skip to Main Content

Sulle ragioni dell’equilibrio di genere negli organi delle società quotate e pubbliche

di Umberto Morera [*] Sommario: 1. L’introduzione delle quote di genere nelle società quotate e pubbliche. L’àmbito dell’analisi. – 2. Le ragioni sottese all’introduzione delle quote di genere. Il fuorviante richiamo al principio delle c.d. “pari opportunità”. – 3. Segue: il non pertinente riferimento alle logiche sottostanti l’introduzione delle quote di genere per le assemblee elettive pubbliche. – 4. Segue: il miglioramento della selezione dei membri dei collegi, delle dialettiche interne all’organo societario e delle scelte d’impresa. – 5. Diversità di genere e aumento del livello etico delle scelte imprenditoriali. 1. Come noto, la legge n. 120 del 12 luglio 2011, nel solco di diversi modelli normativi stranieri e comunitari, ha introdotto nel nostro ordinamento alcune disposizioni tendenti ad assicurare un maggior equilibrio tra i generi maschile e femminile nella composizione degli organi delle società quotate e delle società a controllo pubblico [1]. Il valore costituzionale della libera iniziativa economica privata (art. 41 cost.), implicante il diritto di scegliere liberamente le persone cui delegare la gestione ed il controllo dell’impresa può considerarsi alla base della scelta di limitare la disciplina in questione soltanto alle società quotate in mercati regolamentati ed a quelle sottoposte al controllo pubblico; realtà, queste, destinatarie di discipline maggiormente caratterizzate da norme imperative poste a tutela di interessi pubblici. In questa sede, non intendiamo soffermarci sui molteplici problemi tecnico-giuridici che dette disposizioni comportano sul piano della loro concreta applicazione [2]; preferendo limitare la presente analisi soltanto alle ragioni che sono alla base del ridetto equilibrio tra generi. 2. Innanzitutto, vale sgombrare il campo da quello che, a nostro avviso, rappresenta un frequente errore di prospettiva. Nelle argomentazioni a supporto delle quote di genere in àmbito societario viene spesso fatto riferimento, più o meno esplicitamente, al principio delle c.d. “pari opportunità”, interpretato genericamente come principio ispiratore di qualsiasi iniziativa tesa ad eliminare, o perlomeno attenuare, gli ostacoli e le condizioni sfavorevoli (per l’esercizio di un diritto) presenti nella vita privata, sociale e lavorativa delle persone appartenenti ad una categoria, o ad un genere [3]. Detto riferimento non appare pertinente e rischia sopratutto di essere fuorviante. Il principio delle c.d. “pari opportunità” (e l’evoluto concetto che ne è alla base) entra invero in gioco tutte le volte in cui il Regolatore mira: (i) a rimuovere un divieto, un ostacolo, un impedimento oggettivo, al pieno esercizio di un diritto da parte di un soggetto, spesso appartenente ad una “categoria” di soggetti (si pensi, tipicamente, all’introduzione del voto alle donne nel 1945); ovvero (ii) a creare quelle condizioni che permettono a determinati soggetti di svolgere (liberamente, e senza difficoltà maggiori rispetto ad altri soggetti) ruoli, lavori o funzioni nel contesto sociale di riferimento (si pensi, tipicamente, alla normativa sugli asili nido per l’infanzia, che consente alle donne di esercitare con maggiore libertà il diritto al lavoro). La normativa sulle quote di genere in àmbito societario, a ben vedere, non appare finalizzata: (i) né a rimuovere divieti, ostacoli o impedimenti oggettivi all’accesso di persone (uomini o donne che siano) negli organi societari (divieti, ostacoli e impedimenti che, in principio, non sussistono); (ii) né, tantomeno, a creare quelle condizioni (essenzialmente sociali) che potrebbero in concreto consentire alle persone (nell’odierno contesto sociale: alle donne) di scegliere liberamente ed effettivamente se rendersi o meno disponibili a contribuire a gestire o a controllare un’impresa, pur non rinunciando ai loro fondamentali ruoli (nel caso delle donne, tipicamente, familiari e materni). Sicché, almeno a nostro parere, nel discutere della normativa introdotta con la legge n. 120/2011, ogni riferimento al principio delle c.d. “pari opportunità” appare certamente fuorviante, quando non addirittura concettualmente errato [4]. La logica che caratterizza questa normativa e le motivazioni che ne sono alla base sono profondamente diverse; per i motivi che vedremo. 