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Studi genetici e banche biologiche, report e materiali del seminario ospitato dall’Istituto Superiore di Sanità

ISS 27 Ottobre 1

Ha avuto luogo nel pomeriggio del 27 ottobre, presso l’Istituto Superiore di Sanità, il seminario “Studi genetici e banche biologiche“, penultimo appuntamento del ciclo “Aspetti etici, regolatori e metodologici per la presentazione degli studi clinici ai Comitati Etici“ .

Con la moderazione del Prof. Francesco Brancati (Aggregato di Genetica Medica Dipartimento di Scienze Mediche, Orali e Biotecnologiche nell’Università G. d’Annunzio di Chieti-Pescara) la prima parte dei lavori è stata aperta dal Prof. Antonio Pizzuti, Ordinario di Genetica Medica presso la Sapienza -Università di Roma: “Test genetico non vuol dire test sul Dna – ha esordito – ma è un test che consiste nell’analisi di un gene, del suo prodotto o della sua funzione, e serve per dimostrare se una persona è portatore di una malattia genetica o può avere figli con malattie genetiche. In realtà non esiste una patologia che non abbia una origine genetica, quello che cambia è l’importanza della componente genetica nelle specifiche condizioni patologiche”.

A seguire, l’intervento su farmacogenetica e farmacogenomica del Prof. Massimo Gennarelli, Associato di Genetica Medica nell’Università di Brescia e Coordinatore del gruppo di lavoro di Farmacogenomica della Società Italiana Genetica Umana.

ISS 27 ottobre 1Anche il Prof. Alberto Gambino, Componente del Comitato Etico dell’ISS, Ordinario di Diritto Privato e Direttore del Dipartimento Scienze Umane nell’Università Europea di Roma, ha posto la sua attenzione su uno degli aspetti salienti in materia di test genetici: “Il consenso informato in campo sanitario viene vissuto come una fase nella quale, davanti alla una necessità di un intervento, si richiede una garanzia che questo intervento sia svolto con la deliberata volontà del paziente. Le vicende che sono state illustrate da chi mi ha preceduto sono caratterizzate da un surplus di informazioni che, forse uso un’espressione un po’ forte, inducono a sentirsi paziente. Dunque, la normativa sul consenso informato, che invece nasce nella fase patologica e quindi nella necessità, potrebbe essere oggetto di una riflessione più ampia; occorre cioè capire che questa filiera del consenso e dell’induzione a decidere o meno se sottoporsi ad alcuni screening non è legata a qualcosa che occorre necessariamente affrontare, ma a qualcosa di eventuale e facoltativo; sono stati interessanti i riferimenti alla necessità di una pienezza di comunicazione, trasparenza e informazione generale, perché quel momento del consenso è spesso anche condizionato da una informazione generale, talvolta anche mediatica, che però non passa attraverso il consenso informato. È questa una riflessione che bisognerebbe fare sia in chiave giuridica che da parte degli studiosi di bioetica”.

Nella seconda parte, moderata dal Prof. Carlo Petrini, Vicepresidente del Comitato Etico e Responsabile Unità di Bioetica dell’ISS, la Prof.ssa Monica Toraldo di Francia, Docente di bioetica presso il Breyer Center for Overseas Studies in Florence della Stanford University, ha concentrato la sua attenzione sul documento in materia di Biobanche pediatriche del Comitato nazionale per la bioetica, lavoro focalizzato sull’utilizzo di campioni biologici che provengono da minori e quindi da persone che non possono dare direttamente il loro consenso a questo utilizzo per ricerche di carattere conoscitivo che però possono talvolta portare a dei risultati di interesse per la salute dei soggetti stessi. “Secondo me restano alcuni problemi aperti. In primis, si pongono delle clausole nell’utilizzo dei campioni della ricerca molto restrittive che forse non sempre è possibile rispettare. In secondo luogo, i cosiddetti risultati incidentali, che non sono stati ricercati volontariamente ma che oggi sono sempre più rilevanti per via della possibilità di processare, con le nuove tecnologie di sequenziamento, grandi quantità di materiale e di conoscere una vasta serie di informazioni. C’è una discussione su quali di essi possono o devono essere comunicati”.

