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La sentenza CEDU sul caso Lambert: la Corte di Strasburgo merita ancora il titolo di The Conscience of Europe?

Di seguito un contributo della Prof.ssa Giovanna Razzano, Ricercatrice di Diritto pubblico presso l’Università “La Sapienza” di Roma, pubblicato il 17 luglio 2015 sul Forum di Quaderni Costituzionali «We regret that the Court has, with this judgment, forfeited the abovementioned title». Con queste severe parole, che non trovano precedenti nella storia della Corte di Strasburgo, i cinque giudici della Grande Chambre che hanno redatto l’opinione dissenziente si sono dissociati dalla decisione della maggioranza. Ma quale fatto e quale decisione hanno determinato una tale lacerazione in seno alla Cedu? Quid facti? Quid iuris? Vincent Lambert è un infermiere francese che, dal 2008, a seguito di un grave incidente, si trova in stato vegetativo, una patologia che, secondo la definizione medico- scientifica – v. per tutte la Multy-Society Task Force 1994, American Congress of Rehabilitation of Medicine – è ritenuta la condizione di disabilità più grave oggi conosciuta. Il paziente è in stato di incoscienza ad occhi aperti, alterna periodi di veglia e cicli sonno/veglia ma non è mai consapevole di sé, né dell’ambiente circostante. La termoregolazione e le funzioni cardiocircolatorie e respiratorie sono conservate e non occorrono terapie strumentali finalizzate al sostegno delle funzioni vitali. Il paziente non è attaccato a nessuna macchina e conserva la funzione gastrointestinale, anche se ha difficoltà a nutrirsi per bocca, per disfunzioni a carico di masticazione e deglutizione. Problematico è il giudizio relativo all’irreversibilità di tale stato, anche perché la ricerca neuro-scientifica fornisce di continuo nuovi risultati in merito al grado di coscienza e di attività cerebrale di questi pazienti. Di fatto il criterio di irreversibilità può dirsi, allo stato, insicuro e non condiviso, al punto che si è abbandonata la dizione di stato vegetativo permanente, sinonimo di irreversibile, in favore del più prudente aggettivo persistente o prolungato. Quel che è certo è che Vincent non è in stato di morte cerebrale, come riconosce la stessa sentenza CEDU (§ 97, 101, 115), che proprio per questo, ossia perché il paziente è vivo, respinge la richiesta dei genitori di far valere in nome e per conto del figlio i diritti garantiti dalla Convenzione (§ 105). Il medico curante di Vincent tuttavia, dr. Kariger, il 10 aprile 2013, basandosi su di una richiesta della moglie, decide di interrompergli l’alimentazione e diminuire l’idratazione, ritenendo di poter qualificare tali cure un’ostinazione irragionevole, ai sensi della legge Leonetti vigente dal 2005. Ma i genitori e due fratelli del paziente impugnano tale decisione dinanzi al Tribunale di Châlons-en-Champagne che l’11 maggio 2013 ingiunge di ristabilire l’alimentazione, ritenendo un attentato grave e manifestamente illegittimo alla libertà fondamentale connessa con il diritto alla vita che i genitori non fossero stati coinvolti nella procedura di interruzione delle cure, tanto più che Vincent non ha lasciato direttive anticipate, né nominato alcuna «personne de confiance». Il dr. Kariger consulta allora altri specialisti e coinvolge tutti i parenti nella procedura, giungendo nuovamente alla decisione per cui le cure di base devono essere interrotte. I genitori e i due fratelli impugnano allora la decisione del medico dinanzi al tribunale amministrativo, che il 16 gennaio 2014 afferma che la decisione del medico costituisce un attentato grave e manifestamente illegale alla vita di Vincent e che il trattamento non è né inutile né sproporzionato. Ma la moglie e lo stesso ospedale di Reims ricorrono al Conseil d’État, il quale decide sia di consultare esperti di livello nazionale, fra cui lo stesso Leonetti, quale amicus curiae, al fine di chiarire se l’alimentazione e l’idratazione rappresentano un’ostinazione irragionevole; sia di negare ai genitori il trasferimento di Vincent in una struttura specializzata nella riabilitazione di tali malati. Il 24 giugno 2014 giunge la sentenza, secondo cui, sulla base dei vari consulti e delle molteplici indagini commissionate ad organismi medici ed etici nazionali, il Conseil d’État dichiara legittima la decisione di porre fine all’alimentazione e all’idratazione dell’uomo. Contro questa decisione i genitori e i fratelli di Lambert presentano allora ricorso alla Corte di Strasburgo, in base agli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione, chiedendo, oltre alla sospensione dell’esecuzione della sentenza, il divieto di trasferimento del paziente in altro ospedale o fuori dai confini nazionali, nel timore che gli venga interrotto nuovamente il sostegno vitale. Nelle osservazioni del 16 ottobre 2014, i ricorrenti evidenziano fra l’altro che Vincent, come molti pazienti nel suo stato, poiché la nutrizione enterale può essere somministrata dagli stessi familiari, esce dalla struttura di ricovero nei fine settimana e va a casa durante le vacanze. Dalla stessa sentenza si evince inoltre (§ 80) che Vincent era