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Il contratto di sponsorizzazione tra autonomia negoziale e regolazione pubblicistica

di Valeria Falce

1. Premessa
Il fenomeno della sponsorizzazione ha registrato nel tempo una profonda evoluzione che ne ha inciso in maniera notevolissima la funzione e – di riflesso – i tratti distintivi.
Così, mentre Gaio Plinio Mecenate la invocava, in qualità di spondeo, per patrocinare con spirito di liberalità le arti e le scienze, la figura negoziale all’esame ha progressivamente sfumato la struttura unilaterale e il carattere essenzialmente liberale che lo contraddistinguevano. Il risultato di siffatta graduale trasformazione è che, nella sua attuale configurazione, la sponsorizzazione identifica quel contratto di “nuova” emersione in virtù del quale una parte, denominata «sponsee», si obbliga, dietro corrispettivo, ad associare alla propria attività il nome o il segno distintivo di una controparte, denominata «sponsor», divulgandone in tal modo l’immagine o il marchio presso il pubblico.
La definizione che precede non si limita ad identificare il contenuto tipico della sponsorizzazione, consistente nell’associare a manifestazioni culturali di vario genere (sportive, scientifiche, politiche, di spettacolo, ecc.) il nome o il segno che si intende pubblicizzare. Ma consente altresì di risalire al lineamento essenziale del contratto in oggetto che sta nel creare un rapporto diretto e palese dei segni distintivi di una parte con l’attività di diversa natura dell’altra e, in ultima analisi, collegare la divulgazione pubblicitaria alle attività svolte dall’impresa che sponsorizza e soprattutto alle vicende specifiche dell’evento culturale.
2. Continua. Dalla donazione al contratto atipico
Nel suo stadio embrionale, dunque, la sponsorizzazione configurava una donazione a favore di un terzo, ai sensi dell’art. 769 cc. Qui, secondo la lettura proposta da Franceschelli, la fattispecie rilevante assumeva una struttura unilaterale che poggiava sullo spirito di liberalità del mecenate, il quale offriva il proprio contributo allo sponsee senza aspettarsi o pretendere alcuna controprestazione.
Una fase intermedia è quella che ha traghettato il contratto verso la c.d. sponsorizzazione impropria. Il fenomeno ricalcava i tratti della donazione modale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 793 cc, così che a fronte di una chiara manifestazione di liberalità, la donazione veniva gravata di un onere a carico del beneficiario e accompagnata da “un non velato intento di ottenere un ritorno pubblicitario”. Per l’effetto, il soggetto sponsorizzato si obbligava a tollerare la pubblicizzazione da parte dello sponsor di aver contribuito all’organizzazione di un evento e, quindi, a fronte dell’erogazione di una liberalità avente ad oggetto una somma di denaro da utilizzare per un determinato scopo, il beneficiario concordava che la circostanza dell’attribuzione patrimoniale venisse resa pubblica.
Con la terza e conclusiva tappa dell’ideale iter ricostruttivo proposto da Franceschelli si approda alla sponsorizzazione vera e propria, vale a dire al contratto a struttura tipicamente bilaterale, carattere oneroso e prestazioni corrispettive. Completato il processo di “metamorfosi”, il negozio che ne risulta non condivide alcun carattere con le figure che ne hanno costituito l’antecedente logico-giuridico, perché l’animus che connota la donazione, quand’anche modale, manca alla sponsorizzazione, che viceversa si esprime nello scambio sinallagmatico e rispetto alla quale le prestazioni assumono carattere di corrispettività.
A segnare, in sintesi, la linea di confine tra la sponsorizzazione e i negozi che in una logica storica la hanno preceduta è il tipo sociale, che lì (nella sponsorizzazione) ruota attorno alla onerosità del contratto e dunque alla sua corrispettività, mentre qui (nella donazione, quand’anche modale) poggia sullo spirito liberale.
3. Il contratto di sponsorizzazione come fattispecie pubblicitaria e di pratica commerciale
Si è premesso che il contratto di sponsorizzazione è finalizzato alla promozione dell’immagine di una parte, rendendone riconoscibile i segni distintivi e associandoli ad una immagine positiva. Si può ora precisare che tale negozio non accede ad uno specifico modello legale, ma rientra nel novero dei contratti atipici, anche se nominati, a prestazioni corrispettive, con finalità pubblicitaria.
