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L’uso alternativo del diritto, oggi

di

Nicolò Lipari

SOMMARIO: 1. Il convegno del 1972 sull’uso alternativo del diritto e il tentativo di una lettura in chiave marxista del processo applicativo del diritto. In particolare sul ruolo della giurisprudenza. – 2.  L’elaborazione culturale innescata dal convegno. In particolare, la rilevanza dei principî costituzionali e l’essenziale funzione politica del giurista-interprete. – 3. La reazione negativa della dottrina ufficiale all’uso alternativo del diritto. – 4. Le posizioni di quanti avvertivano l’irreversibilità del processo di progressiva giurisdizionalizzazione del diritto.  – 5. L’ottica dell’uso alternativo del diritto all’interno di una lettura di segno ancora positivista. – 6.  La nuova realtà del diritto vivente e l’impossibilità  di qualsiasi alternativa rispetto ad esso. Il retaggio positivo dell’esperienza sull’uso alternativo del diritto e il superamento della giuridicità come politica dei diritti.

 

  1. Il convegno del 1972 sull’uso alternativo del diritto e il tentativo di una lettura in chiave marxista del processo applicativo del diritto. In particolare sul ruolo della giurisprudenza.

L’espressione “uso alternativo del diritto” ha in Italia una sua precisa storia. Fu coniata da Pietro Barcellona quale principale organizzatore di un convegno svoltosi, sotto questo titolo, a Catania nel maggio del 1972 e al quale parteciparono giuristi e magistrati della generazione che allora si affacciava ad una significativa esperienza nell’accademia e nella società[1].

La tesi di fondo proposta dagli organizzatori ed offerta al dibattito era quella di un’applicazione all’esperienza operativa del diritto dell’analisi marxista. Muovendo dal presupposto che il contrasto tra i diversi orientamenti interpretativi si andava trasformando sempre più esplicitamente in una verifica di politiche del diritto e dopo aver constatato che i tradizionali postulati della democrazia economica (il mercato della libera concorrenza)  e della democrazia politica (il parlamento come luogo di formazione della volontà generale e di esercizio del potere legislativo) apparivano nettamente smentiti e trasformati, con la conseguenza che la realtà esperienziale dimostrava l’assoluta insufficienza delle tradizionali categorie concettuali del diritto eguale generale ed astratto[2], si affermò la necessità di modificare il tradizionale modo di fare diritto. Così si esprimeva Barcellona nell’introduzione alla pubblicazione degli atti: “Le categorie giuridiche, presentate come elaborazioni concettuali indipendenti dai condizionamenti storici, finiscono con l’essere uno strumento per la ‘valorizzazione’ dei rapporti di potere esistenti, finiscono cioè con il valorizzare la realtà così com’è, impedendo di fare qualsiasi critica del modello di sviluppo sociale. Astrazione e sussunzione sono i procedimenti per mezzo dei quali i modelli prodotti dalla base materiale, dalla prassi sociale continuano a ordinare la realtà del presente: il nostro passato governa così il presente e il futuro”[3]. Da qui la proposta di un uso alternativo del diritto, cioè di un necessario indirizzo del procedimento applicativo secondo una scelta, quella in favore delle classi subalterne, che si assumeva “già operata dalla costituzione repubblicana”[4]. Riassumendo le tesi emerse nel corso del convegno Barcellona distingueva la posizione di coloro che collocavano il luogo o momento privilegiato dell’uso alternativo del diritto nell’innovazione legislativa[5], da quella di chi invece aveva fatto più espresso riferimento all’esercizio delle autonomie locali e dei poteri di autodeterminazione collettivi[6]  e ancora da quella di quanti avevano mostrato di far leva quasi esclusivamente sul potere giudiziario (magari ipotizzando “processi di rottura”)[7]. E’ stata soprattutto quest’ultima posizione ad accentrare l’attenzione del dibattito, sia perchè ha rappresentato il supporto culturale delle tesi più estreme assunte da “Magistratura democratica”, la corrente di sinistra della magistratura organizzata, sia perché, sulla base di un quadro storico-materialista del  fenomeno giuridico, poneva l’accento, nell’ottica dell’art. 3 cpv. della costituzione, sulla necessità di indirizzare l’opera del giurista lungo l’asse della promozione e della protezione degli interessi dei ceti marginali, liberandolo dai condizionamenti di un procedimento argomentativo di segno esclusivamente logico-analitico[8].

