Elisabetta Giovanna Rosafio è professore ordinario di Diritto della navigazione e Diritto aerospaziale presso la…
La Digital Tax italiana: alcune brevi riflessioni
di Alessio Persiani
Il Governo ha recentemente annunciato di voler introdurre nel nostro ordinamento una digital tax, vale a dire un tributo specificamente indirizzato a colpire la ricchezza prodotta di quelle imprese operanti nel settore dell’economia digitale non residenti in Italia e che, tuttavia, esercitano un’attività economica nel mercato italiano mediante strumenti telematici.
Si tratta di una proposta che si inserisce in un più ampio dibattito attualmente in corso a livello internazionale. Il riferimento è, in particolare, alle analisi ed agli studi che l’OCSE sta conducendo, laddove il tema della tassazione delle imprese dell’economia digitale costituisce uno dei punti qualificanti del più generale progetto di contrasto ai fenomeni di erosione della base imponibile a livello internazionale e di spostamento del reddito in giurisdizioni con regimi fiscali più favorevoli [1]. A quanto si apprende dalla stampa specializzata, il Governo, dopo aver inizialmente espresso l’intenzione di attendere i risultati delle analisi promosse a livello internazionale dall’OCSE, sembra ora voler procedere in via autonoma, introducendo nel nostro ordinamento misure tributarie ad hoc per le imprese dell’economia digitale.
A quanto risulta, la disciplina della digital tax italiana – da inserirsi nel disegno di legge di stabilità 2016 in corso di predisposizione, con decorrenza applicativa a partire dall’anno 2017 – dovrebbe ispirarsi largamente ai contenuti della proposta di legge recentemente presentata presso la Camera dei Deputati dagli On.li Quintarelli e Sottanelli e recante “Norme in materia di contrasto all’elusione fiscale online”.
Tale proposta si fonda sulla modifica della nozione di stabile organizzazione prevista dall’art. 162 del Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR) [2]; stabile organizzazione costituente – ricordiamo – la forma minima di collegamento con il territorio dello Stato tale da giustificare l’assoggettamento ad imposizione dei redditi prodotti in Italia da soggetti non residenti. Ebbene, in base alla proposta Quintarelli-Sottanelli, una stabile organizzazione in Italia dovrebbe considerarsi in ogni caso sussistente (a prescindere, quindi, dall’integrazione dei requisiti propri della stabile organizzazione intesa in senso “tradizionale”) “qualora si realizzi una presenza continuativa di attività online riconducibili all’impresa non residente, per un periodo non inferiore a sei mesi, tale da generare nel medesimo periodo flussi di pagamenti a suo favore […] in misura complessivamente non inferiore a cinque milioni di Euro”.
Inoltre, ed al fine di indurre il soggetto non residente a dichiarare sua sponte l’esistenza di una stabile organizzazione italiana, la proposta di legge in questione prevede l’applicazione di una ritenuta alla fonte del 25 per cento sui pagamenti a favore dell’impresa estera per beni e servizi acquisiti online, incaricando gli intermediari finanziari italiani di effettuare tale adempimento. Tale ritenuta – e qui traspare chiaramente l’intenzione di indurre i soggetti esteri a dichiarare l’esistenza della stabile organizzazione – non troverebbe applicazione in tutti i casi in questi abbiano in Italia una stabile organizzazione ai sensi dell’art. 162 TUIR.
Non è questa la sede per analizzare a fondo i contenuti di tale proposta di legge, tenuto conto che essi potrebbero subire modifiche, anche rilevanti, in sede di recepimento nell’ambito della disciplina della digital tax. In ogni caso, non si possono non evidenziare taluni dubbi che la proposta Quintarelli-Sottanelli solleva; dubbi derivanti, in particolare, dal rapporto tra norme interne e norme di fonte internazionale contenute nelle convenzioni per la prevenzione delle doppie imposizioni stipulate dall’Italia con i diversi Paesi della comunità internazionale. Vale ricordare, infatti, che sulla scorta di un orientamento dottrinario e giurisprudenziale ormai consolidato, le norme recate dai trattati internazionali prevalgono su quelle interne con esse contrastanti in forza del principio di specialità. Ora, tenuto conto che la nozione di stabile organizzazione è contenuta – oltre che nel menzionato art. 162 TUIR – in tutte le convenzioni internazionali concluse dall’Italia con gli Stati esteri, una modifica unilaterale di tale nozione riferita unicamente alla norma interna, rischia di rivelarsi poco efficace, atteso che la più favorevole (per i contribuenti) nozione stabilita a livello internazionale prevarrebbe sul novellato art. 162 TUIR in forza del menzionato principio di specialità. In altri termini, la “nuova” e più ampia nozione di stabile organizzazione di cui all’art. 162 TUIR rischia di trovare applicazione in casi estremamente limitati, costituiti dai soli rapporti con imprese estere residenti in Stati che non hanno stipulato alcun trattato internazionale con l’Italia [3].