3. Altrettanto poco pertinente è poi la tendenza a sovrapporre le argomentazioni relative alle quote di genere nei collegi pubblici (politici, elettivi) a quelle relative alle quote di genere nei collegi privati (imprenditoriali). Sussiste infatti una profonda differenza tra le ragioni che sono alla base dell’esigenza di un equilibrio tra i generi in àmbito pubblico (nelle assemblee elettive) rispetto a quelle sottese alle quote di genere in àmbito imprenditoriale privato (nei collegi societari). Nelle assemblee elettive pubbliche, politiche, l’esigenza di una proporzione tra i generi poggia sulla logica esigenza di una più equilibrata rappresentanza all’interno del collegio; e ciò non tanto per assicurare il profilo formale dell’equilibrio tra i rappresentanti, quanto piuttosto in funzione della miglior tutela di tutti i rappresentati (cittadini). All’evidenza, una più equilibrata rappresentanza dei generi, nelle assemblee elettive pubbliche garantisce in principio una più equilibrata considerazione e tutela dei problemi del contesto sociale di riferimento, composto notoriamente da entrambi i generi, maschile e femminile [5]. In àmbito societario sussiste invece assai raramente la componente della “rappresentatività” nel senso appena descritto; potendo la stessa essere forse “recuperata” al fine di giustificare le quote di genere soltanto nelle società pubbliche: le quali in effetti – e senza poter qui scendere nell’analisi dei diversi concetti di “servizio pubblico” e di “pubblica funzione” – compiono spesso, e fondamentalmente, attività d’impresa rivolte alla collettività (e si pensi, tipicamente, alle società che gestiscono i trasporti pubblici). In questo particolare tipo di società, la logica sottesa all’introduzione delle quote di genere potrebbe in effetti avere punti in comune con quella che abbiamo visto caratterizzare l’introduzione delle quote nelle assemblee elettive pubbliche. Ed allora, se la logica che è alla base dell’introduzione delle quote di genere per le società quotate (private) non è quella della rappresentatività – né tantomeno, come visto, quella sottostante al principio delle c.d. pari opportunità – occorre necessariamente percorrere altre strade per individuarla. Anticipiamo subito che le ragioni dell’introduzione delle quote di genere nelle società private (ma anche in quelle pubbliche, anche se lì, come appena visto, forse non solo) debbono essere individuate fondamentalmente nell’esigenza di assicurare sia (i) una maggiore obiettività nella selezione dei componenti gli organi sociali; sia (ii) maggiori livelli di efficienza all’interno degli organi stessi. Vediamo perché. 4. Nelle strutture societarie private più complesse da gestire e più rilevanti per l’economia (quelle con azioni quotate e quelle pubbliche) è innegabile che, accanto ai fondamentali profili dell’indipendenza e dell’assenza di conflitti di interesse, stia sempre più assumendo rilievo anche il profilo delle competenze in capo alle persone chiamate a gestire ed a controllare l’impresa. La qualificazione degli esponenti aziendali, sotto il profilo delle specifiche competenze richieste dal ruolo, costituisce tematica ormai ricorrente e centrale sia per le associazioni di categoria che per le autorità di vigilanza; con poi una sempre più marcata e peculiare attenzione al possesso di competenze non tradizionali, e comunque diversificate. Sono invero numerosi i documenti ufficiali delle istituzioni nazionali, internazionali e comunitarie in cui viene sottolineata l’importanza dell’esistenza, all’interno degli organi societari, di competenze specifiche ed in particolare di competenze tra loro diversificate, nonché alternative ed eclettiche rispetto a quelle tradizionali (confinate, come noto, nelle aree amministrative, legali e finanziarie). Su questo presupposto, assumono conseguentemente rilevanza: (i) il momento della selezione, per la nomina, dei soggetti che andranno a comporre l’organo sociale; (ii) il successivo momento del confronto dialettico – all’interno dell’organo stesso – tra i membri nominati. 