Elisabetta Giovanna Rosafio è professore ordinario di Diritto della navigazione e Diritto aerospaziale presso la…
Pizzetti: “Sentenza CGUE non è su diritto all’oblio. Ma pone questioni fondamentali su evoluzione normativa”
Intervista al giurista ed ex Garante Privacy: “La Corte di Giustizia è intervenuta sul prevalere, a certe condizioni, degli interessi del cittadino su quelli di chi fa business, non sulla permanenza delle informazioni sui siti originari. Ma soprattutto costringe ad interrogarsi sulle varie modalità nelle quali si presenta oggi il trattamento dei dati”. E sul potere conferito a Google: “Le Autorità mettano a punto linee guida pro tempore in attesa di una serie di norme che non siano ristrette alla sola Europa” di Marco Ciaffone “La sentenza della Corte di Giustizia Europea non riguarda il diritto all’oblio, ma da essa si ricavano precise indicazioni che impongono un passo in avanti nella regolazione in materia di privacy e dati, passo in avanti che non è garantito dal Regolamento proposto dalla Commissione Europea nel 2012”. La sferzata arriva da Francesco Maria Pizzetti, giurista, già presidente dell’Autorità Garante per la Privacy dall’aprile del 2005 al giugno del 2012 e Professore ordinario di diritto costituzionale all’Università di Torino oltre che docente di diritto della tutela dei dati personali presso l’università LUISS di Roma. Nell’analizzare il quadro restituito dalla sentenza con la quale nel maggio scorso la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha stabilito che i cittadini del Vecchio Continente possono richiedere ai gestori dei motori di ricerca la rimozione di link dall’elenco dei risultati, Pizzetti anticipa i contenuti di un contributo che a breve sarà pubblicato sulla rivista Diritto dell’Informazione. Facendo un passo indietro, nel discorso che accompagna la relazione del Garante Privacy 2010 Pizzetti affermava: “Parlare di diritto alla riservatezza e, ancora di più, di diritto all’oblio, rischia di essere sentito ogni giorno di più come una inaccettabile pretesa di limitare il diritto a conoscere e a sapere. È sempre più difficile distinguere fra cosa sia la libertà di stampa e di manifestazione del pensiero, e cosa invece il diritto di conoscere e quello di comunicare. È essenziale interrogarsi se esista, e in che limite, il diritto a diffondere liberamente in rete non solo i comportamenti e sentimenti propri ma anche quelli degli altri. Alla base sta l’idea che sulla rete il principio di responsabilità sia travolto dal prevalere sempre e comunque della libertà di comunicazione e diffusione del pensiero. Una idea che, nella sua radicalità, non può essere accolta“. Professore, sono passati quattro anni dalla redazione di quel documento, cosa cambierebbe di quelle parole? “Non cambierei assolutamente niente. Anzi, le sentenze e le iniziative legislative che si sono susseguite da allora non hanno fatto altro che rafforzarne il valore”. In materia di diritto all’oblio nel marzo scorso lei ha dato alle stampe un volume nel quale si fa una ricognizione a tutto campo di una tematica terremotata dalla sentenza della CGUE; innanzitutto, cosa pensa della decisione dei giudici europei? “Chiariamo subito un punto: la sentenza della Corte di Giustizia non interviene sul diritto all’oblio, ma sul tema del prevalere, a certe condizioni, del diritto dell’interessato alla cancellazione dei dati personali riferiti ad esso per motivi preminenti e legittimi rispetto alla tutela della propria dignità personale e della propria sfera di riservatezza sull’interesse che il motore di ricerca ha a coltivare il suo business nonché sugli interessi degli utenti a conoscere quei determinati dati. Non si interviene sul sito sorgente, non riguarda la cancellazione delle informazioni dal giornale online o da qualche tipo di archivio pubblicamente consultabile”. “Non è dunque in ballo la memoria storica ma un fenomeno del tutto diverso, quello dell’accessibilità al dato attraverso il motore di ricerca, tenendo conto che questa accessibilità non è a sua volta informazione originale ma una meta-informazione; l’azione del motore di ricerca è completamente diversa da quella che rientra nel tradizionale diritto ad informare ed essere informati, perché questo diritto è legato ad una fonte mediatica che ha un momento storico, è in un certo senso congelata al momento storico in cui è stata pubblicata. Il motore di ricerca, invece, da un lato fornisce informazioni secondo la logica misteriosa del suo algoritmo, dall’altro attualizza costantemente l’informazione, fornendo quindi un’informazione diversa che entra in una catena informativa che ne condiziona la leggibilità e che annulla agli occhi di una larga parte di utenti il riferimento temporale. Non è tanto la sempre legittima conservazione del passato in ballo, ma la sua attualizzazione che lo rende un perpetuo presente”. “Tutto questo per dire che non si possono applicare al motore di ricerca le categorie traidzionali della libertà di stampa, ed è in questo quadro che bisogna comprendere le importanti questioni poste da questa sentenza”. Ad esempio? “Ad esempio il fatto che si sia posta l’attenzione con grande forza, e per la prima volta, sul fatto che i trattamenti dei dati sulla rete incidono sul messaggio stesso che i dati trasmettono e che quindi bisogna distinguere tra i vari trattamenti riservando ad ognuno di essi un quadro di riferimento diverso. Detto in altre parole, le tipologie di trattamento sono sempre più diversificate e come tali devono essere le norme. La sentenza, in definitiva, fornisce un chiaro e deciso impulso all’evoluzione del quadro normativo”. In ogni caso, sono molti i