“Problematico – ha proseguito – è che il consenso alle future ricerche deve essere dato dai genitori o dal rappresentante legale nel momento stesso in cui si autorizza ad archiviare il campione biologico. Premetto che uno dei problemi ancora aperti e sul quale il Comitato nazionale si è espresso è quello sulla proprietà del campione biologico una volta che è stato donato; a nostra posizione è che il campione biologico continui ad appartenere alla persona che l’ha donato perché ne veicola l’identità genetica e quindi non può essere acquisito in forma definitiva dalla biobanca o dai ricercatori che poi lo utilizzeranno. Si parla di concessioni di utilizzo per ricerche. Quello che viene richiesto nel nostro documento è non soltanto che il campione archiviato abbia ricevuto l’autorizzazione da parte dei genitori o del rappresentante legale del minore, che è già importante, ma anche che il controllo su questo campione comunque venga utilizzato per ricerche future debba rimanere nelle mani di chi ha donato, cioè che sia sempre possibile richiederne la distruzione e insieme la distruzione dei dati che vengono ricavate dalle analisi sul campione e, altra cosa che oggi sta diventando sempre più difficile e su cui c’è un’accesa discussione, è la previsione dell’obbligo dei ricercatori e il diritto dovere dei genitori di essere informati sui risultati delle ricerche. Questo significa che andrà ricontattato il donatore o per esso i genitori e a ogni nuova acquisizione e gli dovranno essere spiegati i risultati delle ricerche portate avanti su questi campioni. Questo è un aggravio per le possibilità di avanzamento della ricerca molto forti che oggi è messo in discussione da varie parti, però trattandosi di una popolazione vulnerabile come lo sono i minori è prevista una tutela particolare dei diritti e delle future libertà del minore e della sua privacy in tutti i documenti nazionali e sovranazionali. Sempre in questo documento si nega la possibilità che il campione biologico del minore venga irreversibilmente anonimizzato e quindi utilizzato per tutti i tipi di ricerca perché l’anonimato farebbe decadere i limiti per la la privacy. Si pensa ad una versione  di parziale anonimizzaizone, chiamato anonimato controllato, cioè l’archiviazione con un codice e la custodia della chiave del codice nelle mani del curatore della biobanca e dei ricercatori che ne fanno uso, così che in caso di necessità per la ricerca si possa accedere ai dati anagrafici e biografici della persona proprietaria del campione”.

“Oggi la ricerca un campione biologico ha valore se è associata ad una serie di dati di questo tipo che riguardano il donatori, come età, sesso, etnia, condizione clinica, e via discorrendo. Quindi con questa condizione di anonimizzazione parziale si possono prevedere vari tipi di autorizzazione all’utilizzo del campioni biologico. La prima è quella del consenso ristretto: il campione può essere utilizzato solo per un tipo di ricerca ben delineata e determinata a cui il tutore o genitore ha dato il consenso. Poi c’è il consenso parzialmente ristretto: si possono condurre ricerche future solo se connesse alla ricerca originaria. Poi c’è il terzo tipo, il consenso multifunzione: può esser dato consenso anche per ricerche future di tipo diverso a patto che i genitori o il rappresentante legale vengano ricontattati e diano il oro consenso. Viene invece negata la possibilità, richiesta invece da molti ricercatori, del consenso ampio: stabilire cioè un rapporto fiduciario con la biobanca per condurre ricerche future anche senza avere un successivo consenso informato. Queste sono delle esigenze non facili da rispettare, perché non sempre è possibile contattare nuovamente le persone via via che nuove analisi vengono effettuate, ma questa è una delle clausole che viene prospettata. L’altra possibilità è che il minore, appena acquisita la capacità di comprendere, non solo in senso legale ma in senso psicologico, deve essere contattato dai responsabili della biobanca per dare un nuovo consenso all’utilizzo del suo campione o decidere per la sua distruzione e revoca del consenso. Tutte clausole sacrosante in astratto, ma più difficili rispettare nella pratica, il che può condurre a un a serie di sotterfugi. Altro punto che può presentare dei problemi è il caso in cui il minore entra in contrasto con la volontà dei genitori di sottoporlo ad un prelievo per una ricerca: prevale la volontà del minore? A me sembrerebbe giusto così, ma anche in questo caso c’è una discussione aperta”.

