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Digital first. Amministrazione digitale: genesi, sviluppi, prospettive. Intervista al Prof. Avv. Giovanni Pesce

La Redazione di DIMT ha intervistato il Professor Giovanni Pesce, straordinario di diritto amministrativo presso l’Università Telematica Internazionale UNINETTUNO, in merito al volume, curato dal Professore: Digital first. Amministrazione digitale: genesi, sviluppi, prospettive

 

Il Prof. Avv. Giovanni Pesce

 

Nel Suo volume, “Digital First”, vengono affrontate tematiche estremamente attuali in ambito di evoluzione digitale e tecnologica. Nell’ambito di questo processo, che la nostra epoca sta vivendo in prima persona, quali sono le maggiori implicazioni giuridiche e quali saranno le tematiche che dovrà affrontare l’azione amministrativa e i rapporti fra Stato, cittadini e imprese, a Suo avviso?

Se in una prima fase i benefici prospettati dall’utilizzo crescente dell’Information & Communication Technology sono stati definiti soprattutto in termini economici, oggi la conversione al digitale di molte aree dell’esistenza sociale si accompagna a nuove promesse, quali l’accentuata riduzione dei costi, la disintermediazione, la razionalità, l’accessibilità totale di informazione, l’interconnessione ininterrotta. Promesse che, applicate al settore pubblico, dovrebbero accrescere la trasparenza, l’efficienza, l’efficacia dell’azione amministrativa, come prescrive l’art. 97 della Costituzione.

E tuttavia la conversione al digitale è soprattutto un processo a cui non sembra possibile sfuggire. Quando al sociologo Bauman chiesero di prendere posizione sulla globalizzazione, la risposta fu icastica: non si può scioperare contro l’eclissi di sole.  Stesso discorso può farsi sulla rivoluzione digitale. Sarebbe vano opporvisi perché ha la forza propria di un fenomeno naturale. Questo non toglie però che non si possa comunque provare a sbrogliare un bandolo di questioni che spesso si presenta intrecciato. In particolare, come ho provato a spiegare nel mio Digital First, sarà opportuno fare chiarezza su tre aspetti: il primo, più ovvio, è che la conversione della pubblica amministrazione al digitale solleva problemi peculiari, assenti quando la digitalizzazione investe l’attività privata. Il secondo, è quello dell’incoerenza fra le promesse della rivoluzione digitale che può determinare un’incoerenza fra principi a cui l’amministrazione digitale intende ispirarsi. Il terzo, è quello del rapporto ambivalente fra tecnologia e diritto, fra digitalizzazione e diritti.

Ad esempio. Una delle promesse del digitale è la libertà di forma, che si traduce nell’immediatezza dei rapporti, ma che può esprimersi anche in linguaggi modificati o addirittura criptati. L’attività amministrativa però funziona esattamente all’opposto. Basti pensare alla necessità di un’identità certa; alla certezza del legame di imputazione fra chi agisce e l’atto; alla natura provvedimentale dell’attività amministrativa; alle conseguenze giuridiche di ogni fase del procedimento. Tutte queste caratteristiche portano a chiedersi se l’e-Government non finisca con l’infrangere molte fantasie libertarie solleticate dal web. Il formalismo dell’attività amministrativa contraddice l’informalità delle relazioni virtuali. Il contrasto porta a riformulare alcune questioni fondamentali per la legittimità dell’azione di governo e porta a chiedersi se lo spontaneismo delle relazioni online non assicuri le garanzie dei cittadini meglio di quanto non faccia la natura formale della pubblica amministrazione. Eppure il diritto amministrativo dal dopoguerra ad oggi ruota intorno al principio opposto. Sono l’azione vincolata della pubblica amministrazione, l’aspetto provvedimentale, il formalismo insomma, che mettono al riparo il cittadino dall’arbitrio di questo o quel funzionario.

