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Net or not neutrality?

di Monica Senor (via MediaLaws) Lo scorso 14 gennaio la Corte di Appello del District of Columbia Circuit ha depositato le motivazioni di un’importante sentenza, nella causa Verizon vs. FCC, che avrà notevoli implicazioni in tema di net neutrality negli U.S.A. Ovviamente, i primi commenti sono stati catastrofici: come già successo in questo inizio 2014, si è evocata la fine imminente di Internet, così come lo conosciamo. In realtà, come sempre, sarebbe bene, prima di avventurarsi in sensazionalistiche dichiarazioni di morte annunciata, leggere la sentenza e, magari, conoscere un minimo la situazione politico-legislativa che regola la materia negli Stati Unti (sarebbe buona cosa anche fare le dovute distinzioni tra la normativa americana e quella europea/italiana … ma non mi spingo a tanto!). Cosa stabilisce la sentenza. Primo punto fondamentale: la sentenza non riguarda direttamente la net neutrality. La Corte (cfr. pag. 16 della sentenza) esordisce, infatti, con questa dichiarazione di intenti: “Before beginning our analysis, we think it important to emphasize that although the question of net neutrality implicates serious policy questions, which have engaged lawmakers, regulators, businesses, and other members of the public for years, our inquiry here is relatively limited. …our task as a reviewing court is not to assess the wisdom of the Open Internet Order regulations, but rather to determine whether the Commission has demonstrated that the regulations fall within the scope of its statutory grant of authority”. La causa, intentata da Verizon, concerne esclusivamente la legittimità dell’Open Internet Order, emanato dalla FCC nel 2010, che impone ai broadband provider una serie di obblighi di disclosure, anti-blocking e anti-discrimination. La Corte, nella decisione in commento, ha stabilito che:

  1. la FCC aveva l’autorità per emanare l’Order;
  2. la FCC non poteva, tuttavia, regolamentare la materia nel modo in cui lo ha fatto perché a ciò osta la disciplina generale del Communications Act sui broadband providers.