Va comunque segnalato, per una corretta ricostruzione storica della vicenda, che, per quanto attiene al ruolo della giurisprudenza, l’operazione proposta non intendeva negare l’essenzialità del momento legislativo. Ferrajoli che, nel quadro del convegno, assunse una delle posizioni più radicali, espressamente affermò  che “essa, lungi dall’essere disapplicazione della legge, è semmai una giurisprudenza tecnicamente più fondata e argomentata della giurisprudenza conformistica d’ispirazione autoritaria”[9]. Naturalmente vi fu anche chi sostenne che una rivoluzione tutta combattuta sul versante dell’interpretazione era inesorabilmente destinata al fallimento perchè le categorie concettuali erano ormai intrise di una ideologia che sarebbe stato impossibile sovvertire senza modificare radicalmente i modelli socio-culturali prevalenti e riflessi nelle strutture dei codici, conseguentemente invocando che il giudice avesse “il coraggio di vivere politicamente anche il proprio mestiere di giudice e non preoccuparsi continuamente di dare a  ritroso una veste giuslegalistica alle proprie attività”[10].

Fu comunque merito di quella stagione aver scoperto e razionalizzato l’essenziale funzione politica del diritto in generale e della sua applicazione pratica in particolare[11]. Luigi Lombardi Vallauri intitolava un suo corso universitario “La scienza giuridica come politica del diritto”[12] e nell’introduzione testualmente affermava (facendo giustizia di tutti i vecchi postulati sul procedimento di tipo sillogistico) che l’attività del giurista, data l’inevitabile incompletezza del dato positivo, “è attuazione-integrazione critica del diritto, ossia appunto ‘politica del diritto”[13]. Secondo la linea che trovava nel corso una articolata dimostrazione, “l’affermazione di uno spazio di libertà, responsabilità, vocazione aperto al giurista non è espressione di un desiderio, non è rivendicazione corporativa: si tratta di uno spazio oggettivamente già dato, tecnicamente insopprimibile, non da rivendicare ma da accettare”[14], giungendo alla conclusione che “la giurisprudenza, come politica del diritto, è dunque, oltre che conoscenza del diritto positivo, necessariamente e inscindibilmente, filosofia, tecnica giuridica e sociologia”[15]. Giustamente Giovanni Tarello osservava che, negli anni dell’immediato dopoguerra, lo spartiacque sulla funzione politica del giurista-interprete era stato “costituito  dall’alternativa tra l’uso maggiore possibile e l’uso minore possibile della costituzione, e, correlativamente, l’uso minore possibile e l’uso maggiore possibile della legislazione previgente”[16]. La posizione culturale volta ad evidenziare l’essenziale politicità del processo applicativo del diritto conduceva ad emersione ciò che era rimasto troppo a lungo sotteso, che cioè definire apolitica l’operazione interpretativa del giurista significava solo riconoscere che essa era semplicemente politica in modo conforme all’ordinamento in quel momento prevalente[17].

  1. L’elaborazione culturale innescata dal convegno. In particolare, la rilevanza dei principî costituzionali e l’essenziale funzione politica del giurista-interprete.

