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Sulla pretesa incostituzionalità dell’art. 6, terzo comma, della Legge n. 40 del 2004

di Carlo Casini e Marina Casini

La Corte Costituzionale è stata nuovamente chiamata dal Tribunale di Firenze (ordinanza n. 166 del 7 dicembre 2012) [1] a valutare la disposizione del 3° comma dell’art. 6 della Legge 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita (PMA) [2] nella parte in cui si stabilisce che la richiesta di procedere alla PMA “può essere revocata fino al momento della fecondazione dell’ovulo”.

La questione non è nuova. Essa era già stata dichiarata inammissibile dalla stessa Corte nella sentenza n. 151 del 2009 che aveva annullato l’obbligo di trasferire in utero tutti gli embrioni generati in provetta, salva l’eccezione di un impedimento (“forza maggiore”) “dovuto allo stato di salute della donna non prevedibile al momento della fecondazione” [3] (art. 14/2). Il Tribunale di Firenze l’ha è ripresentata insieme alla richiesta di annullamento del divieto di sperimentazione distruttiva su embrioni contenuto nell’art. 13 commi 1 e 2 della medesima Legge 40/2004. Abbiamo sottoposto ad esame critico questa parte dell’ordinanza fiorentina in un saggio dal titolo “Lo statuto dell’embrione umano: riflessioni dopo la sentenza costituzionale n. 229 del 2015”, in corso di stampa nel n. 1 del 2016 della rivista “Il diritto della famiglia e delle persone”.

Ci pare ora opportuno completare la riflessione applicando anche alla discussione sull’art. 6 comma 3 l’orientamento emergente dalla suddetta sentenza 229/2015 [4]. In essa si scrive chiaramente che l’embrione non è una cosa. È una affermazione coerente con l’altra recentissima decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo che nella causa “Parrillo c. Italia” del 27 agosto 2015 [5] ha stabilito che l’embrione non può essere oggetto di proprietà. Se non né una cosa, non è un oggetto;  se non è un oggetto, non può essere che un soggetto. In effetti è quanto si legge nella sentenza 229/2015, sia pure con l’annotazione che il bilanciamento del diritto alla vita dell’embrione con altri beni, anche essi costituzionalmente protetti, può condurre ad un affievolimento della “soggettività” (rectius: della tutela) dell’embrione. In ogni caso, anche in questa logica, la qualità di soggetto non viene meno. Va ricordato che la indicazione della sentenza 229/2015 è coerente con i pareri ripetutamente formulati dal Comitato nazionale di bioetica (22 giugno 1996 su “Identità e statuto dell’embrione umano” [6]; 11 aprile 2003 su “Ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali” [7]; 15 luglio 2005 su “Considerazioni bioetiche in merito al c.d. Ootide” [8]; 18 novembre 2005 su “Adozione per la nascita di embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita (PMA)” [9]; 16 dicembre 2005 su “Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum” [10]) e con la precedente sentenza costituzionale n. 27 del 18 febbraio 1975 in tema di aborto [11], specialmente secondo la interpretazione precisata nella successiva decisione della Consulta n. 35 del 10 febbraio 1997 [12].

Si comprende allora la ratio del 3° comma dell’art. 6 Legge 40/2004. È una ratio che resiste solidamente alle cesure formulate dal Tribunale di Firenze. Essa parte dall’affermazione che l’embrione è un semplice “materiale genetico” (cioè sostanzialmente una “cosa”) e su questa base sostiene che l’art. 13/3 della Legge 40/2004 viola il diritto fondamentale di autodeterminazione della donna e il principio del necessario consenso informato che condiziona la liceità di ogni intervento terapeutico e che deve non solo precedere, ma anche sussistere, in ogni fase dell’intero percorso sanitario.

