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Usa, giudice ordina a Comcast di consegnare ai detentori di diritti le informazioni sugli avvisi antipirateria inviati ad un utente. Continua il braccio di ferro sulle identità degli abbonati

È un nuovo, rilevante episodio dell’ormai annosi braccio di ferro tra Internet Service Provider americani e detentori di diritti quello che scaturisce dalla sentenza con la quale un giudice dell’Indiana ha ordinato a Comcast di consegnare ai vertici di Malibu Media, una casa di produzione di contenuti a luci rosse, alcuni dati riferiti all’abbonata Kelley Tashiro. Stando a quanto riferisce TorrentFreak, al centro della contesa ci sono gli avvertimenti antipirateria che il provider avrebbe inviato a Tashiro nell’ambito del Copyright Alert System (CAS), il sistema di invio di missive nelle quali si notifica il rilevamento di infrazioni di copyright online. Introdotto nel luglio 2011 dal Center for Copyright Information (CCI), il CAS si compone di sei gradi di avvertimento ed è stato per questo quasi subito rinominato Six Strikes, con riferimento allo sfortunato three strikes francese sperimentato in passato dall’HADOPI; al termine dei sei steps, qualora l’utente fosse ulteriormente colto in fallo, potrebbero scattare delle misure di restrizione di banda o inibizione all’accesso a determinati contenuti. Curioso come proprio Comcast, nell’ottobre scorso, fosse tra gli Isp che sposavano la linea dura della disconnessione dalla rete dei pirati, misura a loro dire giù contemplata nella section 512 del Digital Millennium Copyright Act. Ma nel caso di Tashiro la posizione del provider è invece quella di garanzia nei confronti dei suoi abbonati; qualora davvero le informazioni sugli avvertimenti antipirateria inviati finissero nelle mani degli amministratori di Malibu Media, questi ultimi potrebbero avere un’arma decisiva in un procedimento giudiziario avviato proprio contro Tashiro (uno scontro del tutto simile a quello che nell’aprile 2013 aveva contrapposto a Malibu Media un altro Isp, Verizon). Un sistema nato con l’obiettivo di favorire un graduale abbandono delle pratiche illecite da parte degli “scariconi” finirebbe così per diventare, nei timori espressi dall’Isp, un database ad uso e consumo di soggetti che in passato hanno più volte dimostrato di essere alla costante caccia di ogni informazione utile sugli utenti della rete a stelle e strisce. Un atteggiamento che qualche mese fa aveva portato ad una levata di scudi da parte di Comcast, Verizon, At&t, Time Warner e Cox, protagonisti di un ricorso in appello contro l’ordinanza con la quale lo scorso anno era stato imposto loro di rivelare alla casa di produzione di contenuti pornografici Af Holdings le informazioni relative a 1.058 utenti sospettati di aver illegalmente fruito di un film protetto da copyright. Ma la stessa Comcast già nel giugno 2012 si era rifiutata di consegnare dati alla casa di produzione Perfect 10incassando il verdetto favorevole di un giudice di Chicago, la stessa posizione assunta da Verizon nel novembre precedente nonostante i vari subpoena, gli obblighi di un giudice in tal sensoIn diversi casi tra le obiezioni sollevate dai provider figuravano anche i dubbi sulla reale possibilità che gli stessi indirizzi IP possano corrispondere ad una persona fisica. Già nel maggio 2011 una corte dell’Illinois aveva stabilito che un indirizzo IP non basta ad identificare un colpevole. L’anno successivo a ribadirlo era un giudice di New York; poche settimane dopo un nuovo duro colpo dalla California e poi una nuova conferma in ottobre. La reiterata posizione espressa dagli Isp non ha certo fatto arretrare quelli che nel mondo anglosassone vengono spesso definiti copyright troll; alcuni di loro hanno pensato addirittura di brevettare il meccanismo di invio delle lettere con le richieste di risarcimento agli utenti, come richiesto nel dicembre 2012 allo United States Patent and Trademark Office dall’organizzazione antipirateria Digital Right Corps. Tornando al caso dei gironi nostri, ora non resta che attendere le reazioni di Comcast. Visti i precedenti, è difficile pensare che l’Isp rinunci al ricorso in appello. 2 luglio 2014

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