Massimo Proto, Ordinario di Diritto privato, è di ruolo presso l’Università degli Studi Link…
Mercato dei beni e mercato delle idee: oltre il paradosso di Coase?
di Antonio Nicita Nel 1974 Ronald Coase pubblica sull’American Economic Review un saggio dal titolo “Markets for goods and Market for ideas”. Si tratta di un contributo che ha ricevuto minore attenzione, nel dibattito scientifico e tra i policy maker, rispetto a quella dedicata ai noti saggi sulla teoria dell’impresa e sul problema del costo sociale. Nondimeno, i temi affrontati quarant’anni fa da Coase sul ‘mercato delle idee’ paiono oggi di estremo interesse e di grande attualità nell’ecosistema digitale. Secondo Coase, un pervasivo paradosso caratterizza il ruolo di ogni governo e, in generale, delle istituzioni preposte alla realizzazione di politiche pubbliche e di regolamentazione. Questo paradosso riguarda il diverso trattamento (delle politiche pubbliche) del “mercato delle idee” rispetto al mercato dei beni e dei servizi. Per Coase, il mercato delle idee è quel ‘marketplace of ideas’ che, tra i primi, il giudice J. Holmes, quasi un secolo fa, richiamò nel caso Abrams v. United States. Nella sua dissenting opinion, viene infatti elaborata quella che sarebbe poi diventata la dottrina del free marketplace of ideas nell’applicazione del primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Emendamento che, tra le altre cose, tutela “la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea, e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”. Secondo Holmes, “when men have realized that time has upset many fighting faiths, they may come to believe…that the ultimate good desired is better reached by free trade in ideas – that the best test of truth is the power of the thought to get itself accepted in the competition of the market”. Si tratta di una formulazione non distante dall’antica pratica retorica di Gorgia e di coloro che, come ha ben evidenziato Michel Foucault in Discorso e Verità, ricorrano alla paressìa (scoprire la verità attraverso il discorso, il confronto ‘retorico’) nell’idea che il confronto concorrenziale delle idee fa vincere quelle ‘migliori’. Secondo questa dottrina, la concorrenza sul libero mercato delle idee farebbe emergere, dunque, “la verità”. Proprio come la Mano Invisibile Smithiana farebbe emergere, sul libero mercato dei beni, la migliore allocazione possibile. Fin qui niente di nuovo, se non una riaffermazione liberale del primato della libertà individuale, tanto nella sfera dell’espressione (nella relazione libertà-verità) quanto nella sfera della produzione e del consumo (nella relazione libertà-efficienza). Il problema nasce, per Coase, laddove si tratti di definire l’ambito di intervento pubblico che, sotto varie forme, possa rendersi necessario per correggere possibili imperfezioni del libero mercato. La sorpresa (che Coase chiama paradosso) deriva dalla circostanza che, secondo la ‘general view’ – che Coase si appresta a criticare – mentre la regolazione del mercato dei beni è tipicamente valutata come desiderabile, quella del mercato delle idee è invece ritenuta dannosa. Anzi, Coase nota come proprio quei soggetti che, nel mercato dei beni e servizi, reclamano a gran voce l’intervento della regolazione contro il potere di mercato, i cartelli, la pubblicità ingannevole, pratiche scorrette nei confronti dei consumatori siano poi gli stessi che, quando si tratta del mercato delle idee, ritengono invece i ‘consumatori’ capaci di superare ogni limite della razionalità, di smascherare ogni inganno, di prevenire ogni esercizio di potere e gli stessi ‘produttori’ unicamente orientati verso finalità che non contrastano con quelle dei consumatori-utenti. Il paradosso rilevato da Coase è evidente: “l’intervento regolatorio cosi dannoso in un ambito, diventa benefico nell’altro […]. Personalmente – aggiunge Coase – non ritengo che questa distinzione tra mercato dei beni e mercato delle idee sia valida. Non c’è, infatti, alcuna differenza di fondo tra questi due mercati e nel decidere le politiche pubbliche in relazione ad essi, dovremmo partire dalle stesse considerazioni”. Le ragioni che richiedono interventi regolatori per forme di esternalità, di limiti di razionalità o di esercizio di potere riguardano, infatti, i medesimi soggetti. Un broadcaster o un editore di giornali quotidiani non possono esser trattati diversamente, rispetto alle proprie strategie, a seconda che si guardi a quei soggetti, sotto