Del pari, dubbi di coerenza con le previsioni di fonte internazionale solleva anche la disciplina di ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (e, dunque, di imposizione definitiva in Italia) del 25% sui pagamenti effettuati a favore delle imprese estere per beni e servizi acquistati online. Qualora – come pare preferibile sulla scorta di diversi argomenti di carattere sistematico – il reddito del soggetto estero relativo a tali attività si qualifichi come reddito d’impresa, esso sarà tassabile in Italia solo in presenza di una stabile organizzazione, assente nel caso di specie [4]. Peraltro, anche ove si propenda per ricomprendere tale reddito tra quelli diversi sembra dubbia la conformità della disciplina di ritenuta alle previsioni convenzionali, tenuto conto che l’art. 21 del Modello OCSE – cui le convenzioni internazionali stipulate dall’Italia si conformano – attribuisce in tal caso la potestà impositiva al solo stato di residenza del percettore.
Alla luce di ciò, qualora l’Italia intenda effettivamente assoggettare a tassazione la ricchezza prodotta dalle imprese dell’economia digitale mediante un ampliamento del presupposto territoriale dell’imposizione sui redditi (vale a dire, mediante un’estensione della nozione di stabile organizzazione) sarebbe opportuno procedervi nel contesto del progetto BEPS che l’OCSE sta portando avanti. Solo in tal modo, infatti, si potrebbe giungere alla contemporanea modifica di tutte le previsioni in tema di stabile organizzazione recate dai trattati conclusi dall’Italia [5] e, dunque, all’adozione di una misura realmente in grado di incidere sulla tassazione della ricchezza prodotta dalle imprese dell’economia digitale.
[1] Il riferimento è al progetto “Base Erosion and Profit Shifting” (BEPS), come formalizzato nel documento OCSE “Addressing Base Erosion and Profit Shifting”, Parigi, 2013. Il primo punto di tale ampio progetto (“Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”) è costituito proprio dall’analisi dei caratteri peculiari delle imprese operanti nel settore dell’economia digitale e dall’individuazione degli strumenti tributari più idonei per assoggettare ad imposizione la ricchezza prodotta da tali imprese nei diversi Stati in cui esse operano.
[2] Approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917.
[3] () Come accennato nel testo si tratta di ipotesi residuali, circoscritte ai Paesi considerati dall’Italia come “paradisi fiscali” e con i quali l’Italia non intrattiene rapporti di tipo convenzionale. Nessuna delle imprese di maggiori dimensioni (cd. big players) dell’economia digitale (Google, Facebook, Apple, Amazon) rientrerebbe in tali ipotesi, atteso che esse sono tutte fiscalmente residenti in Stati che hanno stipulato con l’Italia una convenzione per la prevenzione delle doppie imposizioni (ad es. Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi).
[4] () Come detto, la ritenuta è rivolta ad indurre i contribuenti a dichiarare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia e non trova applicazione qualora tale stabile. organizzazione italiana vi sia. Pertanto, e per definizione, l’applicazione della ritenuta postula l’assenza di una stabile organizzazione.
[5] () La soluzione tecnica per giungere ad un tale risultato potrebbe essere costituita dalla conclusione di un trattato multilaterale tra tutti i Paesi dell’OCSE diretto a modificare le disposizioni in tema di stabile organizzazione contenute nei trattati bilaterali stipulati dai suddetti Paesi tra di loro.
21 settembre 2015