L’elaborazione culturale innescata dalla riflessione sull’ “uso alternativo del diritto” ha condotto ad acquisire due dati che, nonostante persistenti resistenze, possono ritenersi ormai patrimonio comune della nostra esperienza giuridica. Il primo, più pacifico, riguarda la completa vigenza nell’ordinamento giuridico (e nella società che questo dovrebbe orientare) dei valori sanciti nella carta costituzionale, definitivamente superando il modello di una costituzione esclusivamente volta a fornire linee di indirizzo al legislatore e creando le premesse di quella Drittwirkung dei principî costituzionali, che oggi deve ritenersi traguardo pacificamente acquisito[18]. Il secondo, che continua ad incontrare resistenze negli stereotipi attraverso i quali la funzione del diritto viene trasmessa dai mass-media, riguarda invece l’essenziale funzione politica del giurista-interprete, sia esso teorico o giudice. E’ ovvio che non può trattarsi di una visuale politica del tutto personale ed utopica, ma semmai – liberandosi da ogni concezione pangiuridicistica, che eleva il diritto a punto di riferimento esclusivo, aprioristico e astorico, di ogni valutazione del reale – di un modo di raccordare il processo applicativo del diritto alla concretezza dell’esperienza sociale[19]. Ben prima del convegno catanese una voce certo non accusabile di estremismi rivoluzionari quale quella di Sergio Cotta aveva ammonito che “la legge ha bisogno, per essere efficacemente applicata, di venire intesa nelle sue ragioni, di venir corroborata dalla dimostrazione continua e puntuale, non presunta una volta per tutte, aprioristicamente, della sua rispondenza al sentire comune, o meglio più diffuso, più corroborato dai consensi della collettività. Deve, in altri termini, venire interpretata non già mediante un’ermeneutica puramente logica o puramente interna  al sistema del suo profilo dogmatico […]. Solo in tal modo la legge di una società pluralista, qual è la società umana, risulterà democratica”[20]. E’ chiaro che, nel momento in cui si afferma che l’interpretazione deve tener conto del “sentire comune”, degli indici  di valori diffusi e condivisi, che quindi la chiave del procedimento interpretativo  è fuori (non dentro) il sistema degli enunciati, si rompe  ogni paradigma di segno formalistico e deduttivo e si indica la natura essenzialmente politica dell’attività del giurista, almeno nel senso minimo in cui la politica è “l’arte della conciliazione”, che tende a rievocare punti di convergenza al di fuori di ogni imposizione[21]. Giustamente è stato evidenziato che lo stesso principio democratico va misurato non con riferimento  al momento di posizione del precetto, ma con riguardo al momento della sua applicazione[22].

In altri termini, al di là delle forzature di segno marxista, il convegno catanese rompeva le sedimentazioni di una vecchia cultura (purtroppo ancora radicata nelle nostre aule universitarie) e affermava l’essenziale funzione del diritto come pratica sociale, chiarendo che la sua capacità di regolare le azioni umane è affidata non a soluzioni monologiche e assolutistiche, ma ad una intersoggettività del comprendere che è garantita e controllata all’interno di quel contesto comunitario nel quale il diritto viene necessariamente elaborato e vissuto[23]. E’ chiaro che, se si dovesse ritornare – e da qui la persistente utilità di quei riferimenti culturali – alla logica positivistica di un diritto le cui procedure applicative si caratterizzano e si giudicano in chiave esclusivamente logica, allora non si potrebbe non convenire con la celebre affermazione di Max Weber, secondo il quale il legame tra il diritto e gli accadimenti  concreti che caratterizzano la vita di una comunità si configura come un non rapporto[24]. In sostanza – e si tratta, a mio avviso, di una conclusione ormai inesorabilmente acquisita – è proprio “entro il denso e vischioso magma dell’interazione sociale che il discorso giuridico prende forma, viene letto, usato, produce i suoi effetti”[25].

  1. La reazione negativa della dottrina ufficiale all’uso alternativo del diritto.

Ad ogni modo, se si deve a ritroso prender atto di quelli che sono stati gli immediati riflessi sulla nostra cultura accademica del sintagma “uso alternativo del diritto”, si deve riconoscere che esso suscitò un coro di autorevoli voci dissenzienti.

Durante il convegno di Taormina del novembre 1981, organizzato per celebrare i cinquant’anni della casa editrice Giuffrè, Rosario Nicolò, tratteggiando il panorama di mezzo secolo di diritto civile, bollava  l’esperienza dell’uso alternativo del diritto come incapace di conseguire risultati men che “modesti, in quanto si è assistito alla ripetizione di cose risapute, inidonee a consentire l’acquisizione di risultati pratici o concreti”. Secondo l’illustre autore, il socialismo giuridico ancora una volta non sarebbe “riuscito a tradursi giuridicamente, proprio perché il diritto, in quanto dato positivo, e la giurisprudenza, in quanto scienza pratica, incontrano un invalicabile limite nella norma, che la dottrina può criticare, interpretare in maniera evolutiva, ma non mutare”, con la conseguenza quindi che “quando la norma viene analizzata da prospettive fortemente ideologiche, non si può andar oltre la sua critica”[26].