4.1. Sotto il primo profilo, quello della selezione dei componenti, imporre quote percentuali di genere, se potrebbe addirittura sembrare contrario ai criteri di selezione ottimale, rappresenta invece un fattore “scardinante” di quello che – ancor oggi – costituisce un importante condizionamento dei meccanismi di scelta: l’apprezzamento delle capacità delle persone in relazione al loro genere. Sono noti gli esperimenti di psicologia cognitiva effettuati in occasione delle selezioni degli orchestrali della Boston Symphony Orchestra, operate da commissioni giudicatrici (ovviamente composte sia da uomini che da donne). Esaminati gli aspiranti orchestrali di ambo i sessi, la percentuale degli uomini prescelti, in rapporto a tutte le persone vagliate, era di gran lunga superiore rispetto alla medesima percentuale registrabile tra le donne. Ma quando le medesime prove venivano svolte “al buio” (cioè con la tenda del palcoscenico chiusa) le percentuali si modificavano sensibilmente; risultando costantemente più equilibrate percentualmente nella scelta tra le persone di sesso diverso. L’esperimento è importante, poiché dimostra come la valutazione delle capacità e delle competenze personali sia chiaramente influenzata (anche inconsciamente) dal sesso del soggetto sottoposto a valutazione; con conseguente alterazione del giudizio obiettivo, a tutto svantaggio e discapito del contesto di riferimento in cui il soggetto stesso dovrebbe essere inserito dopo la selezione (nel nostro caso: l’organo societario di destinazione) [6]. Ecco allora che l’introduzione del meccanismo delle quote di genere in àmbito societario consente di contribuire al riequilibrio della distorsione cognitiva appena rappresentata; con conseguente miglioramento di quei livelli oggettivi di competenza e professionalità, che, come appena visto, sono sempre più considerati indispensabili per l’espletamento delle attività gestorie e di controllo all’interno delle più rilevanti realtà imprenditoriali. 4.2. Per quanto concerne il secondo momento rilevante, quello del confronto dialettico tra i componenti gli organi sociali, vale innanzitutto ricordare un basilare fondamento del nostro sistema giuridico: che le decisioni assunte nell’àmbito dei collegi societari sono decisioni assunte attraverso il c.d. principio maggioritario; principio che – alla sua base – vede l’applicazione del c.d. metodo collegiale. Ove poi principio maggioritario e metodo collegiale implicano che la decisione espressa dell’organo (delibera) sia assunta all’esito di un effettivo confronto dialettico delle opinioni dei singoli componenti l’organo stesso (discussione), e che le opinioni prevalenti (quelle espresse dalla maggioranza attraverso il voto) diventino la “volontà dell’organo”, vincolante per tutti i componenti (anche per quelli contrari alla decisione assunta). In virtù di tali fondamenti è pertanto evidente come, in principio, una corretta formazione della volontà dell’organo collegiale non possa prescindere da un effettivo ed approfondito confronto dialettico tra i suoi diversi componenti; non essendo in alcun modo possibile ridurre (o, meglio, “comprimere”) il confronto sulle scelte (di gestione e di controllo) al solo momento del voto. In questa prospettiva, unica peraltro corretta giuridicamente, la migliore dottrina aziendalistica ed economica (nonché, seppur con accenti minori, quella giuridica) ha peraltro da tempo evidenziato l’importanza che i collegi di un’impresa, soprattutto qualora quest’ultima sia di rilevanti dimensioni, siano composti da persone quanto più possibile dotate di professionalità, culture, età ed esperienze tra loro differenti e complementari, di modo che il processo di formazione della volontà collegiale sia il risultato di contributi e confronti quanto