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L’integrazione europea delle telecoms: le ragioni della Commissione e quelle di AGCOM

di Innocenzo Genna In tempi recenti le relazioni tra Commissione Europea e le varie autorità italiane preposte all’economia digitale hanno dato luogo ad importanti confronti. Tra i casi più noti, è bene ricordare i c.d. casi dell’ultimo miglio: nel 2012 il Commissario Neelie Kroes, responsabile europeo per l’Agenda Digitale, accusava duramente il Parlamento Italiano di voler limitare i poteri discrezionali di AGCOM nel fissare i prezzi di accesso alla rete di Telecom Italia (c.d. ULL), mentre più recentemente la stessa Kroes ha rimproverato ad AGCOM troppa discrezionalità nel fissare i medesimi prezzi, invitandola così ad uniformarsi rigidamente ad una propria raccomandazione (un atto peraltro non vincolante in base ai Trattati Europei). In entrambi casi è stata minacciata una procedura d’infrazione. Le cose non vanno meglio nel commercio elettronico. Recentemente è finita sotto la lente europea la c.d. web-tax, cioè una norma che avrebbe imposto restrizioni (quali l’ottenimento della partita IVA) ai provider di pubblicità online diretta al mercato italiano. La norma è stata sospesa subito dopo l’approvazione, ma la Commissione Europea ha fatto in tempo a dichiarare, seppur in maniera informale, che tale iniziativa appariva in contrasto con la libera circolazione dei servizi. Si tratta di esempi che, per quanto diversificati, rendono l’idea circa la complessità e le tensioni che intercorrono tra poteri europei e nazionali allorquando si tratta di comporre gli interessi nazionali con le regole europee (e gli obiettivi alle stesse preordinati). Si potrebbe immaginare che una certa conflittualità possa essere alimentata da fenomeni di egoismo nazionale, ma la realtà è più complessa. Non è raro che le autorità nazionali abbiano riconosciuto la maggiore efficacia dell’intervento comunitario anche a scapito di interessi nazionali, come nel caso del roaming ad esempio. Tuttavia, vi sono aree di intervento dove l’azione comunitaria fatica obiettivamente a sostituirsi a quella nazionale, per il semplice fatto che solo quest’ultima può cogliere le peculiarità fattuali che sfuggono al layer dell’armonizzazione legislativa. La regolamentazione delle telecomunicazioni è un buon esempio di ciò. Mi riferisco in particolare ai c.d. “remedies”, cioè quei provvedimenti, basati essenzialmente su un’analisi economica e di concorrenza, che l’autorità nazionale adotta nei confronti degli operatori dominanti per consentire ai concorrenti di competere. Si tratta per lo più di normative di accesso, prezzo, contabilità regolatoria, di non discriminazione ecc., fino a quella più drastica della separazione della rete [1]. Le autorità nazionali si muovono in un campo fortemente armonizzato, ma restano competenti ad adottare i remedies specifici alla fattispecie concreta. In caso di contrasto tra Commissione e autorità nazionali interviene il Berec (l’agenzia europea delle comunicazioni elettroniche con sede a Riga) per comporre il dissidio, ma senza coartare l’autonomia di giudizio nell’autorità nazionale, cui spetta l’ultima parola [2]. Alla Commissione resta tuttavia il diritto di veto [3] circa la definizione dei mercati rilevanti e l’individuazione delle posizione dominanti – un’intrusione giustificata, a mio parere, dal fatto che tali definizioni costituiscono un presupposto logico per l’applicazione dei remedies, e vanno quindi a vanno a temperare la discrezionalità nazionale. Si tratta insomma di un complesso sistema di checks & balances (voluto nel 2009 dal Commissario Viviane Reding) che però riflette una logica ben precisa. L’applicazione del singolo remedy deve tenere conto di una serie di variabili che sfuggono completamente all’armonizzazione comunitaria, quali: la politica industriale del governo nazionale; la propensione agli investimenti del settore, anche in funzione del credito; lo sviluppo d’infrastrutture alternative, anche per ragioni storiche; l’informatizzazione e la maturità digitale del mercato; ecc. Si tratta di valutazioni che la Commissione Europea non può fare autonomamente, salvo creare al proprio interno dei country-desk nazionali che andrebbero a sostituirsi agli staff delle autorità nazionali. In mancanza di una tale super-agenzia europea così strutturata (come avrebbe invece voluto la Reding in prima battuta, nel 2007), il sistema resta perciò basato su una chiara ripartizione di competenze: per cui, la Commissione ha vari modi per influenzare l’operato delle autorità nazionali e suggerire maggiore aderenza alle proprie best practices, ma non può imporre ad esse le proprie valutazioni nei casi concreti. Il recente interventismo del Commissario Kroes, nei confronti di AGCOM – ma anche verso altre autorità nazionali in Europa – sembra voler sovvertire tale sistema, seppur in maniera surrettizia. Il commissario olandese ha sostanzialmente tentato di rafforzare il potere della Commissione imponendo alle autorità nazionali le proprie decisioni anche in aree laddove il quadro regolamentare non riconosce alcun veto o potere. La Kroes si è proposta di raggiungere tale obiettivo attraverso il ricorso sistematico alla c.d. Fase II (cioè il procedimento con cui la Commissione ipotizza “gravi dubbi” circa i remedies scelti dalle autorità nazionali) assieme alle frequenti minacce di aprire delle procedure d’infrazione: il tutto supportato da un’insistente copertura mediatica. Di conseguenza, gli atti della Commissione, vale a dire delle raccomandazioni autorevoli ma di per sé non vincolanti, finiscono col divenire di fatto obbligatorie, non tanto dal punto di vista formale, ma sotto quello sostanziale. E’ il contesto che le renderebbe obbligatorie, non tanto la natura intrinseca dell’atto. Bisogna però ricordare che la ripartizione di competenze tra Commissione ed autorità nazionali è chiaramente fissata dal quadro regolamentare del 2009 e non può essere sovvertita da un’interpretazione forzata delle regole esistenti. La stessa Commissione ad un certo punto lo ha riconosciuto, anche alla luce della crescente insofferenza del Berec verso tanto interventismo, ed ha cercato di attribuirsi i poteri mancanti attraverso la proposta legislativa del Connected Continent. L’iniziativa non ha però avuto successo, perché Parlamento e Consiglio non hanno gradito l’idea di modificare il complesso sistema istituzionale del 2009 in pochi mesi. Tanto interventismo ha comunque danneggiato la dialettica tra istituzioni europee e nazionali, perché nella diatriba tra Bruxelles e le varie capitali, apparsa all’esterno come una polemica di campanile, si sono perse le ragioni ed i caveat che dovrebbero guidare l’Unione verso una maggiore integrazione dei mercati delle comunicazioni elettroniche. Si può solo sperare che il prossimo commissario Europeo alla Digital Agenda, che sostituirà la Kroes nel 2015, prenda maggiormente atto dal quadro regolamentare esistente e faccia ripartire le riflessioni sull’integrazione in un contesto più ponderato e condiviso. Note: [1] Articoli 8 e ss. della Direttiva 2002/19/EC. [2] Articolo 7a della Direttiva 2002/21/EC. [3] Articolo 7 della Direttiva 2002/21/EC. LEGGIMedia audiovisivi, la Commissione europea istituisce un Gruppo di regolatoriFoto in home page: Webnews.it 5 febbraio 2014

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