Nella stessa occasione un altro maestro del diritto civile del secolo scorso, Francesco Santoro Passarelli, così si esprimeva: “Spetta ad altre attività dello spirito, alla filosofia, alla politica, alla sociologia del diritto stabilire ciò che è giusto al di là del diritto, o razionale o  conveniente. Il giurista può mettere a frutto la sua esperienza giuridica per contribuire alla realizzazione della giustizia o di un assetto più razionale o più conveniente, ma con la chiara consapevolezza, che va oltre il suo compito di giurista, cioè di interprete. Alla stregua di questa convinzione il c.d. uso alternativo del diritto o  diritto alternativo non trova per sé una giustificazione”[27].

Non è chi non veda come vi fosse al fondo di affermazioni di questo tipo il riflesso di una cultura rigidamente positivistica (il diritto appunto inteso come “dato positivo”), incapace di raccordare la giuridicità alle altre scienze dell’uomo. Si delineava in queste motivazioni, chiaramente, la distinzione tra le due diverse immagini del giurista nella società, come conservatore-trasmettitore di regole già date, da una parte, e come creatore di regole trasformatrici dall’altra, in rapporto alla distinzione tra sistemi chiusi e sistemi aperti[28]. A posizioni  di questo tipo, allora ancor più radicate di oggi nella cultura accademica, dava un supporto filosofico Uberto Scarpelli affermando che “il giurista deve essere fedele e leale verso il diritto stabilito”; “il giurista che studia  ed applica il diritto stabilito deve aver rispetto per i significati e per la logica del linguaggio in cui le norme del diritto sono espresse” e, quando significati e logica rimangano incerti, lo sforzo del giurista deve essere quello di “restare fedele ai valori ispiratori del sistema”[29]. Da qui due ineludibili conseguenze: “che il giudice che si svincola dalla legge è il portatore di un potere autocratico […], un piccolo despota, benché certo nel caso del giudice progressista un despota illuminato”[30], e che “le questioni relative al metodo giuridico vanno impostate come sottosistemi del problema della legislazione”[31].

Indicativa della crisi sottesa a quel passaggio storico fu la posizione di Salvatore Satta, proposta già nella relazione inaugurale al congresso dei giuristi cattolici del 1970. Egli, dopo aver riconosciuto – nella logica di una impostazione che aveva da sempre caratterizzato la sua teoria sul rapporto tra norma e giudizio – che “il giudice nell’interpretazione non si inserisce come un momento del tutto passivo rispetto ad una norma esterna ed estranea ad esso, ma è la norma stessa che si rifà nel concreto, e nel concreto si fa quel che con termine antico ed eterno chiamiamo giustizia”[32], afferma che “l’’usurpazione della legge da parte di un giudice è un atto di orgoglio, di satanica disubbidienza”, perché la legge, anche la più ingiusta, è l’espressione di una volontà storica, ottenuta attraverso mille sacrifici, e in primo luogo il sacrificio della nostra individualità, l’offerta, diciamo meglio, della nostra individualità al bene o, alla speranza del bene comune[33]; e arriva addirittura ad opporsi alla posizione di quei giudici che ritengono di essere soggetti “soltanto alla legge costituzionale e poi  alle leggi  ordinarie in quanto compatibili con la costituzione”[34]. Va comunque ricordato – sintomo di un momento significativo di crisi anche nelle posizioni dei maestri più autorevoli – che Satta era considerato come uno degli ispiratori teorici delle posizioni meno formaliste. Lo riconosce egli stesso nella prefazione all’ottava edizione del suo, tuttora  prezioso, manuale[35], laddove,  pur ribadendo la convinzione che “le norme ed il giudizio formano una indissolubile unità, che il giudizio è creativo e nel giudizio, cioè nel fatto, si trova la vera norma”[36], fa una pesante autocritica affermando che la sua  posizione “è stata il filtro attraverso il quale è passata la politica nell’esercizio della giurisdizione”[37]. Ci sarebbe semmai da chiedersi, alla luce delle consapevolezze di oggi, quale delle due posizioni di Satta abbia finito, alla lunga, per prevalere.