più possibile articolati e differenziati. Ben sottolineando la necessità di evitare in ogni modo, al fine di assicurare la corretta ed efficiente funzionalità dell’organo collegiale, che all’interno dello stesso si radichi l’assenza di dialogo e di effettivo confronto dialettico. L’esperienza pratica insegna tuttavia come troppo spesso, nei consigli delle società (specie – e paradossalmente – se composti da numerosi membri), le decisioni vengano in realtà assunte da due o tre persone soltanto, di norma già prima della riunione collegiale e senza alcun confronto dialettico all’interno dell’organo. La personalità del leader (di norma il presidente dell’organo, ovvero l’amministratore delegato, o entrambi) finisce per risultare “assorbente” di ogni tipo di dialettica collegiale; spesso anzi inibendola del tutto. Assai di frequente manca, all’interno dei collegi, addirittura l’“atmosfera” idonea ad incoraggiare lo scambio delle idee ed il confronto tra le differenti opinioni di ciascun componente l’organo. L’assenza delle “voci” e dei contributi di tutti (peraltro non necessariamente dissenzienti rispetto alla prospettiva in discussione …) finisce spesso per deprimere l’efficacia e l’efficienza delle politiche gestionali; con conseguente, e talvolta grave, perdita di valore dell’azienda. Sotto altra angolatura, l’esperienza pratica insegna parimenti come, anche laddove una dialettica effettivamente sussista all’interno del collegio, la stessa evidenzia spesso il difetto di svilupparsi tra persone eccessivamente omogenee dal punto di vista culturale, aventi tutte il medesimo retroterra, la stessa “visione del mondo”, tutte insomma “pensanti” allo stesso modo. Con quindi la conseguenza che il “pensiero collegiale” finisce per scontare il c.d “effetto gregge” (group thinking), senza produrre alcuno stimolo all’innovazione ed al cambiamento delle prospettive imprenditoriali. È quindi evidente come, per controbilanciare tali diffuse situazioni critiche, risulti opportuno inserire all’interno delle dinamiche collegiali, al fine di assicurare un miglioramento della qualità delle decisioni nell’impresa, quei fattori che provochino, o perlomeno favoriscano, un aumento sia delle diversità di esperienze, culture e sensibilità tra i componenti del collegio, sia dell’effettivo confronto dialettico tra i componenti stessi. Ed è proprio sulla base di tale fondamentale esigenza – che potremmo definire di un’ottimale “dialettica diversificata” in seno agli organi societari – che è sorta la previsione normativa di un riequilibrio tra i differenti generi introdotta con la legge n. 120 del 2011 [7]. Ma procediamo con ordine; e vediamo perché una più equilibrata presenza di uomini e donne nei collegi societari dovrebbe aumentare e migliorare il livello della dialettica all’interno dei collegi stessi. 4.2.1. Numerosi studi svolti sui terreni dell’antropologia, della psicologia e della neurologia hanno ormai “certificato” le differenze tra i cervelli maschile e femminile. Sul piano antropologico, l’uomo, nel tempo, ha sviluppato evolutivamente le proprie peculiari caratteristiche (concentrazione tendenzialmente monotematica e difficoltà nel fare più cose contemporaneamente; resistenza fisica e capacità all’immobilismo; senso dell’orientamento; capacità di osservazione speculativa; attitudine al silenzio e scarsa propensione alla comunicazione; scarsa capacità nell’intuire l’umore altrui; propensione al rischio; propensione a suggerire soluzioni, più che a raccogliere consigli; propensione ad accettare logiche di gestione del potere), derivandole fondamentalmente dalle attività svolte e ripetute per millenni: il viaggio, la caccia, la guerra. Mentre le donne hanno, nel tempo, sviluppato evolutivamente caratteristiche molto diverse (capacità di fare più cose contemporaneamente; sensibilità nell’intuire l’umore altrui; scarso senso dell’orientamento; capacità di osservazione multi direzionale; agilità verbale; attitudine alla mediazione nelle situazioni conflittuali; scarsa propensione al rischio; tendenza all’anticonformismo; propensione a raccogliere i consigli e ad innovare; tendenza a non accettare le logiche di gestione del potere), sempre derivando le stesse dalle ben diverse attività da loro ripetute nel corso dei millenni: l’allevamento della prole, la sorveglianza dell’abitazione, lo scambio di esperienze e di dati con le altre donne della comunità. Questa gender diversity, derivante dalle differenti evoluzioni antropologiche, trova del resto conferma anche nell’analisi anatomo-morfologica degli organi sensoriali e celebrali dell’uomo e della donna [8]. E valgano soltanto pochi esempi, tra i tanti possibili:

