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In memoria del Prof. Giorgio Cian, Maestro e illustre giurista. Intervista al Prof. Stefano Delle Monache.

Quest’estate, il 7 agosto 2022, è venuto a mancare Giorgio Cian. Maestro illustre, giurista, allievo di Alberto Trabucchi con cui condivise iniziative scientifiche e didattiche a servizio della giustizia. Per 30 anni Professore ordinario di diritto privato e diritto civile nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara.

Oggi, secondo mesiversario dalla sua morte, lo ricordiamo intervistando il Prof. Stefano Delle Monache, ai tempi ricercatore universitario nelle attività della cattedra di Diritto Civile sotto la guida del Prof. Cian nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ferrara e successivamente membro del comitato dei collaboratori alla Rivista di diritto civile diretto e curato in passato dal Prof. G. Cian. Il Prof. Delle Monache è attualmente professore ordinario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Padova, dove è titolare del corso di Diritto privato e Critica del diritto.

 

Il Prof. Giorgio Cian

 

Ci parlerebbe della figura umana e professionale del Prof. Giorgio Cian, quale studioso anche dotato di una spiccata capacità di divulgazione scientifica?

Il Prof. Cian era uno studioso di grande rigore. La sua argomentazione, sempre serrata e nitida, era basata su una conoscenza profonda delle tematiche indagate. E questa conoscenza certo non riguardava soltanto il nostro ordinamento giuridico e i suoi formanti, ma si estendeva invece alle esperienze di tutti i maggiori sistemi della civiltà occidentale.

Era sorprendente ascoltarlo alle lezioni di diritto comparato a Ferrara, nelle quali, proprio per questa sua cultura poderosa, sapeva tener viva l’attenzione degli studenti Erasmus provenienti da vari paesi europei.

La profondità del suo pensiero sui fenomeni giuridici è stata tale da avergli impedito, a volte, di portare a compimento lavori ai quali pure si era dedicato, ma che gli erano sembrati, paradossalmente, superiori alle sue forze. La sua figura umana era dunque caratterizzata da tratti di modestia e perfino di timidezza, che si celavano dietro a un atteggiamento austero e che poteva sembrare severo.

Del resto, benché fosse un oratore fine ed elegante, non svolgeva alcuna relazione congressuale che non fosse guidata da un testo scritto, preciso e completo. Una volta, timidamente, provai a dirgli che un discorso a braccio, almeno in talune occasioni, sarebbe potuto risultare più efficace. Ma non fu un tentativo, il mio, coronato da successo. E in effetti i suoi interventi erano così articolati che proporli in modo colloquiale avrebbe significato svilirli.

Nell’ambito della divulgazione scientifica fu un vero pioniere. Il codice civile commentato Cian-Trabucchi nasce da una sua iniziativa. E ha avuto, assieme agli altri volumi della collana, uno straordinario successo editoriale. Tanto che all’estero, negli ambienti accademici, si tende quasi a identificare il nostro codice con quel fortunato commentario.

Esso costituisce ancor oggi, pur in un mondo dell’editoria giuridica che è del tutto cambiato, un’opera fondamentale, non solo per il pratico, ma anche per lo studioso del diritto, che voglia gettare un primo sguardo su un istituto che magari meno conosce. E se questo è un qualcosa che diamo ormai per acquisito, si provi a immaginare, tuttavia, quale sforzo dev’essere stato quello intrapreso per mettere in pista la prima edizione del commentario, che risale agli anni ’80 del secolo scorso. Il Prof. Cian me ne parlava con nostalgia, riferendosi a un’epoca che per lui era stata, evidentemente, di grande impegno creativo.

 

 

Il Prof. Giorgio Cian era profondamente appassionato di letteratura tedesca, qual era la visione che aveva della razionalità del diritto?

Il Prof. Cian era noto, non solo in Italia ma anche in Germania, per la sua grande conoscenza del diritto e dell’esperienza giuridica tedesca. Era fortemente attratto da quel mondo, come risultava evidente, fin dai primi colloqui, ad ogni suo allievo. Quando lo conobbi, da giovane dottorando, non usò molti giri di parole per sollecitarmi allo studio della lingua tedesca: “Senza questo strumento – mi disse – lei rimarrà sempre claudicante nella sua attività di ricerca”.