È da ascrivere ai contratti nominati perché si tratta di una figura disciplinata non in sé e per sé, ma esclusivamente in relazione a specifici settori. Al contempo rientra tra i contratti atipici perché manca di una disciplina legale, che ne identifichi oltre il contenuto anche la causa e l’oggetto. Le parti, dunque, nell’esercizio della propria autonomia, incontrano l’unico limite di realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico: a tal fine, l’oggetto del contratto deve essere possibile e astrattamente realizzabile, lecito e pertanto non contrario a norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, nonché determinato o almeno determinabile in riferimento alle obbligazioni assunte dalle parti. Trattandosi di un contratto atipico a carattere sinallagmatico, la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, della controparte ai sensi dell’art. 1174 cc.
Quanto al contenuto, in aggiunta all’indicazione delle parti che stipulano l’accordo, il contratto deve prevedere la descrizione del segno che dovrà essere diffuso e comunque pubblicizzato, la definizione non solo degli obblighi di promozione pubblicitaria gravanti sul soggetto sponsorizzato, ma anche dell’ammontare e delle modalità di pagamento del corrispettivo, nonché della durata del contratto e degli eventuali rinnovi. A regolare in maniera più puntuale il rapporto possono evidentemente concorrere altre pattuizioni.
A fronte, dunque, della multiformità del fenomeno e la poliedricità delle forme che assume, la funzione negoziale è unica e viene individuata nell’utilizzazione a fini pubblicitari di un’attività che si pone come veicolo diretto della diffusione di un determinato messaggio pubblicitario. La causa del contratto di sponsorizzazione non è la realizzazione di un ritorno pubblicitario, ha lucidamente notato M. Bianca, ma la realizzazione del ritorno pubblicitario attraverso la veicolazione dichiarata e palese di un’attività di diversa natura, finanziata dallo sponsor.
In ultima analisi, i lineamenti della sponsorizzazione consentono di collocarla nell’ampio genus dei contratti di pubblicità, costituendone una species dotata di rilevanza autonoma.
La comunicazione, infatti, è finalizzata non all’esaltazione della qualità del prodotto o del servizio, bensì alla divulgazione di un segno distintivo o di altre rappresentazioni ritenute qualificanti ai fini di una larga diffusione e commercializzazione del prodotto; da questo punto di vista, la sponsorizzazione identifica una specifica forma di comunicazione, attraverso cui lo sponsor non mira a pubblicizzare i propri prodotti per sollecitarne l’acquisto da parte del pubblico dei consumatori, ma piuttosto a diffondere il proprio marchio, al fine di sottolinearne e ampliarne il prestigio o comunque a magnificarlo.
Senonchè, in quanto fattispecie pubblicitaria, la sponsorizzazione accede ora anche alla nozione di pratica commerciale ai sensi degli artt. 18 e seguenti del Codice del Consumo nella misura in cui è in grado di interferire sulla capacità di auto-determinazione del consumatore.
Il che non è privo di conseguenze. Al contrario, almeno in linea di principio, tale qualificazione espone entrambe le parti ad un onere rafforzato di diligenza nella dialettica con i consumatori. In particolare, l’esposizione si estende allo sponsor e allo sponsee perché quella delle pratiche commerciali è una normativa che si applica ai professionisti, identificati indistintamente come coloro che la realizzano o che comunque traggono un beneficio diretto e qualificato dalla sua ideazione, realizzazione e diffusione; e grava sia lo sponsor che lo sponsee di un onere di diligenza rafforzato perché la disciplina in oggetto pone i professionisti in una posizione di garanzia, e li carica di un dovere di protezione.
Per l’effetto, al fine di allinearsi al paradigma della diligenza, sponsor e sponsee devono attenersi al normale grado di speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si attendono da un professionista nei confronti di un consumatore mediamente avveduto ed informato, tenuto conto dei principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista.