stato privato dei trattamenti riabilitativi e della fisioterapia dall’ottobre 2012. Il 4 novembre 2014, la Quinta Sezione della Corte europea decide di rimettere la questione alla Grande Chambre, che si è pronunciata il 5 giugno 2015. Tre sono le affermazioni principali: si esclude che la legge francese, l’interpretazione datane dal Conseil d’État e l’eventuale esecuzione della sentenza resa da quest’ultimo contrastino con l’art. 2 della Convenzione sul diritto alla vita; si nega che vi possa essere violazione della vita privata e familiare dei congiunti ricorrenti, ai sensi dell’art. 8; si ritiene infine infondata la doglianza relativa all’art. 6 § 1, con riguardo alla dubbia imparzialità del giudizio dei medici. Analizzando le motivazioni, si può osservare che, per la gran parte, esse sono rappresentate dalla verifica circa la scrupolosa osservanza dei molteplici passaggi procedurali eseguiti, sia medici, sia giuridici (il termine procedure compare 40 volte). A ben vedere però, alla base di tutto vi è un unico e fondamentale giudizio. Quello per cui l’idratazione e la nutrizione enterale somministrate a Vincent non hanno altro effetto che il prolungamento artificiale della sua vita. Vi è poi un’importante novità rispetto alla giurisprudenza pregressa. In questa sentenza si sostiene infatti l’esistenza di un ampio margine di apprezzamento in capo agli Stati, che non concerne l’introduzione o meno di legislazioni permissive sul fine vita e sull’eutanasia, in un contesto in cui la maggior parte degli Stati aderenti protegge la vita, quanto piuttosto il bilanciamento fra il diritto alla vita dei pazienti, tutelato dall’art. 2, e il loro diritto al rispetto per la vita privata e per l’autonomia, tutelato dall’art. 8 (§ 148). Una tale impostazione non sembra tuttavia coerente con il dato positivo rappresentato dalla stessa Convenzione, che all’art. 15 definisce inderogabile solo l’art. 2, come peraltro gli stessi giudici ricordano poco prima (§ 144). Ad ogni modo merita attenzione l’esito cui tali interpretazioni conducono, ossia la valutazione sfavorevole al sostentamento di una vita, attraverso cure o trattamenti che dir si voglia, ove essa sia artificiale. Ma un tale giudizio, va notato, per quanto reso da medici, non è di carattere medico-scientifico. Non si è dinanzi ad una diagnosi di morte cerebrale anziché di stato vegetativo, ma di una valutazione sulla qualità della vita di chi è in stato vegetativo (nessun miglioramento del paziente, incapacità di comunicare, ecc., cfr. § 38-44), che consiglia l’interruzione. Una conclusione in aperto contrasto con i documenti dell’Assemblea parlamentare dello stesso Consiglio d’Europa, su cui non a caso i giudici, prolissi su altri dati, sorvolano assai rapidamente (§ 70-71). Nella raccomandazione 1418 (1999) si indica infatti che il trattamento di sostegno vitale non deve essere limitato per motivi economici; che, laddove mancano le direttive anticipate, il diritto alla vita del paziente non deve essere violato; che occorre stabilire un catalogo di trattamenti che in nessun caso possono essere sottratti e, soprattutto, che «in caso di dubbio la decisione deve essere sempre per la vita e per il prolungamento della vita». Nella risoluzione 1859 (2012) si legge che l’eutanasia, intesa nel senso dell’uccisione intenzionale, per azione o omissione, di un essere umano dipendente per suo presunto beneficio, deve sempre essere proibita. Rientra dunque in tale definizione l’abbandono terapeutico e l’interruzione del sostentamento di base al paziente incapace, come nel caso di specie. Del resto l’opinione dissenziente si dissocia da quella di maggioranza proprio perché, nonostante le rassicurazioni della sentenza circa la qualifica dell’atto di interruzione come astensione terapeutica e non come eutanasia, si è invece proprio dinanzi ad un caso di eutanasia. La Guida sul fine vita è altrettanto esplicita. Il documento (peraltro richiamato dalla stessa sentenza, § 60-68) afferma con chiarezza che la nutrizione e l’idratazione costituiscono apporti esteriori rispondenti ai bisogni fisiologici, che conviene soddisfare, perché il cibo e l’acqua sono elementi essenziali della cura del paziente che dovrebbero sempre essere assicurati, a meno che il paziente non li rifiuti. Si assiste in definitiva ad una sentenza adottata a maggioranza di dodici giudici contro cinque che contrasta con gli stessi documenti dell’Assemblea parlamentare, peraltro assai espliciti sul tema. Sotto questo profilo, trattandosi di questioni etiche della massima importanza, attinenti al diritto alla vita e alla sua protezione, sembrano giustificate le forti parole dei giudici dissenzienti con cui abbiamo aperto queste brevi notazioni. Ancora, occorrerebbe domandarsi se fosse nelle previsioni di coloro che stipularono la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani, nel 1950, immaginare che, nel 2015, dei genitori sarebbero stati costretti a pubblicare il video del proprio figlio disabile grave per mostrare all’Europa che è vivo e ha bisogno di acqua, nutrimento adeguato e terapie riabilitative.

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