo fin dalla sentenza 138/2010 della Corte Costituzionale e la cui soluzione è stata ripetutamente sollecitata dalla sua giurisprudenza successiva in tema e da quella della Cedu, nonché da richiami e atti formali via via più stringenti del Parlamento Europeo) non è più – da sola – il punto divisivo tra le forze politiche e nel dibattito pubblico, perfino nelle posizioni ufficiali di autorevoli esponenti della Chiesa Cattolica: la semplice unione di convivenza non tradizionale e i diritti degli individui in essa sono problema in fondo superato. Non si tratta dunque più di questo, ma del fatto che la ulteriore rivendicazione della stepchild adoption, che come si diceva vi si è successivamente collegata, tende indubitabilmente a forzare la percezione della normalità scientifica e statistica, per così dire, dei processi biologici, come finora l’abbiamo conosciuta, insomma a normare (e così a provare anche a “normalizzare”) l’eccezionalità. Va peraltro ben precisato in che senso si debba al riguardo parlare di “rottura di un paradigma”. Questo perché, ex l. 184/1983, significativamente intitolata Diritto del minore a una famiglia, a proposito di “adozione casi particolari e dei suoi effetti”, l’art. 44 – nel testo sostituito dall’art. 25 della l. 28 marzo 2001, n. 149 – dispone che: “I minori possono essere adottati anche quando non ricorrono le condizioni di cui al comma 1 dell’articolo 7: a) da persone unite al minore da vincolo di parentela fino al sesto grado o da preesistente rapporto stabile e duraturo, quando il minore sia orfano di padre e di madre; b) dal coniuge nel caso in cui il minore sia figlio anche adottivo dell’altro coniuge; c) quando il minore si trovi nelle condizioni indicate dall’articolo 3, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104, e sia orfano di padre e di madre; d) quando vi sia la constatata impossibilità di affidamento preadottivo”. Il comma 2 dispone a sua volta che “l’adozione, nei casi indicati nel comma 1, è consentita anche in presenza di figli legittimi” e quello successivo che “nei casi di cui alle lettere a), c), e d) del comma 1 l’adozione è consentita, oltre che ai coniugi, anche a chi non è coniugato. Se l’adottante è persona coniugata e non separata, l’adozione può essere tuttavia disposta solo a seguito di richiesta da parte di entrambi i coniugi”. In effetti, sono all’incirca una quindicina i casi che sono stati già risolti, nel solo Tribunale dei Minori di Roma, facendo applicazione di questo articolato. Il punto che allora spaventa è piuttosto di metodo e di prospettiva, posto che il complesso salto culturale da compiere, perfino per chi abbia posizioni “aperte”, è nel passaggio da una soluzione remediale ex post, com’è tipico che sia imposto e quindi consentito ai giudici, caso per caso, di perseguire e la normazione generale, astratta e previa che nelle medesime circostanze sarebbe invece richiesta al legislatore [Chi scrive ha sviluppato questo punto in L’Italia, il diritto e le unioni affettive stabili di carattere non tradizionale. Un panorama di problemi e di possibili soluzioni, scritto in collaborazione con M. Monaco, in Rivista di biodiritto / BioLaw Journal, online, 2/2014, 253 ss., ora anche in Id., La musica della vita. Quaderno di biopolitica e bioetica di un giurista, Napoli, 2015, 99 ss. (106, nota 7, per la specifico richiamo) e si permette di rinviare a questo lavoro chi desiderasse approfondire il suo pensiero in merito]. V’è poi da considerare il fenomeno dello shopping transazionale dei diritti, che può portare a ottenere all’estero, dov’è consentito, un effetto giuridico da noi vietato e successivamente a provare a legittimarlo nel nostro Paese, in forza dei vincoli assunti con l’adesione ad organizzazioni e comunità sovrannazionali. In sostanza, contrastare una pratica indesiderata in bioetica e biopolitica richiede un salto di qualità e la stipulazione di appositi accordi internazionali. È in proposito significativo che intellettuali – perlopiù donne – ascrivibili allo stesso schieramento culturale che in Francia ha spinto prima per i Pacs e poi per il matrimonio fra omosessuali abbiano promosso a Parigi lo scorso 2 febbraio, l’adozione di una dichiarazione, la Charte pour l’abolition universelle de la maternité de substitution, contraria – con portata, nelle intenzioni dichiarate, per l’appunto mondiale – alla maternità surrogata, tema al precedente contiguo, in quanto pratica in tale sede denunciata come una mercantilizzazione della generazione imposta da coppie e donne dei Paesi ricchi verso quelle dei contesti geopolitici poveri, come un’odiosa espressione di nuovo colonialismo [D. Zappalà, Madri surrogate, ecco la «Carta oli Parigi», in Avvenire, 24 gennaio 2016]. Va anche detto – com’è stato esattamente osservato da chi aveva in precedenza riferito dati europei e non solo nazionali sul decremento dei matrimoni nel più recente periodo – che “in termini giuridici, la ‘crisi della famiglia’ altro non è se non l’espressione esemplificativa di due fenomeni opposti, ma convergenti nel risultato, e precisamente della progressiva ‘degiuridicizzazione’ della famiglia legittima, per un verso, e della corrispondente ‘giuridicizzazione’ della convivenza more uxorio, per l’altro” [S. Rossi, La famiglia di fatto nella giurisprudenza della Corte Costituzionale, in Tra famiglie, matrimoni e unioni di fatto. Un itinerario di ricerca plurale, a cura di B. Pezzini, Napoli, 2008, 135 ss.; si veda pure, per un panorama giurisprudenziale recente, E. Lamarque, Le convivenze nella Costituzione e nella giurisprudenza delle Corti europee, relazione al convegno Convivenze tutelate e funzione notarile, Milano,7 marzo 