il profilo della concorrenza, come operatori su un dato mercato rilevante oppure, sotto il profilo delle idee, come operatori di informazione. Il che non significa appplicare le stesse regole, ma – suggerisce Coase – lo stesso approccio. Così occorre chiedersi se la concorrenza sia sufficiente a generare buona informazione – tesi passata alla storia come ‘pluralismo esterno’ – o se occorre una forma di regolamentazione che introduca ulteriori tutele senza, per questo, limitare la libertà di informazione. E viceversa, se la riduzione di concorrenza comporti necessariamente un peggioramento della qualità delle informazioni. Sono temi che si ripropongono, oggi, con maggior forza nell’ecosistema digitale, caratterizzate semmai da un eccesso di informazioni che richiedono un elevato attivismo da parte dell’utente. Quello stesso attivismo che però osserviamo sempre meno nei consumatori, intrappolati in una costante inerzia e incapaci di confrontare offerte tariffarie alternative e di calcolare cosa convenga loro. Per non parlare del copyright che, allo stesso tempo, serve a tutelare la libertà di espressione (quando produciamo le idee per il mercato) ma può limitare la circolazione delle idee se il titolare delle ‘idee’ non presta il suo consenso. E così via. Nell’ecosistema digitale il paradosso Coasiano diventa ancor più forte laddove si consideri poi che l’utente che cerca informazioni sulla Rete diventa egli stesso un ‘prodotto’ nel momento in cui il proprio profilo genera esso stesso dati e informazioni durante la navigazione. Quando navighiamo sulla Rete fruiamo dell’altrui libertà di espressione e manifestiamo, a nostra volta, la nostra libertà d’espressione. Ma quella libertà, nel momento in cui diventa informazione profilata, diventa un bene economico proprietario, nell’esclusiva disponibilità del profilatore. Un altro paradosso tra idee e beni. I beni informazione hanno, dunque, sempre questa natura bifronte: sono un bene economico da un lato e il prodotto della libertà di informazione (della domanda e dell’offerta) dall’altro. Riguardano tanto la sfera della concorrenza quanto quella del pluralismo. La conseguenza, non indagata da Coase, è che le due sfere sono interdipendenti non solo perché il consumatore di beni è anche l’utente che ‘consuma’ o ‘produce’ idee, ma anche perché la regolazione su una sfera (mercato dei beni) produce effetti sull’altra (mercato delle idee) e viceversa. Eppure, nonostante siano passati quarant’anni dalla provocazione di Coase, il dibattito politico e regolatorio, di qua e di là dell’Atlantico, continua a vedere contrapposte fazioni, che spesso non si comprendono perché si limitano a guardare allo stesso fenomeno da due dimensioni diverse tenute ben distinte: quella dei beni e quella delle ‘idee’. E’ una dicotomia non più sostenibile, anche perché genera equivoci nell’azione regolatoria. E ha ragione Coase a dire che dobbiamo (ancora) deciderci: se riteniamo l’azione regolatoria incompetente e inopportuna nel mercato delle idee dovremmo rinunciarvi anche per il mercato dei beni; e viceversa, se riteniamo efficiente la regolazione dei beni dovremmo forse essere più fiduciosi di regole che possano estendersi al mercato delle idee. Dobbiamo deciderci, a partire dall’analisi del consumatore-utente. Chiedendoci cosa possa essere meglio dalla sua prospettiva che è quella della trasparenza, della mobilità, della portabilità, dell’accesso, ma anche della tutela proprietaria, del consenso, della libertà di informarsi e di essere informato, ma anche di difendere le informazioni su di sé, siano essi dati, opinioni, opere di intelletto. Una strada complessa, evidentemente, nella quale c’è inevitabilmente molta rule of reason e molto meno ‘codice’. Ma anche meno ideologia, sebbene “la ricerca della verità”, citata nella sentenza del giudice Holmes, stimoli sempre la nostra passione civile. Ma, come scriveva Eraclito, la verità ama nascondersi. E allora, forse, oltre la passione, serve anche la pazienza: la ricerca paziente dei ‘fallimenti di mercato’ nelle concorrenza delle idee e in quella dei beni; la costruzione prudente di forme unitarie di regolazione e, soprattutto, di auto-regolazione (soft regulation) che ci aiutino a risolverli. Il contributo è inserito nell’eBook #questianni: domande digitali in cerca di regole, disponibile gratuitamente a questo link
Internet Bill of Rights: una cornice per la “transazione digitale”?
10 dicembre 2015 Photo Credit: TheGuardian