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È davvero utile spezzare le Big Tech? Intervista ad Augusto Preta

Augusto Preta è economista e analista di mercato. È fondatore e direttore generale di ITMedia Consulting e ha insegnato in diverse università italiane.

Negli Stati Uniti è in corso un dibattito – portato avanti soprattutto dalla candidata Democratica alla presidenza Elizabeth Warren – riguardo alla necessità di “spezzare” le Big Tech, ormai troppo grandi, e ripristinare così la concorrenza. Che ne pensa?

La dimensione politica del fenomeno Big Tech, accentuata da questioni cariche di aspetti etici e sociali, quali l’uso dei Big Data e dell’Intelligenza Artificiale, certamente sposta l’attenzione dei policy maker dalle questioni classiche della concorrenza e dell’antitrust.

Le vicende di Cambridge Analytica e le recenti iniziative che vedono ancora coinvolta Facebook con Libra, tendono poi a favorire ancor più una lettura del fenomeno che non può non attirare l’attenzione del mondo politico. Dall’antitrust “regolatore” europeo (DG Comp), ai vari progetti di regolatore unico nazionale digitale (UK, Australia, USA), è tutto un fiorire di interventi che hanno l’obiettivo di ridurre il peso economico, e dunque per certi aspetti, politico delle Big Tech.

Applicare lo spezzatino a questi giganti digitali si scontra però con la dimensione spesso “immateriale” del business e con l’impossibilità di applicare a tali soggetti la dottrina delle essential facilities. Inoltre stiamo parlando di soggetti molto diversi tra loro, con business model distinti e con un peculiare approccio al mercato.

Uscire dalla classica analisi antitrust, caso per caso, peraltro con una strumentazione affinata negli ultimi anni (mercati a più versanti, zero price e prezzi personalizzati), per entrare in territori inesplorati, rischia, aldilà delle migliori intenzioni dei proponenti, di creare mostri ben più pericolosi di quelli che si vorrebbero ridimensionare.

I critici dicono che “frantumare” le Big Tech potrebbe danneggiare – e non alimentare – la spinta all’innovazione, perché sarebbero proprio le dimensioni di queste aziende a consentire loro di programmare grandi investimenti nello sviluppo e di lavorare su più aree. È una critica che la convince?

Vi sono certamente aspetti di problematicità nell’analizzare il fenomeno delle cosiddette Big Tech. Il primo e più rilevante è naturalmente il fatto che in nessun caso la dimensione può essere l’elemento discriminante, che può giustificare l’intervento delle autorità di concorrenza e di regolazione. 

Ciò che fa la differenza è il comportamento dell’impresa e cioè considerare che la sua dimensione può essere utilizzata per escludere i concorrenti dal mercato ovvero per impedire ai potenziali concorrenti di entrare. In tali casi questi comportamenti vanno sanzionati dalle autorità preposte, al fine di ristabilire i corretti meccanismi di mercato – cioè la concorrenza – che però non è un valore in sé, ma solo uno strumento per favorire il benessere sociale.

Al contempo la dimensione può essere invece un fattore positivo, laddove favorisca una maggiore efficienza legata alla migliore conoscenza del mercato, in quanto consente forme di discriminazione tra gli utilizzatori dei prodotti/servizi offerti dall’impresa, in grado di fornire il miglior servizio al miglior prezzo per ciascun utente e in definitiva il maggior benessere del consumatore. In questo caso se l’impresa opera in un mercato o in un ecosistema a forte tasso di innovazione è molto probabile che gli elementi di efficienza siano prevalenti su quelli propriamente anti-competitivi legati alla rendita o comunque a una posizione monopolistica come quella sopra ricordata.

I temi discussi nell’intervista trovano ampio spazio anche nel manuale “Diritto dell’informatica e della comunicazione“, giunto alla terza edizione, a cura di Alberto Gambino, Andrea Stazi e Davide Mula.

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