2014, paper]. In fondo, nella famiglia di fatto (e indipendentermente dal sesso delle parti), ci si sceglie ogni giorno, mentre in quella “istituzionalizzata” la tensione affettiva centripeta più facilmente cede all’abitudine o è esposta a tensioni di diversa natura. Il che vuole anche dire che, al palesarsi di aspetti deteriori, come ad esempio violenze tra i contraenti (legali o di fatto) del legame e nei confronti dei figli, quella non assistita da un vincolo giuridico che fino a non molto tempo fa richiedeva comunque un certo tempo e spese per essere allentato dalla separazione legale, o sciolto dal divorzio, essa può – al netto di pur non sottovalutabili impedimenti socioeconomici della parte contraente debole a liberarsi da quello che fosse divenuto un peso – più facilmente reagire con un dissolvimento a conflittualità insanabili. Più in generale, comunque – dopo che solo nel 1975 la riforma organica del diritto di famiglia prese atto dei mutamenti sociali che la Carta Costituzionale era stata aperta a prefigurare, o comunque a non blindare, lasciando largo spazio alla dialettica futura in materia – il fenomeno del pluralizzarsi dei modelli familiari per l’intervento conformativo su di essi di fattori esterni si è prodotto con moto accelerato. Moro e altri Costituenti avevano espressamente temuto (memori delle tristi esperienze dei totalitarismi novecenteschi di cui erano stati testimoni) che la famiglia potesse essere funzionalizzata ad un’intrusiva ragione di Stato in grado di penetrare nella sua intimità e contro questo rischio avevano inteso premunirla. Oggi invece è piuttosto lo sviluppo dell’economia e della tecnologia ad avere messo in crisi il modello tradizionale e unitario di famiglia. Il più rapido allentamento del vincolo matrimoniale attualmente possibile, quando non la sua ormai non più controversa dissolubilità, l’ormai sostanziale equiparazione tra prole legittima e naturale, la più facile dissociazione tra esercizio della sessualità e riproduzione, nonché tra identità sessuale originariamente attribuita e quella successivamente scelta, la diminuzione drastica di natalità dell’Occidente sviluppato (su cui influisce la tendenza a decriminalizzare l’aborto, sia pure in base a presupposti variabili nei differenti ordinamenti e con ostacoli di fatto, come le obiezioni di coscienza spesso di comodo condannate anche dal Consiglio d’Europa) e le tendenze del capitalismo globale hanno infatti investito in primo luogo le società intermedie “organiche”, nuclei sì di nuovi consumi, ma anche di potenziale resistenza ad un modello generale di vita che richiede una platea di individualisti obbedienti alle esigenze della produzione, piuttosto che contesti parentali le cui ragioni di sviluppo non sono in primo luogo riconducibili a (e plasmate dalle) esigenze dello sviluppo economico. Questo ha generato (nel contesto di organismi internazionali e sovrannazionali che hanno accompagnato l’integrazione/diminuzione delle singole sovranità nazionali) una nozione, con effetti anche sul punto in esame (si veda infatti da noi Cass. civ., I, 4184/2012), di “ordine pubblico” – europeo e non solo – le cui caratteristiche, per come fissate nei documenti internazionali, ad esempio nella Cedu, tendono a sovrapporsi a quelle proprie degli ordinamenti nazionali e al limite perfino a sostituirle, pur con i contemperamenti che nella realtà effettuale derivano dalla salvaguardia finora operante del “margine di apprezzamento” e dei “controlimiti costituzionali” di ciascuna tradizione culturale – rispetto a quelle comuni – e quindi anche di ogni specifico humus giuridico [F. Angelini, Ordine pubblico e integrazione costituzionale europea. I principî fondamentali nelle relazioni interordinamentali, Padova, 2007]. Diventa pertanto oltremodo arduo recuperare oggi la saldezza, che si può ritenere invece definitivamente scossa, del modello costituzionale italiano originario di famiglia “legittima”, senza prendere atto di uno slippery slope, di un “piano inclinato” che ha portato per tappe successive e con un progressivo assemblaggio di tasselli che compongono oggi un nuovo puzzle, leggibile solo ex post, a formare il quadro di valori/principî in mutamento che è sottostante alle discussioni odierne al riguardo. Si può semmai, a questo proposito, osservare con qualche rimpianto per l’occasione allora perduta che, se il mondo cattolico non si fosse a suo tempo opposto (col primo Family Day) ai DiCo prodiani, oltretutto ispirati non da un eversore, ma proprio dall’autore del libro qui recensito (che infatti ricorda quel progetto, pur non citandosene per modestia come sostenitore, con palese rammarico), non si porrebbe forse il problema sul quale tanto animosamente si controverte nel momento in cui queste righe vengono licenziate. In quel disegno di legge ci si limitava infatti a riconoscere diritti personali (che già avevano ricevuto un precedente ingresso puntuale in giurisprudenza) a quanti fossero per un certo periodo stabilmente conviventi, puntando su una nozione “neutra” come la comune residenza, senza fare questioni del tipo di rapporti intercorrenti tra loro (e così, per dire, contemplando anche persone anziane e senza più una famiglia propria che vivono assieme, studenti universitarî fuori sede, amici o colleghi, motivati da spirito di assistenza e solidarietà reciproca e dall’intento di risparmiare sulle spese domestiche, dividendole). Anche una recente intervista del 30 gennaio scorso resa dal cardinale Ruini riconosce ora, tra le righe, quell’errore di valutazione [A. Cazzullo, Family day, davanti alla tv con Ruini: «Il compromesso è ancora possibile», in Corriere della Sera, 30 gennaio 2016].