In concreto, dunque, oltre a modulare la rispettiva condotta alla luce dei tradizionali principi della diligenza e della buona fede oggettiva, le parti del contratto dovranno conformarsi ad uno standard di “correttezza”, che salda la nozione di “diligenza” (nei rapporti tra professionista e consumatori) a quella di “correttezza” (che si applica ai rapporti tra concorrenti) disciplinata dalle norme repressive sulla concorrenza sleale. Questo comporta che l’adeguatezza al canone della diligenza andrà commisurata al rispetto delle pratiche di mercato oneste nel settore di attività del professionista e dunque intesa come coerenza ad un modello di costituzione economica in cui il “mercato” è il punto di equilibrio di una serie composita e variegata di interessi: quelli degli imprenditori, quelli dei consumatori, quelli “pubblici” ad un assetto efficiente, e così via.
In sintesi, la corrispondenza al canone della diligenza dipenderà non tanto e solo dal grado di aderenza della pratica commerciale alle regole deontologiche, soggettive interne o alle best practice che governano il settore di attività in cui la pratica insiste. Piuttosto, queste rileveranno se e nella misura in cui riflettono regole oggettive  esterne che in quello specifico settore di attività esprimo i principi fondamentali attinenti al buon funzionamento dei mercati. E ciò perché la normativa sulle pratiche commerciali impone l’adozione di modelli di comportamento desumibili dal quadro regolamentare di riferimento, ove esistente, nonché dall’esperienza propria del settore di attività e dalle finalità di tutela perseguite dal Codice del Consumo, ove concretamente esigibili, in un’ottica di bilanciamento tra la libertà di iniziativa economica di impresa e il diritto  dei consumatori a determinarsi consapevolmente in un mercato concorrenziale.
La diligenza, in conclusione, andrà misurata in termini di rispetto di regole oggettive di comportamento, di ottemperanza ai doveri di informazione, cura e conoscenze specialistiche funzionali ad una scelta del consumatore consapevole ed informata. Sponsor e sponsee rimarranno pertanto imbrigliati nella maglie della disciplina delle pratiche commerciali ove si discostino dal paradigma della diligenza, così interferendo in ultima analisi sulle scelte commerciali dei consumatori.
4. Sponsorizzazione e pratiche commerciali scorrette all’insegna della crescente amministrativizzazione delle relazioni del mercato
Ora, l’inquadramento della sponsorizzazione nell’ambito della disciplina in materia di pratiche commerciali scorrette e ancor più la regolazione della sponsorizzaizone sul fronte televisivo e in materia di comunicazioni, confermano la deriva espansiva del processo di amministrativizzazione dei “rapporti contrattuali di, e sul, mercato”.
È quello un processo, scandagliato da autorevolissima dottrina (si pensi per tutti a Vincenzo Di Cataldo, ma anche a Giuseppe Guizzi), che lungi dall’essersi esaurito, si arricchisce di nuovi fasi. Mi riferisco per un verso allo Statuto delle Imprese che ha esteso le competenze antititrust per abuso di dipendenza economica al caso di generalizzati ritardi nei pagamenti in cui l’abuso sussiste a prescindere dall’accertamento dello stato di dipendenza econmica e dall’altro al Decreto Crescitalia e all’assai discusso art. 62 che, senza nemmeno richiedere in via presuntiva la soglia della dominanza inter partes, vieta le condotte tra operatori economici che esprimano uno squilibrio negoziale.
Ed è un processo che come direbbe Gustavo Ghidini viene da lontano, avendo attraversato, sul fronte della contrattualistica civile, la fase della trasparenza ‘ neutra’, – meglio dire di ‘ pura’ consapevolezza e sostanziale indifferenza regolatoria quanto ai  contenuti negoziali, rimessi alla ‘libera’ stipulazione –, la fase della trasparenza ‘contenutistica’ che identifica i contenuti che devono essere specificamente oggetto di informazione (e qui il riferimento è alle cd trasparenza bancaria e dei prospetti informativi), sfociata nel paradosso dell’eccesso di informazione, per poi approdare alla fase ‘precettistica’ negoziale, che inizia con la normativa comunitaria sulle clausole vessatorie nei contratti stipulati con  in consumatori.
