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Libertà d’espressione e pluralismo culturale nella distribuzione di libri on line

di Federico Mastrolilli Nelle ultime settimane sono tornati di attualità numerosi dossier che investono il delicato rapporto tra modelli di distribuzione dei prodotti editoriali nel mondo digitale, libertà d’espressione, pluralismo culturale e diritto d’autore. Il riferimento è, tra gli altri, alla recente decisione statunitense che ha legittimato l’attività di digitalizzazione di estratti di libri protetti da copyright portata avanti in questi anni da Google; alle discussioni, anche accese, che stanno accompagnando l’iter di consultazione e approvazione della nuova proposta di regolamento Agcom in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica; alle iniziative intraprese dagli editori di giornali e riviste a tutela dei propri contenuti nei confronti delle imprese che realizzano le rassegne stampa e degli aggregatori di notizie on line. Appare evidente che Internet ha aumentato a dismisura i canali di distribuzione delle opere dell’ingegno rispetto all’epoca analogica, generando, allo stesso tempo, numerose ambiguità in merito alla gestione di questi canali e del loro traffico, come dimostrano i casi appena menzionati. Tuttavia, non può affermarsi con altrettanta certezza che nello scenario digitale, a fronte delle potenzialità sul piano della distribuzione dei contenuti, si stia garantendo un sufficiente livello di pluralismo dell’offerta culturale. Mi spiego meglio, prendendo come esempio il settore dell’editoria (in concomitanza con l’inaugurazione il prossimo 5 dicembre, al Palazzo dei Congressi di Roma, della XII Fiera nazionale della piccola e media editoria). Il mercato della vendita dei libri digitali appare concentrato nelle mani di un numero molto limitato di imprese, grandi player della distribuzione (come Amazon o Apple) con i quali gli editori e, sempre più frequentemente, anche gli autori in via diretta, devono confrontarsi per portare le proprie opere all’attenzione del pubblico. Mentre, nel mondo fisico, gli editori possono contare su un’eterogenea rete di librerie, tra le quali, purtroppo, si riduce sempre più la percentuale delle cd. librerie indipendenti, nel mondo virtuale essi dipendono dai rapporti commerciali con dei veri e propri colossi imprenditoriali i quali, con le loro scelte aziendali, possono influire in maniera decisiva non solo sul piano del mercato, ma anche su quello della libertà d’espressione. Se, infatti, il rifiuto da parte di una libreria di quartiere, ma anche di una catena di librerie diffusa sull’intero territorio nazionale, di mettere in vendita sui propri scaffali – per qualsiasi ragione – un determinato libro (o, addirittura, l’intero catalogo di un determinato autore), non limita in maniera critica l’accesso del pubblico a tale opera, data l’esistenza di più alternative, lo stesso pur legittimo rifiuto da parte di uno dei distributori leader del mondo digitale rischia di generare conseguenze censorie che vanno oltre il danno economico per l’editore, investendo i delicati e richiamati profili del pluralismo culturale e della libertà d’espressione. La tenuta di questi ultimi profili, in particolare, appare a rischio quando il rifiuto di distribuzione si fonda su ragioni legate al contenuto, in particolare al contenuto sensibile, dell’opera; quando, cioè, l’impresa decide che – per ragioni politiche, culturali, religiose, etc., – non è consigliabile che un’opera avente tale contenuto venga associata all’attività dell’impresa stessa. La regolamentazione del mercato digitale dei libri (a loro volta, sia in formato cartaceo tradizionale che e-book) si trova, pertanto, a dover fare i conti con il seguente paradosso: da un lato, deve garantire che la libertà di espressione e il pluralismo culturale non vengano limitati in maniera arbitraria da parte dei pochi soggetti, spesso imprese multinazionali, che detengono il market power; dall’altro, deve riconoscere agli operatori economici privati la piena libertà d’impresa, che si traduce nel loro diritto