La crisi di Satta può semmai essere assunta ad indice di un altro dato, che oggi può essere chiaramente affermato al di là delle reazioni dei contemporanei alle provocazioni di coloro che utilizzarono la formula dell’”uso alternativo del diritto”. Va detto infatti che, se questo viene assunto come indice di un atteggiamento antiformalista, allora bisogna riconoscere che esso non è esclusivamente riconducibile alla dialettica di classe propria del materialismo storico. E’ stato giustamente osservato[38] che i primi a mettere in discussione l’obbligo del giudice di attenersi alla legge erano stati proprio i giuristi cattolici, “che lo avevano vincolato prima che ad essa al diritto naturale”[39]. A ben vedere, entrambe le posizioni finiscono per manifestarsi in chiave di reazione al modello dello Stato liberale, che intende il diritto come “la positivizzazione di una norma razionale, valida intrinsecamente in relazione ai fini permanenti della vita sociale e non indirizzata a fini politici contingenti”[40].

  1. Le posizioni di quanti avvertivano l’irreversibilità del processo di progressiva giurisdizionalizzazione del diritto.

Peraltro, accanto a queste posizioni rigide, ancora legate ad una linea di pensiero destinata inesorabilmente ad esaurirsi, altre ve ne erano, anche al di fuori di coloro che parteciparono al convegno catanese, che avvertivano ormai chiaramente la funzione lato sensu creativa del procedimento interpretativo e, pur senza assumere programmaticamente le esigenze rivoluzionarie sottese all’ipotesi marxista[41], trovavano nel secondo comma dell’art. 3 della nostra costituzione lo spunto ricostruttivo per superare i vecchi paradigmi di un diritto privato di segno prevalentemente proprietario, liberandolo dall’etichetta di essere semplice riflesso dell’egoismo e di un gretto individualismo[42].

Comincia innanzitutto ad avvertirsi la necessità di superare, nel procedimento interpretativo, gli schemi della logica classica risolvendolo in una teoria dell’argomentazione[43], al contempo riconoscendo l’esigenza di abbandonare i tradizionali paradigmi sul ruolo del giudice[44]. Le voci sono state le più diverse e non è il caso di fornirne qui un elenco completo[45]. Vi è stato chi ha fatto appello alla “natura delle cose” e,  più ampiamente, ai principî generali del diritto come meccanismo idoneo a trasferire “la valutazione giuridica dei fatti dal legislatore al giudice, che [alla] realtà può più facilmente ed efficacemente adeguarsi”[46], o chi, rifiutando l’ottica formalistica di una interpretazione puramente conoscitiva, ha richiamato la “coscienza” dell’interprete, che non è semplice conoscenza di norme, ma capacità di rendere esplicito ciò che è “implicito nel cosmo giuridico, cioè anche […] principi che stanno dietro alle leggi”[47]. Si faceva ormai strada la convinzione che “il diritto deve essere ricercato nella effettività della regola così come è accolta dai consociati”[48], riconoscendosi che “proprio nella concreta conversione delle singole decisioni  in operanti criteri di condotta e di decisioni future può ravvisarsi […] un’autonoma fonte di diritto”[49]. In sostanza, l’operazione denominata “uso alternativo del diritto” finiva per perdere gran parte della sua pretesa istanza rivoluzionaria[50] per collocarsi all’interno di una cultura giuridica che riconosceva all’un tempo la necessaria politicità dell’attività giuridica e il ruolo non meramente passivo e dichiarativo del giudice interprete.

Dal primo punto di vista ha osservato giustamente Bobbio che egualmente politica è la rappresentazione di coloro che si richiamano alla fedeltà alla legge, che non viene rappresentata – il che implicherebbe  di cadere nel c.d. positivismo etico[51]  – come valore in sé, ma è funzionale alla conservazione di un certo assetto di potere. La politicità non può essere intesa come visuale partigiana perché la “giustizia partigiana” sarebbe un ossimoro. Chi predica di sé la propria apoliticità ritiene di essere tale perché si colloca lungo itinerari maggioritari[52]. Ciò che accomuna i due opposti atteggiamenti (l’uso alternativo e la fedeltà alla legge) è la riduzione del diritto a strumento a disposizione di forze ad esso esterne[53].

