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Facebook: condanna del Tribunale di Roma per violazione del diritto d’autore e diffamazione. Il commento del Prof. Giuseppe Cassano

Il Tribunale delle Imprese di Roma con decisione del 15.2.2019 ha accertato la responsabilità del social network Facebook per la intervenuta pubblicazione di contenuti audiovisivi di terzi tramite link non autorizzati conducenti ad una piattaforma terza (YouTube).

Nel 2012 veniva creata una pagina su FB avente ad oggetto il cartoon Kilari. Nella pagina FB venivano postate immagini della cantante della sigla (V Ponzone) e dei link che conducevano -su YT- a video riproducenti la sigla del cartone. Insieme a pesantissimi insulti rivolti all’interprete e alla stessa RTI.

Nonostante l’invio di almeno tre diffide, FB ha mantenuto pubblica la pagina in questione per oltre due anni.

Il tribunale ha recepito integralmente il decisum della  giurisprudenza della CGUE in tema di pubblicazione di opere di terzi tramite attività di linking non autorizzato dal titolare dei diritti (la sentenza C-527/15 sul caso “Filmspeler” e la recentissima sentenza C- 161/17 sul caso Renckhoff del 7 agosto 2018).

Più precisamente l’attività di linking non autorizzato rappresenta, pertanto, un atto di comunicazione al pubblico che, come tale, presuppone – ai fini dell’utilizzo dei materiali protetti- la preventiva autorizzazione del titolare dei diritti.

 La violazione dei diritti d’autore può passare attraverso un semplice link?

Il Tribunale delle Imprese di Roma, con sentenza n. 3512/2019 pubbl. il 15/2/2019, ha accertato la natura illecita della presenza su un profilo Facebook di collegamenti ipertestuali (links) che conducevano alla visione di due sequenze di immagini tratte dalla una serie animata trasmessa dalle reti televisive di RTI (società del Gruppo Mediaset) e segnatamente le immagini relative alla sigla iniziale.

La Corte romana ha dato atto dell’orientamento  della Corte di Giustizia UE in materia di violazioni dei diritti autorali commessi attraverso la tecnica del linking: “Sul carattere illecito della pubblicazione di link di collegamento a portali terzi, in assenza di qualsiasi preventiva autorizzazione del titolare, si è più volte espressa anche la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che “l’atto di collocare un collegamento ipertestuale verso un’opera illegittimamente pubblicata su Internet costituisce una ‹‹comunicazione al pubblico›› ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 1, della direttiva 2001/29” (sentenza del 26 aprile 2017 relativa al caso C-527/15 e che “la messa in rete di un’opera protetta dal diritto d’autore su un sito Internet diverso da quello sul quale è stata effettuata la comunicazione iniziale con l’autorizzazione del titolare del diritto d’autore deve essere qualificata come messa a disposizione di un pubblico nuovo di siffatta opera” (sentenza del 7 agosto 2018 relativa al caso C-161/17).

Le sentenze su citate sono infatti due delle più recenti decisioni della Corte di Giustizia UE con cui sono state chiarite le condizioni in presenza delle quali la messa a disposizione del pubblico di opere protette tramite la pubblicazione di cc.dd. hyperlink deve ritenersi illecita: essa, infatti, in assenza di specifica autorizzazione da parte del titolare dei diritti costituisce atto di comunicazione dell’opera “verso un pubblico nuovo perché diverso da quello in origine autorizzato dall’attrice.

Ed infatti i link pubblicati attraverso la pagina Facebook conducevano non a materiali pubblicati dalla stessa RTI, bensì a materiale pubblicato attraverso un sito terzo (YouTube) non autorizzato da RTI alla diffusione dei materiali audiovisivi in questione”. 

Quindi le responsabilità di Facebook comprendono anche condotte omissive?

Nello specifico la Sezione Impresa della Corte romana ha riconosciuto la responsabilità della Facebook Inc. “per aver concorso, quantomeno con condotta omissiva, alle violazioni poste in essere dagli utenti che hanno fattivamente creato il profilo Facebook in contestazione”.

Infatti i giudici hanno considerato che secondo la CGUE “anche in riferimento al semplice prestatore di un servizio dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio medesimo (cd. Hosting passivo), va esclusa l’esenzione di responsabilità prevista dall’art. 14 della Direttiva 31/2000 quando lo stesso “dopo avere preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detti destinatari, abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi” così sancendo il principio secondo il quale la conoscenza, comunque acquisita (non solo se conosciuta tramite le autorità competenti o a seguito di esplicita diffida del titolare dei diritti) dell’illiceità dei dati memorizzati fa sorgere la responsabilità civile risarcitoria del prestatore di servizi (sentenza del 23.3.2010, relativa alle cause riunite da C-236/08 a C-238/08 Google es. Louis Vuitton). 

Occorre ragionare con le classiche categorie del diritto civile, e porsi il problema del grado di diligenza nel trattamento delle informazioni?

La Corte romana ha altresì richiamato il considerando 48 della direttiva 2000/31, il quale prevede la possibilità, per gli Stati membri, di “chiedere ai prestatori di servizi che detengono informazioni fornite dai destinatari del loro servizio, di adempiere al dovere di diligenza che é ragionevole attendersi da  loro  ed è previsto  dal  diritto  nazionale,  al  fine  di individuare e prevenire taluni tipi di attività illecite”.

Ne segue che “la conoscenza dell’illiceità dei dati memorizzati, comunque acquisita (anche mediante un’informazione fornita dalla persona lesa), fa sorgere la responsabilità civile e risarcitoria del prestatore di servizi”. L’inerzia protratta in modo ingiustificato è sempre fonte di responsabilità, indipendentemente ed ancor prima dall’esistenza di un ordine dell’Autorità, come ripetutamente affermato dalla Corte di Giustizia.

Quindi, a prescindere dal ruolo svolto nel caso concreto da Facebook, “anche il cd. hosting provider passivo non appena ricevuta la notizia dell’illecito commesso dai fruitori del suo servizio, deve attivarsi  al  fine  di  consentire la  pronta rimozione  delle  informazioni illecite  immesse sul sito  o  per impedire l’accesso ad esse, in quanto egli é tenuto a svolgere la propria attività economica nel rispetto di quella diligenza che è ragionevole attendersi per individuare e prevenire le attività illecite specificamente denunciate”. 

La indicazione della Url “incriminata” potrebbe bastare?

Sotto questo profilo Facebook ha contestato l’idoneità delle diffide trasmesse da RTI, sostenendo che le stesse non fossero sufficientemente dettagliate in quanto non contenevano gli URL dei contenuti censurati. Tale difesa è stata ritenuta dalla Corte “del tutto priva di pregio giuridico”.

Secondo il Collegio giudicante “l’indicazione dell’URL costituisce un dato tecnico che non coincide con i singoli contenuti lesivi presenti sulla piattaforma digitale, ma rappresenta soltanto il “luogo” dove i contenuti sono reperibili e, quindi, non costituisce un presupposto indispensabile per la loro individuazione”.

 

 

 

 

 

 

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