Ma se il concepito non è una cosa (cioè non è un oggetto), ma un soggetto (evidentemente umano), devono essere messi in campo altri valori costituzionali, il primo dei quali è il dovere di mantenimento dei figli (art. 30 Cost.), che non può cedere totalmente neppure nella disciplina dell’aborto volontario alla sola autodeterminazione della donna, tanto è vero che, anche nei primi 3 mesi di gestazione, la liceità della IVG suppone l’esistenza di un pericolo per la salute (art. 4 L. 194/1978[13]) ed esige quindi un bilanciamento nel quale rientrano anche i tentativi di evitare l’aborto con strumenti di vario genere: attesa dei sette giorni, intervento dei consultori, colloquio dissuasivo anche del medico, altri interventi affidati alla discrezionalità delle istituzioni, collaborazione del volontariato: artt. 1-2-5 (sul punto si veda in particolare, la sentenza costituzionale 35/1997). Sullo sfondo vi è la particolare irripetibile condizione della gravidanza con le indicazioni che il legislatore ha ritenuto di dover considerare (il rischio di aborto clandestino, impossibilità di proteggere il figlio senza la collaborazione della madre).

Inoltre, è assai discutibile che la PMA possa essere assimilata ad una vera e propria terapia: anche se nasce un figlio la sterilità resta e non è sanata; anche se una conturbante selezione embrionale può evitare la nascita di un figlio affetto dalle malattie potenzialmente ereditate dai genitori, la malattia resta.

Ma, soprattutto, così come deve essere tenuta in considerazione la “particolare situazione della gravidanza”, parimenti deve essere considerata la “particolare situazione” in cui matura la decisione di accedere alle tecniche di PMA. Il dovere costituzionale di mantenere i figli sembra particolarmente intenso dal momento che il figlio è venuto ad esistenza per libera e meditata decisione ed è stato addirittura strenuamente cercato, in qualche caso “ad ogni costo”. Viene in mente il 3° comma dell’art. 47 della legge sull’adozione [14], secondo cui gli aspiranti adottanti possono revocare il loro consenso fino a che non è emanata la sentenza di adozione (“L’adozione produce i suoi effetti dalla data della sentenza che la pronuncia. Finché la sentenza non è emanata, tanto l’adottante quanto l’adottando possono revocare il loro consenso”). È logico: se voglio un figlio (generato naturalmente o artificialmente o ottenuto con l’adozione) finché  il figlio non c’è opera in pienezza l’autodeterminazione, ma da quando il figlio compare quanto meno essa non è più l’unico valore da considerare. Bisogna poi riflettere sulla regola generale dell’art. 6/3: essa disciplina ogni forma di PMA (anche quella non in vitro) e riguarda entrambi i membri della coppia richiedente. Perciò, il marito o partner non può ritirarsi dal prestato consenso. Di conseguenza: 1) è legittimo il trasferimento dell’embrione voluto dalla donna, anche a fronte del dissenso del padre; 2) la qualifica del figlio come legittimo o naturale riconosciuto non può essere esclusa con tutti i connessi doveri genitoriali previsti dalle leggi.

In sostanza, la ratio legis è evidente: con la fecondazione un nuovo essere umano inizia la sua esistenza. Esso è un soggetto titolare di diritti (art. 1), il primo dei quali è quello alla vita: non può dunque essere distrutto, né esposto a rischio di distruzione. Inoltre nascono in favore del nuovo essere umano obblighi soprattutto nei soggetti che lo hanno generato. Il dovere di “mantenerlo” è addirittura di rango costituzionale, sancito com’è dall’art. 30 Cost. (“E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori del matrimonio”). In ordine alla PMA questo dovere è particolarmente intenso, dal momento che il figlio è venuto all’esistenza per libera e meditata decisione ed è stato anche strenuamente ricercato.