Ed è un processo che dal lato delle imprese registra un avvicinamento sistemico verso la disciplina dei rapporti con i consumatori che muovendo dall’antitrust –con il suo predefinito limite della posizione dominante –  passa all’abuso della dominanza relativa, in cui la dominanza di mercato è un elemento di valutazione della dominanza intersoggettiva fra imprese, poi alla disciplina delle pratiche commerciali scorrette, estesa oggi anche alle microimprese. E si arriva al Decreto Crescitalia che si dirige anche alle imprese (art. 62) in genere (art.62.2) astrattamente anche oltre il settore agroalimentare.
Con queste disposizioni si perviene ad una normazione che prescinde da ogni verifica di asimmetria economica e/o informativa. Si arriva cioè a una precettistica, ad una regolazione di repressione  ‘oggettiva’: che ha come principio e fine il  presidio della  correttezza dei comportamenti di chi opera nel mercato: imprese e consumatori.
Ebbene, alla definizione di siffatto presidio si giunge attraverso un percorso tortuoso. In un recente saggio dedicato alla disciplina comunitaria sulle pratiche commerciali scorrette, ho tentato di ripercorrere la genesi e le evoluzioni della cd politique consumateure e della competition policy, verificando come sia in sede comunitaria che a livello nazionale esse abbiano conosciuto, da separate e parallele che erano, un processo di progressivo ravvicinamento che le proietta oggi  verso la definizione di uno statuto della correttezza professionale come archetipo delle relazioni di  mercato.
E’ in quest’ottica di crescente convergenza che del resto si spiega la Direttiva sulle pratiche commerciali scorrette e la relativa disciplina di recepimento, la quale dunque tutt’altro che casualmente assegna all’Antitrust una specifica competenza in materia.
In siffatta prospettiva, tanto le regole in tema di pratiche commerciali che la nuova disciplina in tema di clausole vessatorie che quella dei rapporti fra imprese ex Statuto delle imprese e Decreto Crescitalia sembrano collocarsi nella medesima scia, promuovendo la confluenza di lineamenti distinti dell’ordinamento – la tutela della concorrenza e del consumatore – e di qui l’integrazione dei corrispondenti complessi di regole in vista del passaggio, in ultima analisi, ad un sistema effettivamente integrato ed unitario.
Anzi, in siffatto rinnovato scenario, è il criterio della correttezza professionale interpretato alla luce dei principi di ispirazione filo-concorrenziale a qualificare il topos normativo—e strumento interpretativo — che collega le distinte discipline della tutela del consumatore, della tutela della concorrenza, e della repressione della concorrenza sleale.
Un caveat ovviamente si impone, vale a dire che la suddetta riconduzione a principi/valori comuni non obbliga affatto a concludere che le regole che governano la concorrenza sleale, la tutela del consumatore e della concorrenza perdano di autonomia. Piuttosto, nel nuovo panorama ciascun nucleo normativo mantiene una sua funzione specifica, perché ad ognuno sono affidati obiettivi distinti (pur se) reciprocamente coerenti. Ed è proprio siffatta reciproca coerenza che autorizza a filtrare ciascuna normativa attraverso una lente interpretativa comune, o meglio “armonizzata”, anche in termini di rapporti di sistema, ossia fra sistemi normativi.
In siffatto scenario, e mi avvio alle conclusioni, la tutela degli interessi dei consumatori vs. imprese sia quella delle imprese vs. altre imprese non si può più esaurire per la rilevanza generale del valore tutelato in un quadro privatistico ovvero in una fiducia acritica nei confronti dell’auto-regolazione.
Per l’effetto, le pratiche commerciali come pure le clausole vessatorie, come pure  i “no” posti dal Decreto Crescitalia alla autonomia contrattuale non rilevano più e solo nell’ambito di una relazione inter partes ma assumono rilevanza giuridica anche e soprattutto per gli effetti “ulteriori” che da essi discendono: effetti che in quanto espressione di altrettanti “diritti civili nel mercato” si riverberano su di esso e su tutti i suoi protagonisti, così venendo oggi valutati e censurati sulla base di uno ius generale, anche pubblicistico, dai contorni e dall’applicazione certa.
Intervento tenuto in occasione del VII Congresso giuridico forense per l’aggiornamento professionale, Roma 14-16 marzo 2013
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