D’altra parte il perentorio riconoscimento della giurisprudenza come fonte del diritto era ormai un risultato acquisito alla cultura giuridica dopo il bellissimo saggio di Luigi Lombardi Vallauri[54], il quale esplicitamente intende la legge come semplice “punto di partenza dell’interpretazione, come nucleo del diritto quale interpretato, come elemento delimitante, sia pure in modo approssimativo, l’ambito entro il quale la libertà dell’interprete può (deve) esercitarsi”[55]. La legge è cioè “autoritativa, ma solo come nucleo o quadro o progetto della norma ‘legale’ in atto”[56].

Per dimostrare che l’evoluzione della cultura giuridica in senso antilegalista era ormai svincolata da ogni connotazione di segno marxista e che quindi doveva ritenersi superato il presupposto da cui muoveva l’ipotesi di un uso alternativo del diritto, cioè la persistente operatività del sintagma “assolutismo giuridico”, espressivo di un modo di intendere la produzione del diritto quale esclusivo monopolio del potere politico[57], basta, ancora una volta, richiamare il nome di Sergio Cotta. Nel quadro di un volume inteso a delineare una lettura dei tempi nuovi[58], egli nega il ruolo dell’interprete come mero “traduttore giuridico” della volontà politica del potere sovrano[59] e contesta la posizione di “autorevoli giuristi che continuano ad additare come l’unica buona la strada del formalismo”, di fronte ad una realtà che determina il sorgere di un diritto spontaneo accanto a quello legale, che impone la ricerca di una costituzione materiale sotto quella formale, che implica il recepimento dei valori politico-sociali nel sistema normativo[60]. Cotta riconosce come necessario “attribuire al giurista, e in primo luogo al giudice, la responsabilità del continuo completamento e aggiornamento del sistema normativo”[61]. Di fronte all’opera del legislatore “il compito delicatissimo ed essenziale di completare [le] strutture e [le] decisioni con opportune disposizioni normative, in modo da assicurare l’armonia funzionale dell’edificio, non può che spettare al giurista”[62]. In definitiva, sul piano giuridico la realtà sempre in movimento dello sviluppo respinge in maniera molto netta il sistema del codice e richiede un apparato normativo più elastico, nel quale il “costruito predisposto dal legislatore,  se non vuol risultare sterile o addirittura dannoso, deve lasciare sempre largo spazio al costruibile[63].

  1. L’ottica dell’uso alternativo del diritto all’interno di una lettura di segno ancora positivista.

Se tuttavia si ripercorre la vicenda teorica dell’uso alternativo del diritto alla luce delle acquisizioni di oggi sarebbe insufficiente ridurlo ad un momento, sia pure significativo, del processo di progressiva consapevolezza di quella giurisdizionalizzazione del diritto che ormai deve ritenersi, al di là di persistenti ma antistoriche resistenze[64], patrimonio acquisito della nostra esperienza  giuridica. A ben vedere, il paradigma dell’uso alternativo del diritto, mentre scuoteva alle fondamenta l’assetto della democrazia liberale di stampo ottocentesco, si collocava pur sempre all’interno di un’ottica di segno positivista asserendo che il diritto non è altro che un ordinamento coattivo[65]. L’uso alternativo del diritto, cioè, pur demistificando alcune funzioni della giustizia borghese come il mito della certezza del diritto di stampo illuminista o come il principio della generalità ed astrattezza del diritto, che garantirebbe l’eguaglianza dei cittadini e, più in generale, la presunta imparzialità della legge, “non arriva ad insidiare la concezione, positivistica, della funzionalità del diritto rispetto al potere”[66].