  • risulta accertato che gli occhi delle donne hanno, nella retina, un numero maggiore di fotorecettori (derivanti dal cromosoma x) rispetto a quello presente negli occhi maschili, il che consente loro una maggior percezione delle diverse tonalità di colore; così come anche è accertato che il loro cervello trattiene un maggior numero di fotoni di luce, permettendo alle donne una visione più ampia e dettagliata (visione periferica; overall vision) rispetto a quella degli uomini (visione unidirezionale; tunnel vision);
  • risulta parimenti accertato che gli uomini possiedono, nella regione uditiva del cervello, un gruppo di cellule capaci di rivelare la provenienza di un suono; gruppo di cellule non riscontrabile invece nel cervello delle donne (assenza che non aiuta certo il loro orientamento);
  • è altresì ormai assodato che il c.d. corpo calloso presente nel cervello al fine di assicurare le comunicazioni tra gli emisferi celebrali destro e sinistro è molto più spesso (e contiene molte più connessioni) nel cervello delle donne; il che comporta che queste sono in grado, assai più degli uomini, di svolgere contemporaneamente più attività tra loro diverse.

  4.2.2. Queste brevi notazioni ben dimostrano come le marcate differenze in punto di “sensibilità”, di percezione dei fenomeni, di reattività fisica, di visione prospettica della realtà, che esistono tra uomini e donne, possano senz’altro costituire fattori funzionali sia all’aumento oggettivo della dialettica nell’àmbito dei collegi societari (più confronto), sia, soprattutto, all’aumento della qualità di tale dialettica (miglior confronto). Come puntualmente osservato, la recente riforma del 2011 «esprime la volontà di “sfruttare” i talenti femminili disponibili e di rendere altresì le donne il veicolo privilegiato per proporre a consessi a prevalente composizione maschile una diversa prospettiva di valutazione e soluzioni delle questioni in agenda per favorire il confronto e la contaminazione tra modelli culturali storicamente incarnati da generi diversi, ma di cui si auspica una virtuosa combinazione destinata ad essere universalmente adottata, indipendentemente dall’appartenenza “biologica” dell’uno o dell’altro genere di chi se ne farà un domani portatore»; ove poi, in questa corretta prospettiva, il riequilibrio tra generi nell’àmbito delle più rilevanti realtà imprenditoriali si conferma finalizzato all’introduzione, all’interno dei processi decisionali tipici dei collegi imprenditoriali, di «valori, stili e modelli alternativi a quelli correnti, destinati a contaminare questi ultimi in funzione di un miglioramento globale dei risultati ottenibili nell’assunzione delle decisioni, nonché come strumento di inclusione in ruoli decisionali strategici di professionalità qualificate che esistono nell’universo femminile» [9] [10]. Secondo alcune analisi [11], le donne dimostrerebbero poi particolare attitudine alle visioni imprenditoriali di lungo periodo, abilità nel gestire le relazioni di lavoro, capacità a comunicare sia con l’esterno che al proprio interno; attenzione agli interessi propri degli stakeholder, propensione a richiedere il parere di consulenti esterni, nonché insofferenza alle decisioni imprenditoriali più stereotipate, conformiste e conservatrici. Quanto allo specifico profilo relativo al rischio d’impresa – e diversamente da quanto accade nelle attività “comuni”, ove il genere femminile dimostra una significativa avversione all’assunzione di rischi – le donne