Saggiamente la Legge 40/2004 prevede la irrevocabilità del consenso dopo la generazione dell’embrione, ma non prevede nessuna sanzione per il caso che la donna non voglia il trasferimento in utero. Nessuna coazione è possibile [15]. Di fatto il consenso della donna è necessario, ma la norma dell’art. 6/3 resta una guida all’azione, particolarmente importante.  Il diritto conosce le norme qualificate “men che perfette”, quelle cioè che prescrivono un comportamento ma non lo sanzionano e non lo attuano in modo alternativo. Ma come è noto la funzione del diritto positivo è prima di tutto preventiva, vuole essere, appunto, una “guida all’azione”. La norma non è quindi inutile. L’esclusione della coercibilità non esclude la ragionevolezza e la legittimità costituzionale della norma che afferma e disciplina l’obbligo. Va di nuovo sottolineata la “particolare situazione” della PMA rispetto alla situazione che si configura nel caso dell’aborto volontario. Quest’ultimo si contraddistingue quasi sempre per il carattere indesiderato della gravidanza: il figlio non è stato programmato ed è dunque inatteso e non voluto. Di regola l’inizio della sua vita non è frutto di autodeterminazione. Invece, nel caso del figlio generato mediante le tecnologie riproduttive non si può certo affermare che l’eventuale gestazione è “indesiderata”. L’autodeterminazione si esprime senza ambiguità e decide di generare il figlio. Nel campo della PMA, la maggior parte delle cause incidenti sulla salute e che la Legge 194/1978 considera come indicazioni per l’eliminazione dell’embrione – cause familiari, sociali, economiche, circostanze in cui è avvenuto il concepimento – sono state già adeguatamente prese in considerazione dalla donna (e dalla coppia), e ritenute insussistenti o ininfluenti. La volubilità del giudizio è difficilmente razionalizzabile nella PMA.

La questione del consenso informato è fuori luogo. Abbiamo visto che di fatto per il trasferimento dell’embrione in utero – in quanto non coercibile – occorre il consenso della donna. Naturalmente – come era già previsto nel testo originario della Legge 40/2004 – alcune cause oggettive di forza maggiore possono impedire il trasferimento in utero degli embrioni generati.

La sentenza costituzionale 151/2009 ha ampliato questa possibilità annullando il limite massimo di tre embrioni generabili nell’unità di un ciclo e l’obbligo del loro immediato trasferimento. Si noti, tuttavia, che la Consulta, pur intervenendo sul 3° comma dell’art. 14, non ha annullato il principio, ivi scritto, di un dovere di trasferimento, manifestato dalle parole “da realizzare non  appena possibile”, principio coerente con l’irrevocabilità del consenso una volta avvenuto il concepimento, fissato nel 3° comma dell’art. 6. Tanto più significativa è – dunque – la infondatezza del dubbio di costituzionalità che la sentenza 151/2009 aveva già dichiarato inammissibile. Si aggiunga che nella sentenza ora citata la preoccupazione di salvaguardare la vita dell’embrione, nonostante l’allentamento dei limiti originariamente stabiliti dalla Legge 40/2004, emerge dalla consapevole e motivata conservazione del principio secondo cui le tecniche di produzione non devono creare un numero di embrioni superiore a quello strettamente necessario.

Sembra, dunque, che la questione di costituzionalità debba essere considerata infondata.

Va osservato anche che le sentenze costituzionali 96/2015 [16] e 229/2015 hanno già tolto dalla legge l’obbligo – che abbiamo visto essere sostanzialmente una semplice “guida all’azione” – di trasferire gli embrioni ritenuti “malati” mediante accertamenti genetici. Ma si tratta di una eccezione alle regole generali, motivata da ragioni sanitarie, che non fa venire meno la irrevocabilità del consenso dopo la formazione dell’embrione non giudicato “malato”. E, ancora una volta, va constatata, nonostante tutto, nella decisione 96/2015, la preoccupazione per la vita del concepito mediante l’auspicio di un intervento legislativo idoneo a garantire rigorosamente la serietà e la gravità dei rischi per la salute del figlio mediante “la individuazione delle patologie che possono giustificare il ricorso alla PMA delle coppie fertili e delle procedure di accertamento ed una opportuna previsione di forme di autorizzazione e di controllo delle strutture abilitate ad effettuarle”, alla stregua del “criterio normativo di gravità”.

In ogni caso per i nove embrioni crioconservati che le parti attrici vorrebbero sottoporre a sperimentazione distruttiva, non esiste più il problema della irrevocabilità del consenso al trasferimento in utero per effetto delle sentenze 96/2015 e 229/2015. Dunque la questione è irrilevante e come tale appare inammissibile qualora non dovesse essere ritenuta – come sembra giusto – infondata.