Ancora. Se da un lato il web solletica l’utopia di un mondo senza Stato, dove le interazioni sembrano sfuggire al potere pubblico, dall’altro tuttavia offre opportunità di controllo mai prima concepite, se non nella letteratura fantascientifica. Al profiling degli utenti, agli spyware installati da grandi aziende per carpire informazioni su potenziali consumatori e poi per inviare pubblicità non sollecitate, si deve aggiungere l’enorme mole di informazione di cui lo Stato può disporre senza dover ricorrere alle necessarie garanzie previste da quasi tutte le Costituzioni (ordine dell’autorità giudiziaria, ragionevole sospetto di reato, etc…).  Del resto, molte agenzie governative sono state investite del potere di sviluppare tecnologie finalizzate proprio a garantire la sicurezza (e, in tempi di pandemia, la salute) attraverso un pervasivo controllo della popolazione.

David Graeber, ad esempio, ha formulato l’ipotesi che l’espansione massiccia della burocrazia che caratterizza tutti i sistemi giuridici contemporanei, le democrazie in prima fila, sia il risultato non tanto dell’allargamento di competenze delle Stato sociale ma di un’alleanza consapevole fra ampi settori privati e agenzie governative.  Graeber ha aggiunto che la tecnologia contribuisce al proliferare della burocrazia.

È da queste due opposte tendenze esistenti sul web, riassunte nei due esempi appena fatti, la prima volta a favorire una socievolezza che non solo prescinde ma che talvolta sfida il controllo pubblico, e l’altra che al contrario preconizza una sorveglianza capillare sulla popolazione condotta congiuntamente da settori pubblici e privati, che si deve partire se si vuole comprendere la conversione del potere pubblico alle tecnologie informatiche e alla rete auspicata da più voci.

 

 

Nel Suo lavoro affronta anche il tema cruciale della riforma dello Stato attraverso il digitale. Nello specifico del rapporto tra democrazia e digitalizzazione, della semplificazione amministrativa attraverso i big data, e dei relativi nodi teorici di più stretto interesse del diritto amministrativo. Potrebbe parlarci della risonanza di queste implicazioni e connessioni nella nostra società?

Per il giurista almeno tre sono i tipi di questione che la conversione al digitale solleva.

Le questioni del primo tipo sono giuridiche in senso stretto: le questioni relative al documento informatico, all’atto amministrativo digitale e alla firma digitale.  Ma vi rientrano anche quelle attinenti all’organizzazione. Un esempio è il nuovo centralismo amministrativo richiesto dalla sostanziale uniformità fra sistemi informatici delle pubbliche amministrazioni che ha in parte messo in discussione lo schema introdotto dalla riforma del titolo V della Costituzione, anche sotto la spinta della Corte Costituzionale.

Le questioni del secondo tipo riguardano la natura dei diritti digitali e dunque il modo di configurare la cittadinanza digitale. È l’ultima riforma del codice dell’amministrazione digitale (CAD) del 2016 (nota come legge Madia) che pone il tema in maniera centrale. Già in passato alcuni autori avevano intuito che l’informatizzazione pubblica non avrebbe potuto pienamente essere compresa senza passare ad una evoluzione che tenesse conto dei diritti della persona, così da invertire la “tendenza alla involuzione” insita nel fatto che la modernizzazione della amministrazione e degli apparati si esprime in primo luogo facendo prevalere la burocrazia sulle istanze democratiche. Una tendenza involutiva che si esprime nel rafforzamento, magari inconsapevole, degli apparati pubblici muniti di tecnologia e detentori di strumenti di informazioni e di pressione sui cittadini, con relativo (potenzialmente incontrollabile) incremento del potere burocratico della organizzazione amministrativa sui diritti individuali. Una tendenza cui non può che seguire la modernizzazione tecnologica degli stessi cittadini e della società che opera quale controspinta e, a sua volta, determina un bilanciamento del potere degli apparati pubblici modernizzati. Sebbene vi sia chi suggerisca di non sovrastimare il termine di cittadinanza digitale e di non confidare sull’ambiguo conferimento di diritti digitali il linguaggio del nuovo CAD sembra puntare verso un’altra direzione.  Basti pensare, per tornare al titolo del libro, al principio del digital first, declinato dalle disposizioni introdotte dalla riforma, rispettivamente, sui diritti di uso delle tecnologie e di partecipazione nel procedimento, sulla doverosità della gestione del procedimento in modalità telematica e sul fascicolo elettronico.