in Zenit del 3 ottobre 2015

È uscito la scorsa settimana, in allegato a Famiglia Cristiana, il saggio di Alberto Gambino, professore di Diritto Privato e di Filosofia del Diritto all’Università Europea di Roma. Edito da San Paolo, Matrimonio, Famiglia e Diritto naturale: uno sguardo ai diritti e ai doveri è il III volume della collana Questioni di Famiglia.

L’autore passa in rassegna l’istituzione familiare e quella matrimoniale, alla luce della volontà dei padri costituenti e dell’evoluzione del pensiero giuridico sulla famiglia, legato alle nuove norme in materia di divorzio e alle diverse risposte che i singoli Stati e l’Europa hanno dato alla richiesta delle coppie omosessuali di contrarre un vincolo eguagliabile al matrimonio. Attraverso la riflessione su casi giudiziari concreti e sulle ripercussioni che questi hanno avuto negli ultimi anni, l’autore aiuta il lettore a fare chiarezza nell’attuale dibattito sull’opportunità o meno di muoversi su diversi fronti: aprire l’istituzione matrimoniale a coppie dello stesso sesso, pensare a un legame giuridico che possa soddisfare le coppie che vogliono convivere senza sposarsi, consentire l’adozione al di fuori del matrimonio. In particolare, la riflessione di Gambino si rivolge al credente, che vuol intervenire nel dibattito con maggiore consapevolezza e conoscenza anche delle basi giuridiche del matrimonio e della famiglia.