punti critici emersi durante questi tre mesi. “Credo ci sia una domanda centrale da porsi: quali sono le circostanze nelle quali l’equilibrio si rovescia e prevale l’interesse a conoscere? È un punto sul quale la sentenza è lacunosa, e si limita a dire che il motore di ricerca è tenuto a respingere la richiesta solo in ragione della natura dei dati o della figura pubblica dell’interessato, formule che rappresentano un accenno troppo generico per consentirci di capire qual è il limite ricorrendo il quale prevale l’interesse a conoscere sul diritto alla deindicizzazione dei dati. Senza contare che, per come è formulata, la sentenza favorisce la risposta favorevole del motore a chi chiede la deindicizzazione, è la risposta negativa a porsi come una limitazione del diritto e a portare il motore a dover dimostrare di non poterla accogliere, onere di prova che non si presenta quando si accolgono le richieste”. Il nodo più grande sembra essere proprio quello del potere “di vita o di morte” che viene conferito a grandi player come Google sui risultati di ricerca. Quali mosse potrebbero sbloccare l’impasse? “La possono risolvere solo le Autorità con la messa a punto di linee guida pro tempore che forniscano ai soggetti interessati precise indicazioni su come vada interpretato quel punto oscuro della sentenza, e che quindi permettano di chiarire in quali circostanze il diritto alla cancellazione viene meno nel confronto con gli altri e cosa significa nello specifico ‘figura pubblica’. Il tutto in attesa di un nuovo quadro normativo di riferimento”. “Ma c’è un ragionamento più ampio da compiere; se noi carichiamo sul privato l’obbligo di far rispettare un limite, il privato tenderà ad interpretare questa consegna in una modalità che non entri in conflitto coi propri interessi. Ma come abbiamo visto in questo caso si moltiplicano le voci che tirano in ballo i diritti di un terzo soggetto, quello interessato a conoscere, cambiando lo scenario da un rapporto a due tra il titolare del trattamento e il richiedente la rimozione a un rapporto a tre. In questo senso, allora, dovremmo innanzitutto riconoscere che esiste in questa dinamica un coté pubblicistico le cui implicazioni non potrebbero essere rimesse al solo intervento delle Autorità, ma dovrebbe coinvolgere figure come il procuratore dei dati”. Tra le altre questioni aperte, quelle sottolineate in un incontro tra il Gruppo di Lavoro dei Garanti Privacy europei “Articolo 29” e i rappresentanti di Google, Bing e Yahoo avvenuto il mese scorso a Bruxelles; in quella sede si è parlato di come la validità della sentenza ai soli confini europei la renda poco efficace. In Canada ad esempio una sentenza analoga ha stabilito che gli operatori devono far sì che i risultati rimossi siano irraggiungibili in tutto il mondo. Pensa sia praticabile una tale soluzione senza coinvolgere le autorità di altri Paesi e, in particolare, gli Stati Uniti? “Se non capiamo che servono regole che travalicano i confini regionali siamo fuori strada. In questo momento storico imponendo regole restrittive ad un Paese si finisce per isolarlo, ed è un po’ l’approccio che ho seguito quando ero in Authority. E qui veniamo ad un altro punto importante segnato dalla sentenza della Corte di Giustizia, l’aver mostrato come sia anacronistica una regolazione regionale che punti a introdurre tutele all’interno di confini precisi come se il resto del mondo non esistesse. Il tutto mentre anche i giudici degli Stati Uniti si scontrano con un contesto dove la residenza dei server fuori dai confini nazionali rende inapplicabili le sentenze. Il Canada dice che bisogna rimuovere i contenuti da ogni angolo del pianeta? E dopo che lo dice cosa succede fuori dai suoi confini? Più o meno, nulla”. Pochi giorni fa il Commissario europeo per la giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza Martine Reicherts ha usato parole molto dure nei confronti di presunti “detrattori” che distorcerebbero il dibattito seguito alla sentenza della CGUE con l’obiettivo di mettere “i bastoni tra le ruote” alla riforma sulla Data Protection che dovrebbe vedere la luce il prossimo anno; è d’accordo con questa visione? “Ha sbagliato impostazione: non si tratta di mettere i bastoni tra le ruote, si tratta di capire che la sentenza pone dei problemi che devono essere tenuti presenti nella fase di messa a punto di un Regolamento che, per quanto detto in precedenza, rischia di nascere già vecchio; non è utile dire di ‘non disturbate il manovratore’, ma riflettere su cosa sta succedendo al terreno sul quale si vuole intervenire”. LEGGI Data protection e diritto all’oblio, il Commissario Reicherts: “Dibattito distorto da detrattori. Adottare subito nuove è più forti tutele sulla protezione dei dati” “Diritto all’oblio, Google “interrogato” dai Garanti privacy europei. Accolta la metà delle richieste. In attesa di linee guida condivise” Privacy e diritto all’oblio, il gestore di un motore di ricerca online è responsabile del trattamento da esso effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web di terzi. Montuori (Garante Privacy): “Consonanza con direzione intrapresa dall’Autorità”. Google: “Decisione deludente, sopresi differisca da Advocate General” “Google e diritto all’oblio, Giuseppe Busia (Garante Privacy): ‘Stabilito un principio sulla competenza territoriale’. Il Prof. Gambino: ‘Richiesta ai motori di ricerca è tutela estrema e subordinata, ma aspetti positivi per tutela delle fragilità’ ” “Uno, nessuno e centomila: tra reputazione online e diritto all’oblio. Montuori (Garante Privacy): ‘Importante capire il diritto alla contestualizzazione dell’informazione’ ” 22 agosto 2014