dimostrano capacità nell’assunzione e nella gestione dello stesso, al contempo manifestando una marcata avversione nei confronti del c.d. moral hazard. La stessa Consob ha condiviso le opinioni affermatesi in letteratura, sottolineando come «gli organi di amministrazione eterogenei in termini di genere, età, competenze professionali, nazionalità, siano in grado di meglio adempiere ai propri compiti. In particolare, con riferimento alle diversità di genere (….), gli organi di amministrazione ove le donne sono ben rappresentate sono in grado di svolgere una più efficace attività di monitoring [12] e di advising, e ciò grazie alla diversità di esperienze professionali e punti di vista, competenze e connessioni con l’ambiente esterno, che le donne sono in grado di apportare» [13]. 4.2.3. Sotto il delicato profilo dell’indipendenza, è stato poi giustamente notato come la tradizionale non appartenenza delle donne agli ambienti ed ai “circoli” frequentati soltanto da manager uomini – luoghi nell’àmbito dei quali si strutturano tradizionalmente alleanze e convergenze di interessi capaci poi di “influenzare” le future decisioni imprenditoriali – tende a rafforzare la loro indipendenza (sia formale, che sostanziale) e la consequenziale impermeabilità ai conflitti di interesse [14]. E su di un piano più generale, connesso all’impegno profuso nello svolgimento della funzione (di gestione o controllo che sia) nell’àmbito di un collegio societario, le donne dimostrano peraltro di possedere due ulteriori “vantaggi” rispetto agli uomini. Innanzitutto, dimostrandosi (talvolta per esigenze oggettive connesse alla famiglia) più discontinue nello svolgimento del lavoro e comunque più propense a ritagliarsi spazi di riflessione estranei a questo, le donne sembrano favorite rispetto agli uomini (tendenti a restare permanentemente connessi con gli ambienti di lavoro) nelle situazioni di impegno iper-assorbenti (c.d. extreme-job); situazioni che rischiano in principio di condurre (appunto se non inframmezzate da quei momenti di “vacanza mentale” cui le donne sono propense) ad una diminuzione della creatività e della capacità di innovazione, con conseguente rischio di penalizzanti scelte di routine [15]. In secondo luogo, le donne sembrano risultare maggiormente propense ad assumere il rischio (reputazionale) del possibile insuccesso derivante da un incarico impegnativo; e ciò in quanto la donna tende spesso ad assumere il «tipico atteggiamento dell’outsider, che, per avere accesso ad un sistema da cui è storicamente escluso ed a cui non si vede stabilmente legato, vuole comunque provare a dimostrare le sue capacità, nella consapevolezza che forse non ci sarà una seconda occasione; laddove invece gli uomini, maggiormente interessati alla conservazione del proprio status professionale e ruolo manageriale, metterebbero meno volentieri a repentaglio la propria reputazione assumendo impegni che potrebbero esporli all’eventualità di un insuccesso » [16]. Tutto ciò, peraltro, anche a non voler sopravalutare il maggior livello di istruzione e formazione superiore ormai raggiunto dalle donne rispetto agli uomini; il quale si traduce in un aumento sia dei livelli professionali impiegabili in cariche imprenditoriali di vertice, sia della qualità nell’interlocuzione dialettica in àmbito collegiale [17]. 4.2.4. La presenza di componenti femminili in un consiglio tradizionalmente composto da soli uomini costituisce un positivo “fattore di rottura” anche in diversa prospettiva, invero scarsamente analizzata. Accade sovente che i componenti leader in un consiglio finiscano per “dominare”, anche psicologicamente, gli altri componenti “normali”; imponendo loro decisioni imprenditoriali che, seppur formalmente espressione del collegio, in realtà non risultano assolutamente condivise dalla maggioranza dei membri. Il che avviene soprattutto laddove i leader approfittino della loro (vera o presunta) autorevolezza ed utilizzino atteggiamenti corporali, linguaggi, “toni” e logiche argomentative assolutamente non proponibili in presenza di donne. La presenza femminile nei collegi – ed affermiamo questo anche in virtù di specifiche esperienze personali – può talvolta costituire un virtuoso fattore, idoneo a spezzare quei pericolosi meccanismi di “dominio” cui abbiamo appena fatto cenno e che trovano il loro terreno di più facile espansione proprio in quei collegi caratterizzati dalla presenza di soli componenti di sesso maschile. 