«L’adesione richiesta al credente nei confronti del dato sociale in continua evoluzione» si legge nell’introduzione, «è però, per dirla con un’efficace e fortunata espressione di Philipp Heck, un’adesione (non cieca, ma) “pensosa”, “riflessiva”, e cioè costantemente attenta a cogliere le opzioni di ordine valutativo e tenerne adeguatamente conto anche nella soluzione dei casi non espressamente regolati. L’idea che va respinta è quella secondo cui la complessità sociale e il pluralismo dei valori abbiano messo ormai definitivamente in crisi qualsiasi aspirazione a cercare il senso del “giusto”. Perché proprio qui – e forse solo qui – si misura il contributo del laico credente impegnato nella costruzione di un “bene” che da personale si fa comune».

Il libro si apre con la questione del riconoscimento di diversi modelli legali di convivenza. Se da un lato «le statistiche in tema di famiglia mostrano un sensibile calo della scelta di rendere ufficiali i vincoli affettivi e il corrispondente aumento della scelta di instaurare legami precari» dall’altro una nuova «tendenza comporta un riformismo “ideologico”, che da azione politica di tutela e protezione delle fasce deboli della società sposta il tiro sull’accondiscendenza a élites culturali che individuano il progresso del XXI secolo nell’annullamento della “dimensione naturale” delle relazioni umane. Il tema dell’adozione per le coppie gay è, in questo senso, centrale: non più una mamma e un papà per il bambino in formazione».

Ma che cos’è la Famiglia? Il secondo capitolo analizza l’istituzione familiare come fonte di diritti e doveri: l’obbligo per i coniugi della reciproca fedeltà e dell’assistenza morale e materiale; la responsabilità genitoriale condivisa, che vale anche nel caso in cui i due genitori non siano uniti in matrimonio e si può estendere a seconda dei casi anche a un eventuale nuovo coniuge e in parte ai nonni. Il capitolo si conclude con una riflessione sull’attuale crisi del rapporto coniugale. «Un istituto millenario come il matrimonio, su cui si sono fondate tutte le grandi civiltà e le moderne democrazie – scrive l’autore – rappresenta un impegno importante dei consociati davanti alla comunità e il suo eventuale scioglimento dovrebbe essere ponderato, anche con il decorso di un tempo ragionevole».

Il divorzio breve pare essere stato introdotto per ridurre i tempi di attesa e le spese giudiziarie. Questo ha significato, però, un cambiamento del significato e del valore della separazione che era piuttosto un periodo di verifica del matrimonio, al fine di  «tutelare l’interesse superiore all’unità familiare». «Sembra quasi che la soluzione ai problemi relativi alla crisi matrimoniale e allo scioglimento del vincolo si ottenga con l’accorciamento dei termini di durata della separazione. L’istituto della separazione non è stato pensato dal legislatore quale passaggio procedimentale per giungere ineluttabilmente al divorzio, ma come fase “temporanea” che potrebbe dar luogo anche a una riconciliazione tra i coniugi».

Soggetti di diritti all’interno della famiglia, non sono solo i coniugi ma anche i figli. Dove si vanno affermando «tendenze, specie in ambito giudiziario, che mirano a legittimare nuove strutture familiari, in cui svanisce la distinzione antropologica tra uomo e donna, tra madre e padre» e «i conviventi seguono quelli che sono i loro desideri e bisogni, anche quello di adottare un figlio, bisogna tenere presente che vi è un “terzo incomodo”: il bambino stesso che ha dei diritti, a volte trascurati, che non sono quelli di avere davanti a sé, nella fase più delicata della sua vita, due uomini o due donne che lo allevano, ma il diritto, invece, di vedere rappresentato ciò che è naturale, e cioè di relazionarsi con due figure genitoriali, una maschile e una femminile».