Il terzo ordine di questioni è più generale ed investe i possibili mutamenti sul modo di intendere la pubblica amministrazione che la conversione al digitale produce.  La digitalizzazione che ha in mente il nostro legislatore del resto si propone un obiettivo ambizioso. Vorrebbe essere il “cuore” della intera riforma della pubblica amministrazione, ma in un senso ben preciso: non più solo uno ausilio tecnologico per dematerializzare i documenti e rendere più accessibile, veloce e trasparente la relazione tra p.a. e cittadini, quanto un vero e proprio “strumento” per cambiare, appunto, lo Stato.

Ad esempio, l’art. 9 del nuovo CAD dispone che le amministrazioni (e le società a controllo pubblico) predispongano mezzi e personale per promuovere, attraverso tutte le nuove tecnologie (compresa, quindi, l’IA e la blockchain), una maggiore partecipazione dei cittadini al processo democratico e per facilitare l’esercizio dei diritti politici e civili e migliorare la qualità dei propri atti, anche attraverso l’utilizzo di forme di consultazione preventiva per via telematica sugli schemi di atti da adottare. Ma il “processo democratico” che la telematica è in grado di promuovere non realizza solo, come sembrerebbe a prima vista, una maggiore trasparenza. Ha sicuramente almeno altre due forme. Accanto ad una sequenza che parte dall’alto verso il basso – l’autorità che elabora uno schema di decisione e lo sottopone al pubblico prima che esso si traduca nella decisione definitiva – è immaginabile una sequenza in senso inverso. Perché non pensare che l’iniziativa parta da un gruppo, da un’associazione, da un sindacato, da un singolo, che si fanno promotori di una decisione perché sia presa dal parlamento, dal governo, da un’amministrazione?

C’è poi una seconda modalità di impiego della telematica che può essere ricondotta al processo di partecipazione democratica. Il cittadino affida alla rete la sua protesta contro il funzionamento di un pubblico servizio nazionale o locale, segnalando interruzioni nel servizio, o abusi nella tariffazione, o discriminazioni tra gruppi di utenti; e magari associa alla protesta suggerimenti per un miglioramento del servizio. Si tratta della estensione ai servizi pubblici di un comportamento, che è sempre più diffuso fra i consumatori di servizi privati: avvezzi a esprimere le loro valutazioni sul ristorante in cui hanno cenato o sull’albergo o sul bed and breakfast ove hanno soggiornato. Tra i big data che le amministrazioni sono, almeno teoricamente, in grado di utilizzare rientrano i giudizi espressi sul funzionamento o sul malfunzionamento del pubblico servizio: una imprescindibile fonte di informazione per gli amministratori e dirigenti che fossero seriamente intenzionati a migliorare la prestazione del servizio.

Va però precisata una cosa. Con l’uso delle nuove tecnologie viene favorita una “maggiore partecipazione” dei cittadini “al processo democratico”, ma le nuove tecnologie non espropriano le istituzioni dei loro poteri, né cancellano il loro ruolo: non introducono una democrazia diretta che va a soppiantare la democrazia rappresentativa. Esercitando i diritti politici e civili anche grazie alla tecnologia, i cittadini non si sostituiscono al legislatore, come pure vagheggiano i sostenitori della democrazia della rete. Questa sostituzione è preclusa da un sistema costituzionale che è ispirato alla democrazia rappresentativa.

 

 

Quali saranno, nell’ottica del centralismo statale e delle nuove concezioni di servizi pubblici volti al digitale, i principali aspetti per i quali bisognerebbe operare un’azione di sensibilizzazione del cittadino?

Partirei dalla attualità. Uno dei punti nodali della strategia digitale, resa quanto mai drammatica dagli eventi legati alla pandemia da Covid 19, è rappresentato dall’accesso ai servizi erogati in rete dal settore pubblico: dallo Stato all’ultima delle società a controllo pubblico. Tutte le persone fisiche e giuridiche devono avere il diritto di accedere (alla rete) e (quindi) utilizzare i servizi erogati in rete.

L’intero settore pubblico deve, quindi, rendere fruibili i propri servizi in rete tramite un punto unico di accesso telematico e, più in generale, deve riorganizzare ed aggiornare i servizi e renderli disponibili per via telematica, sfruttando ogni tipo di tecnologia.