In altri termini, la formula “uso alternativo del diritto” assumeva ancora, secondo i postulati del positivismo, il diritto come un dato acquisito, definito, posto. Rispetto a questo quadro oggettivo dai contorni determinati, suscettibile solo di modifiche dall’alto nel contesto della consueta dialettica parlamentare, era plausibile che si tentasse  (di fronte alle resistenze e alle difficoltà del quadro politico) di spostare a valle la lotta politica, impropriamente assegnandone l’attuazione a chi, secondo i vecchi paradigmi, sarebbe stato semplicemente chiamato ad un ruolo espressivo, dichiarativo, enunciativo di valori da altri posti o da altri, in ipotesi, formulati all’esito di una mediazione. Oggi, nel momento in cui si riconosce che il diritto è sempre necessariamente in fieri[67], che noi dobbiamo fare i conti con un “diritto vivente”, con un diritto cioè inteso costitutivamente  quale organismo vivo, mai riconducibile alla fissità di formule che risultino in ipotesi superate nel momento stesso in cui vengono enunciate[68], non ha più senso parlare, nemmeno come vocativo politico, di uso alternativo del diritto, perché ogni uso “alternativo” finirebbe a ben vedere per risolversi in un uso antistorico o paralizzante. Si dovrebbe semmai predicare un insegnamento alternativo del diritto, perché nelle nostre Università, mentre si leggono le sentenze della Corte costituzionale nelle quali espressamente e sistematicamente si dice che il giudizio di costituzionalità non può limitarsi a porre un rapporto fra testi, ma deve analizzare contesti (tanto è vero che può essere riproposta, a legislazione invariata, una questione di costituzionalità già dichiarata infondata), si continua tuttavia a praticare un insegnamento esclusivamente basato sull’analisi dei testi, non dei contesti[69].

In sostanza, dietro l’ipostasi  dell’uso alternativo del diritto c’era ancora il paradigma di un diritto inteso come struttura conchiusa sulla quale poteva agire solo chi quella struttura aveva concorso a costruire. Agli altri non era consentito se non appunto incidere  sull’uso, come chi, avendo assunto la guida di una macchina da altri costruita, decida di farle svolgere una funzione diversa rispetto a quella per la quale era stata programmata. Sul presupposto cioè che le classi subalterne, i soggetti deboli non avessero la forza sufficiente per incidere sul momento di posizione delle norme, si predicava la necessità di spostare il tentativo di riequilibramento degli interessi in conflitto al momento applicativo. Ci si riprometteva cioè di forzarne l’applicazione nella convinzione di non poter significativamente concorrere a determinare la formulazione del testo.

Alla “verità” del legislatore veniva contrapposta la diversa “verità” dell’interprete, e segnatamente del giudice, più sensibile alle speranze e alle attese dei soggetti esclusi. Finivano così per contrapporsi due dati anelastici, ciascuno dei quali legato ad un presupposto valutativo insuscettibile di verifica e comunque incapace di dialogare con la prospettiva dell’altro.

  1. La nuova realtà del diritto vivente e l’impossibilità di qualsiasi alternativa rispetto ad esso. Il retaggio positivo dell’esperienza sull’uso alternativo del diritto e il superamento della giuridicità come politica dei diritti.

Oggi invece si va facendo strada – sia pure faticosamente – la convinzione che il discorso giuridico, anche quello espresso nella decisione del giudizio, è un discorso persuasivo, indirizzato non ad una astratta comunità di individui razionali governati dalla struttura  monolitica di un ordinamento dato, ma semmai ad un  contesto storicamente individuato che si farà persuadere, nello scambio di un dialogo mai consegnato a formule definitive, in forza della convergenza su principî condivisi, su criteri di valore storicamente variabili[70], nel quadro di un dialogo che non consente di essere ricondotto al paradigma logico di un soggetto interpretante e di un oggetto dell’interpretazione. Grazie anche alle riflessioni di cinquant’anni fa, oggi diamo per scontati alcuni significativi passaggi: dalla norma statuita alla norma statuente, dallo jus positum allo jus in fieri, dalla formalità del diritto alla moralità del diritto. E si tratta di conquiste di non poco conto.

Se si ragiona in chiave di diritto vivente, nessun uso alternativo è possibile, perché l’alternativa alla vita è la morte. A ben vedere, la vera carica rivoluzionaria sta nella visione ordinamentale del diritto; rivoluzionaria perché si apre a quel pluralismo giuridico che l’imperante legalismo statalista negava[71].