5. Esiste infine un ulteriore profilo, sino ad oggi meno studiato rispetto a quelli che abbiamo appena trattato: quello del possibile innalzamento del tasso etico nello svolgimento delle attività gestionali e di controllo, per effetto di un riequilibrio di genere nei collegi di un’impresa. Recenti studi hanno evidenziato come le donne, rispetto agli uomini, possiedano una maggior attitudine a compiere scelte etiche. I risultati raggiunti dimostrano come la diversità di genere nei consigli di amministrazione con significativa presenza femminile al loro interno comporti una maggior attenzione al sociale, all’ambiente, ai lavoratori dell’impresa, nonché alla qualità ed alla veridicità dei risultati (evitando rappresentazioni fittizie al fine di assicurarsi l’apprezzamento dei mercati). Più in generale, sono poi stati rilevati, in capo alle donne, una minore propensione alla corruzione (attiva o passiva che sia) ed una minore disponibilità al comportamento disonesto e trasgressivo delle regole. Su questi dati e su queste prospettive, invero ancora molto da approfondire [18], vale riflettere; in un periodo storico in cui al livello etico delle attività di impresa viene dato, giustamente, significativo rilievo. Ed agganciandosi all’esigenza del recupero dei valori etici, può concludersi, seppur in diversa prospettiva, con le parole del sociologo Domenico De Masi: «oggi abbiamo iniziato una fase di decrescita, con inevitabile ridistribuzione della ricchezza, poiché non possiamo più crescere oltre certi livelli. Ed accadrà che le donne, che hanno sempre gestito la decrescita, accanto all’uomo che ha invece sempre gestito la crescita, saranno più utili alle imprese». Note: [*] Lo scritto è destinato agli Studi in onore di Mario Libertini. [1] L’equilibrio tra i generi riscontrabile nell’àmbito degli organi di società quotate italiane si rivela decisamente più deficitario rispetto a quello riscontrabile in altri Paesi: difatti, a fronte di un rapporto percentuale uomini/donne pari al 93/7 riscontrato in Italia nel 2011, la media europea registrava un rapporto 88/12; ove poi, in altri Paesi, detto rapporto percentuale di equilibrio risultava ancor migliore (USA e Finlandia: 84/16; Svezia: 73/27; Norvegia: 60/40). [2] La normativa in questione comporta invero molteplici problemi tecnico-giuridici. Si pensi, ad esempio, alle questioni connesse: (i) alle peculiarità della nomina dei componenti nei diversi sistemi di amministrazione e controllo; (ii) alla temporaneità delle regole sul riparto tra generi; (iii) al ruolo dell’autonomia statutaria nel recepimento delle nuove regole; (iv) alla cessazione e sostituzione di un membro appartenente al genere meno rappresentato; (v) all’elezione dei componenti con il sistema del voto di lista ed in genere al ruolo delle minoranze nel conseguimento degli equilibri di genere; (vi) alle interferenze della normativa de qua con il requisito dell’indipendenza dell’amministratore; (vii) alla decadenza degli organi ed all’applicazione delle sanzioni in caso di violazione della normativa. Su tali tematiche cfr, esaurientemente, gli scritti di M. Rubino De Ritis, L’introduzione delle c.d. quote rosa negli organi di amministrazione e controllo di società quotate, in Nuove leggi civ. comm. 2012, 309 ss; M. Stella Richter jr, Sulla composizione e sulla elezione dell’organo amministrativo di una società quotata, in Riv. dir. comm. 2012, 71 ss; C. Garilli, Le azioni positive nel diritto societario: le quote di genere nella composizione degli organi delle società per azioni, in Europa e dir. priv. 2012, p. 885 ss; D. Stanzione, In tema di “equilibrio tra generi” negli organi di amministrazione e controllo di società quotate, in Giur. comm. 