Nella letteratura novecentesca degli autori classici, da von Tuhr a Flume e Larenz, ma ancor prima nel percorso culturale e scientifico che condusse, attraverso la Pandettistica, alla codificazione della fine dell’800, egli vedeva il più riuscito tentativo di fondare l’esperienza giuridica su criteri di razionalità. In tempi come i nostri, nei quali sembrano prevalere ormai altre istanze, che focalizzano nell’interpretazione il compito del giurista – e in un’interpretazione guidata, fondamentalmente, da valori e principi generali –, si vorrebbe sbrigativamente ridurre a vuoto concettualismo l’atteggiamento di chi, invece, intende il diritto come fenomeno di natura pur sempre ordinante. Ma con ciò perdendo di vista che la razionalità, come metodo per la costruzione di un sistema, costituisce a sua volta un valore.

Credo che il Prof. Cian si sentisse attratto dal mondo giuridico tedesco per ragioni di questo tipo. La tensione verso la razionalità, del resto, si inscriveva perfettamente nella sua sostanza umana. Era certamente un uomo anche di fede, e non portato, quindi, al relativismo, ma tendente a ricercare ciò che di buono e di vero v’è nelle cose. Un uomo che dunque non poteva non intendere il diritto come un’esperienza da costruire secondo criteri razionali, in modo da tenerla al riparo dall’arbitrio individuale.

Bisogna infine considerare che Giorgio Cian era un grande appassionato di storia e della storia di Roma in particolare. La Scuola storica di Savigny, con la rielaborazione e la messa a sistema dello ius commune, non poteva che esercitare su di lui un grande fascino.

 

 

Ci parlerebbe di un episodio significativo che possa rimandare al Prof. Giorgio Cian come Maestro e al suo legame con l’Università?

Il Prof. Cian amava profondamente l’Università. Non si è mai accostato, durante tutta la sua vita, alla professione forense. Una volta mi raccontò che, da giovane praticante dopo la laurea, si era presto reso conto che, quando gli veniva assegnato un caso da studiare, più che verso la ricerca delle soluzioni operative egli si sentiva attratto dall’approfondimento dei problemi, magari anche soltanto di natura teorica, che il caso stesso presentava. Del resto non gli erano mancate le occasioni, anche in età matura, di assumere impegni di natura professionale, specie nell’ambito degli arbitrati. Ma aveva sempre rifiutato, mantenendosi fedele alla vocazione di accademico, l’unica che sentiva come sua. Accademico nel senso più grande e nobile cui il termine rimanda, quello di una comunità intellettuale e culturale, votata al progresso nel sapere e alla sua trasmissione.

Con i propri allievi, infatti, era molto generoso. Ad essi dedicava una parte notevole del suo tempo. Era sempre disponibile a confrontarsi con loro. Ricordo molti nostri incontri, dedicati ad approfondire temi che a me stavano a cuore per via delle ricerche che, man mano, conducevo. Erano incontri che potevano durare anche ore, non di rado per una mezza giornata. Incontri che si svolgevano persino durante il periodo delle sue vacanze, a Lignano o ad Asiago.

Mostrava sempre una grande apertura con i propri allievi, favorendo il loro percorso verso l’autonomia e la completa maturazione.

Ricordo un episodio capitato durante il concorso in cui divenni professore di seconda fascia e che mi pare assai eloquente circa il suo modo di intendere il rapporto con gli allievi. Il Prof. Cian, nell’occasione, era anch’egli membro della commissione giudicatrice. Al momento della discussione dei titoli scientifici, egli esordì così: “Il dott. Delle Monache ha scritto un saggio sulle cui conclusioni io dissento completamente!”. Come si capisce, non è questo certo un modo che possa mettere a suo agio il candidato in un concorso a cattedra. E francamente si sarebbe potuto pensare che il Prof. Cian intendesse manifestare una presa di distanza da quel candidato, che pure era suo allievo.

Il senso di quell’espressione era però del tutto diverso, come mi fu chiaro, nonostante il pizzico di preoccupazione che essa comunque destò in me. Egli voleva valorizzarmi, mettendo in evidenza che nel mio percorso di ricerca mi ero ormai reso indipendente.

 

Intervista a cura di Valeria Montani

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