In questo contesto culturale, istituti come l’adozione “mite” e l’affido etero-familiare, che erano «previsti dal legislatore per la protezione del bambino in circostanze in cui non sia possibile dichiararne l’adozione piena […] nelle mani di una giurisprudenza creativa, finiscono per snaturarsi e realizzare il diverso interesse dell’adulto a conferire stabilità e riconoscimento giuridico a vincoli affettivi preesistenti a coppie omosessuali». Un paragrafo del terzo e ultimo capitolo è dedicato al tema della fecondazione medicalmente assistita. «Con la sentenza n. 162 del 2014, la Corte costituzionale ha deciso di estirpare dalla legge 40 sulla procreazione assistita una delle norme più caratterizzanti, quella che precludeva alla coppia di accedere al gamete di un donatore esterno; e ha dichiarato l’illegittimità della disposizione che vieta il ricorso a un donatore esterno di gameti (ovociti o spermatozoi) nei casi di infertilità assoluta […]Il divieto di fecondazione eterologa aveva il pregio di mantenere intatta una visione della famiglia secondo la quale il dato biologico coincideva con il dato sociale.

Il ricondurre le tecniche di fecondazione artificiale nell’ambito dei soggetti che convivono quotidianamente con il figlio era un modo per lasciare inalterato il rapporto tra padre e madre naturale e padre e madre sociale. Due sole figure genitoriali. La caduta del divieto dell’eterologa apre invece a un terzo soggetto: il donatore esterno, estraneo alla famiglia, ma che entra dal punto di vista biologico a farne parte. Una pronuncia che quindi scardina la concezione della famiglia come modellata dalla Costituzione e a risentirne sono in particolare gli artt. 29 e 30 della Carta costituzionale, il primo già vittima di un attacco con l’apertura della legge 40 anche a coppie non sposate, il secondo perché la sentenza ribalta la centralità dell’interesse del figlio sulla quale sembra prevalere il già citato presunto diritto alla genitorialità.

Un presunto “diritto”, appunto. Occorre cioè chiedersi se un desiderio, seppur eticamente condivisibile, come quello della generazione di un figlio, può assurgere al rango di diritto, ossia di pretesa tutelata coercitivamente dall’ordinamento di uno Stato. La famiglia, in altri termini, non è più un dato oggettivo, una comunità pronta ad accogliere figli, ma nella nuova concezione che forse – ed è bene sottolineare il “forse” – ha sposato anche la Consulta, appare strutturarsi come proiezione di ciò che i conviventi desiderano che sia».

Il libro di Alberto Gambino ci porta a guardare verso il Sinodo, ormai prossimo, con la consapevolezza della responsabilità che grava sulle spalle dei Padri sinodali e sulle nostre, in quanto credenti, che abbiamo il dovere di testimoniare e far luce sulle questioni che riguardano la famiglia e il matrimonio. «Il credente» scrive ancora Gambino, «deve saper leggere le modalità della vita d’oggi, deve rispettare le regole che presiedono alla convivenza civile e alla organizzazione sociale e politica, e – scendendo in profondità – deve produrre un chiarimento sull’idea di uomo e di società alla luce della ragione e della fede. È questa “un’operazione complessa che deve coinvolgere tutti i credenti”, chiamati a discernere e ad agire, certamente sotto l’animazione e la guida dei pastori, ma anche mettendo in gioco la loro tipica responsabilità e le loro specifiche competenze ed esperienze di vita».

“Quel rimpianto sui miei Dico e l’immobilismo di chi difende la famiglia”, in Vita del 5 febbraio 2016