2012, I, 190 ss; L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, in Osservatorio dir. civ. e comm. 2013, 3 ss. [3] Cfr. ad esempio C. Garilli, Le azioni positive nel diritto societario, cit., 887 ss.; M. Rubino De Ritis, L’introduzione delle c.d. quote rosa negli organi di amministrazione e controllo, cit., 312 s.. [4] In senso sostanzialmente conforme, J. Redenius-Hovermann – D. Weber-Rey, La représentation des femmes dans les conseils d’administration et de surveillance en France et en Allemagne, in Rev. soc. 2011, 203 s.; L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 5. [5] Un esempio per tutti: a Città del Messico, città notoriamente violenta e pericolosa, è stata introdotta dal consiglio comunale (ove vigono le quote di genere) una regola che, in certi orari, riserva alle donne un vagone della metropolitana, con poi la presenza di un poliziotto all’entrata del vagone stesso. È ovvio che una regola del genere ben avrebbe potuto essere pensata e deliberata anche da un’assemblea municipale composta soltanto da uomini, ma è tuttavia evidente che ha molte più possibilità di essere (dapprima) “immaginata” e (poi) di affermarsi in un’assemblea formata anche da menti femminili. [6] Di recente, su queste tematiche cfr l’interessante saggio di E. Reuben – P. Rey-Biel – P. Sapienza – L. Zingales, The emergence of male leadership in competitive environments, in Journal of economic behavior & organization, 2011, 111 ss. [7] Significativi spunti in tal senso in: J. Redenius-Hovermann – D. Weber-Rey, La représentation des femmes dans les conseils d’administration et de surveillance, cit., 204; D. Stanzione, In tema di “equilibrio tra generi” negli organi di amministrazione e controllo, cit., 193 s.; L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 5 s. [8] In tema, interessanti spunti possono trarsi dai recenti lavori sviluppatisi nell’àmbito della neurobiologia statunitense; cfr per tutti, nelle traduzioni in lingua italiana, L. Brizendine, Il cervello delle donne, Milano, 2007; Id., Il cervello dei maschi, Milano, 2010. [9] Così L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 5. [10] Cfr anche L. Pogliana, Le donne, il management, la differenza. Un altro modo di governare le aziende, Milano, 2012; la quale dimostra come il confronto con (e tra) donne all’interno dell’impresa produca nuovi “pensieri” e nuove “pratiche”; laddove poi la prospettiva femminile favorisce spesso atteggiamenti imprenditoriali maggiormente finalizzati all’innovazione. [11] D.A. Matsa – A.R. Miller, A female style in corporate leadership? Evidence from quotas, 2010, in www.ssrn.com ; L. d’Ambrosio Marri – M. Mallen, Effetto D, Milano, 2011; cfr, adesivamente, L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 7 ss. [12] Sull’incremento delle attività di monitoring nei collegi caratterizzati dalla presenza femminile e sulle problematiche connesse al fenomeno, v. L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 10, ove riferimenti. [13] Così la Consob, Documento di consultazione in materia di equilibrio tra generi nella composizione degli organi di amministrazione e controllo di società quotate, 9 dicembre 2011; altre indicazioni e riferimenti in argomento in D. Stanzione, In tema di “equilibrio tra generi” negli organi di amministrazione e controllo, cit., 194, nota 10. [14] Cfr. M. Bianco – A. Ciavarella – R. Signoretti, Women on board in Italy, in Quaderni di finanza Consob, 2011, 7 s.; conf. L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 7 s. [15] Vedi in tal senso M.C. Bombelli, Alice in business land. Diventare leader rimanendo donne, Milano, 2009, 124 s.; conf. L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 7 ss. [16] L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 9, nota 13. [17] In argomento, cfr ancora L. Calvosa – S. Rossi, Gli equilibri di genere negli organi di amministrazione e controllo delle imprese, cit., 7 ss, ove riferimenti. [18] Cfr, di recente, gli interessanti spunti di M. Bianco, Onestà di genere, in Arel. La rivista, 2012, (2), 154. 24 novembre 2014

Back To Top