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Coronavirus, l’uso della tecnologia e la tutela dei dati personali

Vorresti sapere se il tuo vicino è contagiato dal coronavirus? Vorresti sapere se nel negozio dove ti trovi adesso è passato un contagiato dal coronavirus?

Probabilmente sono queste le domande che tutti si pongono, per le quali, però, le risposte non sono semplici. L’innato istinto di sopravvivenza potrebbe far pendere la bilancia verso una maggiore trasparenza e sicurezza, ma la tutela dei diritti (e in particolare il diritto a non essere discriminati) non può essere cancellata. Compito dello stato è bilanciare i diritti in gioco.

Lo stato ha l’obbligo di tutelare la collettività intera, quindi di interrompere la catena del contagio, e nel contempo anche di salvaguardare la salute dei singoli individui. In Italia il diritto alla salute è riconosciuto, dagli articoli 2 e 32 della Costituzione, come diritto fondamentale sia per i singoli che per la collettività. Per cui altri diritti possono essere compressi (ma non annullati) in situazioni di emergenza, come quella attuale.

La sorveglianza delle malattie infettive non è certo una novità. Praticamente tutti gli stati hanno obblighi di comunicazione a carico degli operatori sanitari. Il problema è che per la raccolta e l’analisi dei dati occorrono tempo e strumenti adeguati. La Cina è un paese altamente tecnologizzato e ampiamente sorvegliato, quindi ha fatto ricorso ai Big Data per tracciare i cittadini in quarantena. Negli Stati Uniti i dati sono per lo più nelle mani delle grandi aziende. Mentre in Europa, oltre al problema che i dati li hanno le grandi aziende (i gestori di telefonia, e le aziende del web che sono per lo più americane) i timori per l’invasività degli strumenti di tracciamento ne frenano l’utilizzo.

La Cina ha applicato misure draconiane, quali il blocco di intere città, il controllo rigoroso della diffusione delle informazioni, la sorveglianza degli individui, obbligati ad usare una app di tracciamento con condivisione dei dati con la polizia e registrazione per prendere i mezzi pubblici.

La Corea del sud, invece, ha adottato una politica soft di contenimento volontario, con capillare diffusione delle informazioni verso i cittadini.

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