“Personalmente – ha spiegato la Prof.ssa Toraldo di Francia – ho scritto una sola postilla, perché il documento in generale è un buon documento e credo sia stato utile tra l’altro rimarcare quanto sarebbe utile un registro nazionale delle banche di campioni biologici esistenti in Italia, cosa che richiediamo da anni e che sembra quasi sia impossibile ottenere, in particolare per quanto riguarda le biobanche pediatriche. Il punto su cui non mi sono trovata d’accordo riguarda le restrizioni poste alla possibilità di scegliere di non conoscere alcuni risultati delle ricerche che saranno portate avanti, compresi gli incidental findings di potenziale rilevanza per la salute che possono essere scoperti. Si dice che ciò che conta e deve sempre prevalere è l’interesse diretto del minore; in realtà fra le righe compare un altro interesse che non è più del minore ma dei familiari, e cioè quello di ricevere informazioni utili per eventuali future scelte procreative, interesse che va di sicuro tutelato ma che è cosa diversa dall’interesse del minore. Il diritto-dovere dei genitori a ricevere informazioni copre anche le situazioni in cui questi risultati della ricerca possono predire l’insorgenza di una malattia genetica che non sia nella prima infanzia ma anni dopo, per la quale tuttavia non avrebbe nessun senso la conoscenza precoce perché non può essere né evitabile né trattabile nei tempi precedenti alla sua manifestazione. Un altro problema è quello ancora più complesso delle malattie genetiche ad insorgenza tardiva e delle malattie genetiche non curabili. Anche in questo caso si dice che i genitori hanno il dovere di conoscere queste informazioni. Io ho provato ad argomentare, su un tema nel quale ci sono diversità di visioni rispetto a ciò che è eticamente giustificabile, la non necessità per i genitori, e quindi l’idea di togliere l’obbligo, quando non è in gioco l’interesse diretto del minore, cioè quando non si tratta di malattie per le quali la conoscenza precoce ha una reale utilità clinica, cioè malattie prevenibili e trattabili se prese subito, mentre per le malattie genetiche che si manifesteranno solo in età adolescenziale ho più dubbi, perché secondo me questa conoscenza può avere dei riflessi negativi su rapporto genitore figli: l’ansia del genitore può in qualche modo influenzare il legame con il figlio. Inoltre, credo che ci sia da parte delle case farmaceutiche un interesse ad una medicalizzazione precoce. Inoltre, mettere a conoscenza il minore apre al rischio che ne risultino condizionate in modo negativo le sue scelte e magari senza ricadute positive sulla sua condizione di salute”.

“Per questi motivi – ha affermato – io ritengo che sia più opportuno mettere il pediatra a conoscenza di questi risultati piuttosto che obbligare i genitori a conoscerli, o comunque lasciare la scelta. Una delle giustificazioni che viene data è che questa informazione può avere un’importanza fondamentale per le scelte riproduttive dei genitori, ma in questo caso si tratterebbe di bilanciare questi vantaggi con le ricadute negative che questo tipo di conoscenza può avere sul minore e sul suo rapporto con i genitori”.

“L’altro problema che oggi si pone è su come fondare dal punto di vista etico e poi anche giuridico il cosiddetto diritto di non conoscere, un diritto che è relativamente recente, dato che appare nei documenti sopranazionali e internazionali solo nel 1997 con la Convenzione di Oviedo e la Dichiarazione Unesco). Io credo che ai progressi degli ultimi anni della diagnostica genetica non hanno corrisposto progressi altrettanto veloci della terapia, il che ha riportato in primo piano il problema della portata e dei limiti del diritto di non conoscere“.

La Dott.ssa Virgilia Toccaceli del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’ISS ha così concluso i lavori con una relazione sulle norme che tutelano la privacy in questo ambito: “Senza multidisciplinarità, data la complessità della materia, non si va da nessuna parte. L’Italia non dispone di una legge sul funzionamento e l’uso delle banche biologiche per la ricerca; si può discutere se questo sia un bene o un male, ma di sicuro c’è che questo ha un impatto su molti aspetti”.

L’ultimo appuntamento della serie di seminari, “Il regolamento (EU) 536/2014“, è previsto il prossimo 17 novembre.

2 novembre 2015

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