Quanto al primo punto, la Corte ha sancito che il dato normativo su cui si fonda il potere deliberativo della Commissione esiste e va individuato nelle sezioni 706(a) e 706(b) del Telecommunications Act del 1996. La sezione 706(a) prevede un generale potere regolamentare in capo alla FCC al fine di promuovere ed implementare (in particolare nelle scuole elementari e secondarie) sistemi avanzati di telecomunicazione. La sezione 706(b), a sua volta, impone alla Commissione di condurre regolari inchieste in relazione alla disponibilità di nuovi sistemi di telecomunicazione e, qualora necessario, adottare immediate misure per accelerare la loro realizzazione, eliminando gli ostacoli alle infrastrutture ed agli investimenti e promuovendo la concorrenza nel mercato delle telecomunicazioni. Già nel 2010, nel caso Comcast vs. FCC, la Commissione aveva sostenuto che la sezione 706(a) le concedesse l’autorità di regolamentare l’attività dei fornitori di banda larga, ma la Corte non aveva accolto la tesi ritenendo che la FCC non potesse invocare tale disposizione per giustificare l’impugnato Comcast Order in quanto aveva essa stessa dichiarato espressamente nell’Advanced Services Order, che la “section 706(a) does not constitute an independent grant of forbearance authority or of authority to employ other regulating methods”. Nel caso Verizon, tuttavia, secondo la Corte, la situazione è mutata in quanto nell’Open Internet Order la Commissione ha offerto ampia e motivata argomentazione a sostegno di una diversa interpretazione della sezione 706(a), interpretazione che la Corte ha giudicato condivisibile. Riconosciuta dunque in capo alla FCC una legittima potestà regolamentare, la Corte si è soffermata sui motivi per cui detta potestà è stata, nel concreto, mal applicata. Per arrivare a tale assunto la sentenza ripercorre la storia della regolamentazione delle comunicazioni elettroniche negli U.S.A., una storia interessantissima, ma soprattutto indispensabile per capire che la net neutrality non è una sorta di diritto naturale della rete, ma una conquista legislativa, frutto di scelte ideologiche, scientemente volute per dare ad Internet la configurazione che oggi tutti conosciamo. Sin dall’avvento di Internet, scrive la Corte, la Commissione ha affrontato la questione del se e come avrebbe dovuto regolare tale mezzo di comunicazione, il quale, in generale, cade certamente nell’ambito della competenza della FCC che investe “all interstate and foreign communications by wire or radio”. Il primo atto che si è occupato della materia è il Computer II, il quale tracciava una netta linea di demarcazione tra i servizi “di base”, sottoposti alla regolamentazione dei “common carrier services” di cui al Titolo II del Communications Act del 1934 e gli “enhanced services” che, invece, non vi rientravano. La distinzione tra basic ed enhanced services veniva individuata nel grado di coinvolgimento del provider nel servizio: basic se l’intervento era limitato alla mera trasmissione, enhanced se comportava “computer processing applications . . . used to act on the content, code, protocol, and other aspects of the subscriber’s information”. Qualificati come common carriers, i provider di basic services erano dunque assoggettati agli obblighi previsti dal Communications Act, tra cui il divieto di discriminazioni ingiuste o irragionevoli nelle spese, nelle pratiche, nelle classificazioni, nelle regole, nelle strutture e nei servizi. Per oltre vent’anni la Commissione ha applicato le regole dei common carriers ai fornitori di servizi Internet offerti sulle linee telefoniche fisse (non, invece, sulle reti mobili in quanto i relativi fornitori di accesso sono stati qualificati come private carriers). Non solo. Alle compagnie telefoniche è stato imposto di applicare le stesse condizioni anti-discriminatorie degli utenti privati finali anche agli ISP terze parti. Nel 1996 il Congresso approvava il Telecommunications Act, il quale, ricalcando la precedente distinzione tra basic ed enhanced services, definiva due categorie di operatori: i telecommunications carriers, fornitori dell’equivalente dei servizi di base e gli information service providers, fornitori dell’equivalente dei servizi avanzati. Ai sensi della nuova legge, analogamente a quanto stabilito sotto la vigenza del Computer II per i servizi internet, la FCC classificava i servizi DSL a banda larga, forniti su linee telefoniche, come telecommunications services. Quattro anni dopo, tuttavia, la Commissione adottava un regime diverso per regolamentare i servizi a banda larga forniti da operatori via cavo, qualificandoli come “single, integrated information service”, come tali esentati dalle regole imposte ai telecommunication carriers. Pur esentando i fornitori di banda larga dagli obblighi dei common carriers, la Commissione ha però continuato a disciplinarne l’attività, in particolare con il Cable Broadband Order. Nel 2008, a seguito della segnalazione di diversi abbonati al servizio di banda larga via cavo di Comcast in merito ad una limitazione del servizio per alcune applicazioni peer- to-peer, la FCC emanava il Comcast Order in cui, rilevando una violazione delle policy federali, ordinava a Comcast di modificare le sue procedure di fornitura del servizio a banda larga. Come già detto sopra, nel 2010, la Corte di Appello del D.C. Circuit annullava il Comcast Order in quanto la FCC non riusciva a dimostrare la fonte del suo potere regolamentare. Come sottolineato da più parti, sin anche dalla stessa Corte di Appello, l’unica cosa che la Commissione avrebbe dovuto fare nel 2010 per porre fine alla diatriba era riclassificare i servizi internet a banda larga come telecommunication services. La decisione sembrava agevole soprattutto in considerazione del fatto che l’allora presidente della FCC era Julius Genachowski, un democratico vicino a Barak Obama, il quale si era esplicitamente dichiarato a favore della riclassificazione. L’FCC, anziché assumere un provvedimento generale sulla materia, emanava invece l’Open Internet Order, imponendo ai broadband providers una serie di obblighi di disclosure, anti-blocking, e anti-discrimination propri dei common carriers. L’Order veniva immediatamente impugnato da Verizon ed è oggi stato annullato dalla Corte del D.C. Circuit con una motivazione tanto semplice quanto ineludibile: la Commissione, sebbene dotata di potere regolamentare, non poteva esercitare tale potere imponendo ai fornitori di servizi a banda larga il regime dei common carriers in quanto i loro servizi non sono qualificati dalla legge come telecommunication services. L’imposizione ai broadband provider di obblighi anti-blocco e anti-discriminazione propri dei common carriers è dunque illegittima in quanto viola il Communications Act. Conclusioni L’analisi della sentenza consente di fare alcune considerazioni sulla reale portata del concetto di net neutrality. Innanzitutto, pare evidente che, sebbene la sentenza non si occupi espressamente dell’argomento, le sue ripercussioni sull’open access in relazione alle reti via cavo americane saranno importanti. La decisione ha messo la FCC con le spalle al muro, ponendo definitivamente fine alla prassi della Commissione di regolamentare in modo frammentario la materia. Un eventuale altro Order verrebbe immediatamente impugnato e sicuramente annullato dalla Corte, come già è successo ben due volte negli ultimi quattro anni. Dopo la rete mobile, dunque, negli U.S.A. anche la rete via cavo è stata privata delle garanzie di anti-blocco ed anti-discriminazione dei pacchetti Internet, il tutto per esclusiva responsabilità della FCC che non ha saputo tutelare pienamente la net neutrality. In questi termini, se è comprensibile la paura di chi teme che Internet nel prossimo futuro possa assumere una configurazione diversa rispetto a ciò che è stato sino ad oggi, è altresì vero che per rimediare la situazione sarebbe sufficiente una chiara volontà politico-legislativa a favore della net neutrality. Il nocciolo è: questa volontà esiste? Foto in home page: Wikimedia.org 28 gennaio 2014

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