intervista di Lorenzo Maria Alvaro

In queste settimane di dibattito sulle unioni civili e sul ddl Cirinnà più volte è stata evocata la sigla Dico, con una vena di nostalgia. Per i più è solo una dei tanti disegni di legge che non hanno poi trovato la via dell’approvazione. Ma per il giurista Alberto Gambinoquesto ricordo nostalgico non può che suonare molto ironico. Questo perché sul ddl Dico, “Diritti e doveri delle persone stabilmente Conviventi”, che vide il professore in prima linea, si scatenò un confronto molto simile a quello di oggi. Quella proposta naufrago sotto i colpi del primo Family Day, quello organizzato dalla Cei. Professore ci rinfreschi la memoria. In cosa consistevano i Dico? Bisogna ricordare che all’epoca la coalizione di Governo era l’Unione di Prodi al cui interno c’erano tanti partiti politici che andavano dal centrista Mastella fino alla sinistra e i radicali di Emma Bonino. Per questo dentro a quella grande coalizione si cercò di trovare una sintesi sul tema delle unioni civili. Sintesi che trovammo decidendo di scrivere un ddl sui diritti e doveri dei conviventi senza toccare il legame tra questi. Questo perché l’istituzionalizzazione di un legame tra due conviventi entra per forza in conflitto e contrapposizione con il matrimonio. Una proposta che sembrò scontentare tutti, dai cattolici più rigidi a Emma Bonino e i suoi radicali… Sintomo questo del fatto che era veramente una buona mediazione. Avevamo trovato un punto di equilibrio. Soluzione che di solito scontenta gli estremi. Senza entrare nel legame tra i conviventi, quindi senza atti formali simili al matrimonio, come si risolse il problema di stabilire chi conviveva realmente? Trovammo la piattaforma giuridica più idonea che era l’anagrafe. Chi aveva la residenza sotto lo stesso tetto era evidentemente convivente. Tutto infatti era giocato sul tempo di convivenza. Il ddl sui Dico prevedeva l’introduzione di alcuni diritti tra conviventi dopo un dato lasso di tempo di convivenza. L’accusa che vi veniva mossa però era quella di una legge pensata per regolare i rapporti omosessuali… In realtà era una legge che guardava a tutte le convivenze. Poi c’era certamente un salto di qualità rispetto al more uxorio. Nel senso che fino a quel momento la convivenza presa in considerazione dalla legge era solo tra uomo e donna. Ci fu comunque un momento in cui si consumò una rottura che portò alle proteste di piazza? Sì, nella fase finale dei lavori si inserì nell’art. 1 una serie di riferimenti davvero un po’ ideologici sull’affettività, intesa sullo sfondo come omoaffettività, messo ad arte per riconoscere che questa legge era pensata soprattutto per le coppie omosessuale. Secondo me fu un errore che fece scattare il no della Cei e poi il Family Day. Contrasto che a rileggere le dichiarazioni di allora fu veramente molto duro. Bagnasco ad esempio disse: «Se l’unico criterio diventa quello dell’opinione generale perché dire no, oggi a forme di convivenza stabile alternative alla famiglia, ma domani alla legalizzazione dell’incesto o della pedofilia tra persone consenzienti?»… Sono dichiarazioni legate ad un altro contesto storico. Recentemente però Ruini, in un’intervista sul Corriere, ha detto che in effetti i Dico presentavano meno criticità di quanto non rappresentino oggi le Unioni Civili di oggi. Tuttavia in entrambi i casi ci troviamo davanti a dei testi che possono rappresentare uno scivolo verso lo sgretolamento della famiglia. Eppure tra i due ddl ci sono enormi differenze… La grande differenza che tra Dico e Unioni civili è che per modificare i primi ci voleva necessariamente un’altra legge, sulle seconde bastano delle sentenze. Cioè per fare diventare il dico un legame ci voleva una decisione politica e un iter parlamentare. Invece le unioni civili sono già un’unione. In sostanza il ddl Cirinnà, come in tanti sostengono, è un matrimonio gay camuffato? Non è un’idea ma un fatto dimostrabile. La Cirinnà è una legge che si compone di più parti. Quella che parla del legame nasce dalla trasposizione dei ddl sul matrimonio egalitario che già c’erano in Parlamento a firma Manconi. È quindi evidente che si parla di parificazione al matrimonio. Al tempo il Governo in qualche modo ammonì i contestatori chiarendo che se non fossero passati i Dico sarebbero arrivate proposte peggiori nel futuro. Una previsione che ha fatto centro? Il fatto che ieri siamo stati messi nel mirino e oggi veniamo ricordati con nostalgia mi sembra emblematico. Ma mi lasci dire che il punto è un altro… Prego… Non c’è stata la forza di proporre un’alternativa credibile. E questa è una colpa delle aree che sono molto sensibili al tema del matrimonio. La mancanza di proposte, l’assenza dai tavoli decisionali e le battaglie sulle barricate con posizioni di retroguardia sono una colpa. Rimanere al di fuori dei processi, stando alla finestra, per poi intervenire solo per smontare il lavoro fatto non serve a nessuno. La storia dei Dico lo dimostra ampiamente.

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