Note

[1] Tribunale di Firenze, Ordinanza 7 dicembre 2012, n. 166, in Gazzetta Ufficiale, 17 luglio 2013, Prima serie speciale n. 29, pp. 65-76.

[2] Legge 19 febbraio 2004, n. 40. Norme in materia di procreazione medicalmente assistita, in Gazzetta Ufficiale, 24 febbraio 2004, n. 45.

[3] Corte Costituzionale, Sentenza 1° aprile-8 maggio 2009, n. 151, in Gazzetta Ufficiale, 13 maggio 2009, n. 19.

[4] Id., Sentenza n.229 del 21 ottobre – 11 novembre 2015, in Gazzetta Ufficiale, 18 novembre 2015, Prima serie speciale n. 46, pp. 9-12 (http://www.iss.it/binary/rpma/cont/sentenza_CC_229_2015.pdf).

[5] European Court of Human Rights – Grand Chamber, Case of Parrillo v. Italy (Application no. 46470/11) (http://www.quotidianosanita.it/allegati/allegato565751.pdf ).

[6] Comitato Nazionale per la Bioetica, Identità e statuto dell’embrione umano, 22 giugno 1996, in Medicina e Morale, 1997, 2, pp. 328 – 349.

[7] Id., Parere su Ricerche utilizzanti embrioni umani e cellule staminali, 11 aprile 2003, in Medicina e Morale, 2003, 4, pp. 725 – 726.

[8] Id., Considerazioni bioetiche in merito al c.d. “ootide”, 15 luglio 2005 (http://presidenza.governo.it/bioetica/testi/Ootide.pdf).

[9] Id., Adozione per la nascita degli embrioni crioconservati e residuali derivanti da procreazione medicalmente assistita (PMA), 18 novembre 2005 (http://presidenza.governo.it/bioetica/testi/APN.pdf).

[10] Id., Aiuto alle donne in gravidanza e depressione post-partum, 16 dicembre 2005 (http://presidenza.governo.it/bioetica/testi/aiuto_donne_gravidanza.pdf).

[11] Corte Costituzionale, Sentenza n. 27 del 18 febbraio 1975, in Giurisprudenza Costituzionale, 1975, I, pp. 117 – 120.

[12] Id., Sentenza 30 gennaio-10 febbraio 1997, n. 35, in Giurisprudenza costituzionale, 1997, I, pp. 281-293.

[13] Legge 22 maggio 1978, n. 194,  Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza, in Gazzetta Ufficiale, 22 maggio 1978, n. 140.

[14] Legge 4 maggio 1983, n. 184, Diritto del minore ad una famiglia come modificata dalla Legge 28 marzo 2001, n. 14 (in Gazzetta Ufficiale, Gazzetta Ufficiale, 26 aprile 2001, n. 96).

[15] Certamente, di fronte al persistente rifiuto della donna, non è possibile (né sarebbe opportuno) il ricorso al trasferimento forzoso assolutamente non previsto dalla legge, né dalle norme sul trattamento sanitario obbligatorio. L’art. 13 della Costituzione vieta qualsiasi restrizione della libertà personale che non sia disposta dall’autorità giudiziaria e l’art. 32 Cost., al comma 2, stabilisce che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento se non per disposizione di legge”. Conseguentemente la Legge n. 833 del 23 dicembre 1978 sul servizio sanitario nazionale afferma, all’art. 33, che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono di norma volontari ”. Tra le eccezioni  vi è quella della Legge n. 180 del 13 maggio 1978 sulla riforma nell’assistenza psichiatrica, nella quale, peraltro all’art. 1 è ribadito il principio che “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari ”. Dunque è certo che l’embrione non può essere trasferito coattivamente nelle vie genitali della donna che in extremis lo rifiutasse.

[16] Corte Costituzionale, Ordinanza n. 96 del 14 maggio-5 giugno 2015, in Gazzetta Ufficiale, 10 giugno 2015, n. 23.

19 febbraio 2016

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