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Il primo transparency report di Apple: “Mai ricevuto ordini di consegna dei dati ai sensi del Fisa”

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Arriva da Cupertino il documento con il dettaglio delle richieste da parte dei governi in merito alla consegna di dati degli utenti: “Combatteremmo se dovessero arrivare ordini del genere”. Ma c’è chi mette in dubbio questa versione Sarà la voglia di allontanare lo spettro del Datagate, ma anche Apple è entrata nel novero dei giganti delle nuove tecnologie impegnati nella diffusione dei “transparency report”, documenti con il dettaglio delle richieste ricevute dai governi per la cessione di dati e informazioni relative agli utenti dei propri servizi. “Crediamo che i nostri clienti abbiano il diritto di capire come siano trattate le loro informazioni personali, e ci sentiamo in dovere di fornire loro la maggiore protezione e riservatezza possibili. Noi non abbiamo interesse ad accumulare informazioni personali sui nostri utenti”. Sono queste le posizioni che aprono il primo report di Cupertino, che presenta il numero di richieste ricevute in merito a dispositivi ed account nella prima metà dell’anno in corso. A farla da padrone è il governo di Washington, che ha presentato tra le mille e le duemila richieste riguardanti tra i duemila e i tremila account; la stragrande maggioranza delle richieste riguarda tuttavia le forze dell’ordine impegnate nel rintracciare tablet e smartphone rubati. Poi la frase che fa sbarrare gli occhi: “Apple non ha mai ricevuto ordini ai sensi della Section 215 del Patrioct Act. Combatteremmo se dovessero arrivarci ordini del genere”. In pratica, l’azienda afferma di aver dovuto fare i conti con gli ampi poteri del Fisa. Tuttavia, fa notare Heather Kelly della CNN, qualora Apple avesse davvero ricevuto ordini di tale genere sarebbero stati molto probabilmente accompagnati da un contestuale ordine di segretezza, il che ovviamente pone dubbi sulla reale veridicità della roboante affermazione dell’azienda. Punto di vista che sembra rafforzato se si guardano i motivi del’ampio range con il quale vengono indicati i dati riferiti al governo di Washington, una dinamica dovuta al fatto che, come recita il report stesso, “il governo degli Stati Uniti ci ha dato il permesso di condividere solo una quantità limitata di informazioni su questi ordini, con la condizione che uniamo gli ordini di sicurezza nazionale con le richieste basate sugli account e riportiamo solo una gamma consolidata in incrementi di 1000”. E ancora, l’azienda afferma: “Al momento della presente relazione, il governo degli Stati Uniti non permette ad Apple di rivelare, se non in ampi intervalli, il numero di ordini di sicurezza nazionale, il numero di account coinvolti dagli ordini o quali contenuti siano stati resi noti. Ci opponiamo con forza a questo ordine di bavaglio, come Apple ha esposto in incontri e dibattiti con la Casa Bianca, il procuratore generale, i leader del Congresso, e le corti. Nonostante i nostri grandi sforzi in questo settore, noi non abbiamo ancora un accordo che dal nostro punto di vista affronti adeguatamente il diritto dei nostri clienti a sapere quante volte e in quali circostanze forniamo dati alle forze dell’ordine”. Come accennato, Apple è l’ultima di una serie di big a rilasciare documenti di questo tipo; il primo Google Transparency Report  risale al’ottobre 2011 ed è stato aggiornato diverse volte; nel gennaio 2013 ad esempio si apprendeva di come le richieste fossero cresciute del 70% rispetto al primo report. Nelle stesse ore, arrivava il primo report di Twitter. Nel marzo 2013 Google era pronto a pubblicare  anche i numeri relativi alle richieste dell’Fbi. Quasi contemporaneamente, anche Microsoft presentava il suo report. In aprile, Google si scagliava contro le “National security letter” , proprio le missive con le quali l’Fbi chiede l’accesso ai dati degli utenti senza aver bisogno di un mandato giudiziario. Una battaglia che, nel maggio 2013, il colosso di Mountain View perdeva in tribunale. Nell’agosto 2013 anche Facebook esordiva con il suo report. table noteapple           UPDATE:

 

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