La direzione della futura azione dei poteri pubblici sembra perciò confermare sul piano del diritto positivo il concetto di servizi pubblici da erogare in via digitale come opzione preferenziale. L’attuale modello imperniato sul principio “innanzitutto digitale” (torniamo al nostro digital first) implica il rovesciamento delle posizioni: è diritto dei cittadini e delle imprese avvalersi dei predetti servizi ed il settore pubblico deve favorirne l’accesso, garantendo l’applicazione concreta dei diritti digitali.

Naturalmente, il futuro è prevedibile: la comunicazione relativa alle modalità di attivazione ed erogazione dei servizi avverrà esclusivamente su base digitale . Da questo punto di vista, la forza improvvisa della pandemia ha anticipato i tempi e, di fatto, si sta passando al principio (ancora non codificato) del digital by default.

Se ci riflettiamo, senza la tecnologia non sarebbe possibile attuare la quarantena, ridurre l’attività sociale e lavorativa e, comunque, permettere ai cittadini e alle imprese di muoversi con libertà, quanto meno, nella realtà virtuale. Di conseguenza, non sarebbe possibile nemmeno garantire la tenuta sociale ed economica di un Paese colpito dalla pandemia.

L’uso generalizzato dell’elettronica da parte dell’amministrazione, sia nei rapporti con gli altri apparati o uffici amministrativi, sia nei rapporti con i privati richiede che questi ultimi siano in grado di dialogare con lo stesso mezzo.

Poiché non tutti sono in grado di farlo, c’è il rischio della creazione di un digital divide: una discriminazione incompatibile con l’obbligo delle amministrazioni di praticare la parità di trattamento ai cittadini e di erogare i pubblici servizi secondo un criterio di universalità (il servizio universale) o di fare in modo, nei casi in cui il servizio non viene erogato direttamente dalla P.A. ma da impresa o imprese incaricate di farlo, che queste imprese non operino discriminazioni fra gli utenti.

Da qui, ad esempio, l’esigenza di applicare la teoria del servizio pubblico (in chiave universale) ai servizi digitali erogati dalla p.a., di interpretare i diritti digitali secondo una declinazione che rafforzi la relativa tutela, in linea con una moderna nozione di cittadinanza digitale.

Occorre così creare anche processi di formazione all’uso della tecnologia digitale per coloro che quest’uso ignorano. Per questa ragione, l’amministrazione digitale deve essere accompagnata da rilevanti investimenti sia nelle infrastrutture di rete sia nella scuola e nella formazione.

La competenza che si richiede al cittadino, deve essere innanzitutto posseduta dall’amministrazione; e quindi dai dirigenti e dipendenti pubblici.

In questo caso non è necessaria soltanto una cospicua attività di formazione e di aggiornamento, ma vanno riveduti i criteri di esame per l’accesso alle pubbliche amministrazioni, le regole, sulla distribuzione del personale tra gli uffici, i criteri per il conferimento degli incarichi dirigenziali.

La digitalizzazione investe non soltanto i servizi amministrativi, ma anche i servizi pubblici economici e sociali. L’esempio più concreto è rappresentato proprio dal servizio sanitario, oggi sotto inedita pressione, il cui funzionamento può essere agevolato (e reso meno costoso) dalle reti regionali integrate di formazione sanitaria, dai fascicoli medici elettronici standardizzati, dalla tele consultazione e dal telemonitoraggio a domicilio, dall’applicazione della telematica nell’ambito del sistema comunitario di regolamentazione farmaceutica.

Per realizzare questi ambiziosi obiettivi, qui sommariamente tratteggiati, occorre ricercare un buon compromesso ed applicare l’art. 3 della Costituzione alle norme sull’amministrazione digitale, dinanzi alla quale il cittadino deve poter contare su strumenti tecnici ed informatici di portata tale da potere essere “alla pari” con i suoi concittadini e con lo stesso apparato pubblico.

In tal modo, concludo, le stesse regole tecniche – invasive e controllanti – che caratterizzano i poteri pubblici digitali potranno essere pur sempre ricondotti all’idea di fondo, tuttora valida, per cui il settore pubblico ha senso solo se soddisfa i bisogni della cittadinanza in modo da coniugare efficienza ed equità.

 

 

La redazione di DIMT rimanda per maggiori approfondimenti alla segnalazione editoriale:

Digital first. Amministrazione digitale: genesi, sviluppi, prospettive

 

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