di conformare le scelte commerciali all’indirizzo culturale prescelto e alla propria immagine aziendale. Quest’ultimo passaggio significa che alle istituzioni pubbliche è precluso qualsiasi intervento che entri nel merito della gestione delle piattaforme di distribuzione di libri on line, anche se finalizzato a garantire i principi della libertà di espressione e della diversità culturale e linguistica. Tuttavia, ritengo che non sia soddisfacente limitarsi a prendere atto dell’impotenza dei Governi di fronte alle imprese della distribuzione digitale, accettando implicitamente che la garanzia di tali principi sia delegata a questi soggetti privati. Non potendo interferire sull’attività di impresa dei soggetti già operanti sul mercato, occorre individuare modalità attraverso cui incentivare la comparsa di nuovi attori nel mercato della creazione e distribuzione digitale dei libri, possibilmente coinvolti nella difesa del pluralismo culturale e linguistico dell’offerta, al fine di ricreare condizioni di mercato non dissimili dal mondo off line. A tal fine, occorre, anzitutto, una svolta di natura politica. L’attuale stato di cose, infatti, è stato favorito dal fatto che, soprattutto a livello europeo, negli ultimi quindici anni gli obiettivi della digital agenda hanno prevalso su quelli del cultural heritage. Si è, in altre parole, prestata più attenzione allo sviluppo delle reti digitali e del commercio elettronico rispetto alla tutela e al sostegno ai contenuti culturali che vi sarebbero dovuti transitare sopra. Ciò premesso, condizione necessaria di qualsiasi strategia di sviluppo concorrenziale del mercato on line è il superamento del trattamento sfavorevole che i prodotti culturali digitali soffrono rispetto ai beni fisici. La notevolmente più onerosa imposizione fiscale (IVA), le incertezze sullo sfruttamento delle opere orfane, la difficoltà di tracciare gli utilizzi delle opere e i titolari dei diritti, la minaccia della pirateria e in generale la difficoltà di tutela dei contenuti, l’assenza di un’agenda digitale ad hoc per i libri sono solo alcuni dei fattori che, al momento, rendono poco attraente investire nel settore della creazione e della distribuzione di libri on line, nonostante i minori costi di produzione, e che possono spingere chi investe a massimizzare i profitti limitando la propria offerta ai prodotti più sicuri. Coerentemente con queste premesse, l’obiettivo di policy che le istituzioni pubbliche dovrebbero perseguire consiste non tanto nell’assicurare che tutte le opere siano distribuite largamente, poiché questo dipenderà, in massima parte, dal loro appeal per il pubblico e dalle insindacabili valutazioni di ciascun operatore, quanto nel garantire a tutti gli autori ed editori, compresi quelli di opere controverse e provocatorie, le stesse opportunità di accesso sul mercato, evitando possibili casi di censura commerciale. Questo risultato sembra possibile solo superando l’attuale assetto oligopolistico del mercato editoriale on line, agevolando, quindi, la creazione di nuovi competitor che limitino la posizione dominante dei distributori oggi esistenti, in modo da garantire un sistema alternativo, sostenibile e pluralista di distribuzione delle opere; un sistema che abbia, tra le sue priorità, non solo lo scopo lucrativo, ma anche il progresso culturale, la circolazione delle informazioni e, in generale, la realizzazione di interessi pubblici. Tra questi, oltre alla libertà d’espressione, non va dimenticata la conservazione del patrimonio librario nazionale ed europeo presente e futuro, soprattutto quello riferibile a bacini di utenza o linguistici minori, che sono i primi a rischiare l’esclusione dai canali distributivi commerciali. Da questo punto di vista, riacquista importanza il ruolo che le istituzioni pubbliche possono svolgere, integrando il settore della distribuzione privata dei libri all’interno di un più ambizioso progetto pubblico, possibilmente pan-europeo, di preservazione culturale. Foto in home: letture.wordpress.com 29 novembre 2013

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