Una volta riconosciuto che il diritto vivente non si contrappone ad un diritto valido, vengono meno gli stessi presupposti che hanno indirizzato il dibattito sull’uso alternativo del diritto. Il mero enunciato normativo è solo uno dei punti di partenza per l’operazione applicativa, che trae invece i suoi indici decisivi dal modo stesso di operare di un’intera collettività. A ben vedere, la recente scoperta del diritto vivente, che da noi è valsa a rompere le incrostazioni dell’ideologia della codificazione, ripropone risalenti intuizioni di chi ha da tempo predicato che il diritto non sta soltanto in un insieme di proposizioni linguistiche, ma nel modo d’essere di un’intera realtà sociale[72]. Da qui la necessità di spostare sul terreno dei modelli culturali diffusi l’incidenza di quei valori che i sostenitori dell’uso alternativo del diritto intendevano consegnare al terminale di una singola decisione giudiziale[73]. Nel momento in cui quei valori saranno diventati momento significativamente espressivo di una cultura diffusa, essi non potranno non penetrare nei procedimenti applicativi dell’esperienza giuridica, anche se un legislatore tardo o disattento non li avrà ancora tradotti in enunciati formali[74].

Ma forse, ripensando all’esperienza dell’uso alternativo del diritto si può dire ancora di più. Nel momento in cui risulta ormai definitivamente acquisito il dato della necessaria giurisdizionalità del diritto, non c’è più necessità (almeno nei termini in cui la si è intesa in passato) di postulare la giuridicità come politica del diritto, o meglio come politica dei diritti[75]. Non a caso si riconosce ormai pacificamente che i diritti fondamentali si affermano al di là di qualsiasi atto formale di posizione[76] e che essi richiedono l’interazione tra il consenso e la ragionevolezza, cioè tra indici ricavabili solo dal basso di una rilevazione sociale[77]. In questo senso va probabilmente colto il positivo retaggio di una stagione che ha certamente consentito un significativo progresso  della civiltà giuridica[78]. Nel momento in cui si riconosce che il diritto del postmoderno si connota  necessariamente in chiave di complessità, che è giocoforza liberarsi dalla rigidità di un dettato posto per far emergere la regola dalle peculiarità del caso[79], che compito primario del giudice è quello di realizzare la difficile opera di bilanciamento fra fattori destinati, di volta in volta, ad assumere ruoli diversi, non c’è più necessità che il giudice si renda paladino di un interesse o di un’istanza particolari, perché la sua funzione ormai si identifica nel perseguimento di un risultato condiviso (o comunque ritenuto accettabile) in chiave di valore. In tal modo i diritti, che, nel rispetto del criterio di proporzionalità, cadono nel bilanciamento, troveranno protezione solo se la loro tutela è conforme a giustizia[80]. Lo spostamento dell’asse portante dell’ordinamento dal legislatore all’interprete e quindi il coinvolgimento di quest’ultimo nell’individuazione di un diritto che continuamente si fa nell’evolversi dell’esperienza[81] richiede di liberarsi da ogni astrattismo filosofico o ideologico per imporre all’uomo di diritto una “lettura attenta della dinamica sociale così come la vive nella sua esistenza giuridica il comune cittadino, sia esso ricco o povero, potente o inerme, dotto o ignorante”[82].

In questa chiave si coniuga oggi l’idea di giustizia e alla sua attuazione hanno concorso, pur tra mille tensioni e contraddizioni, anche coloro che – in una stagione lontana, ma tuttavia ricca di stimoli e suggestioni – hanno coltivato l’utopia di un uso alternativo del diritto.

[1]     Gli atti del convegno sono stati pubblicati in due volumi editi da Laterza: P. BARCELLONA, a cura di, L’uso alternativo del diritto, I, Scienza giuridica e analisi marxista; II, Ortodossia giuridica e pratica politica, Roma-Bari, 1973. Una ricostruzione della vicenda culturale innescata da quel convegno è stata compiuta da M. COSSUTTA, Interpretazione ed esperienza giuridica. Sulle declinazioni dell’interpretazione giuridica: a partire dall’uso alternativo del diritto, Trieste, 2011. All’organizzazione del convegno partecipai, sia pure indirettamente, anch’io, non solo per la fraterna amicizia che mi legava a Pietro Barcellona, ma anche perchè avevamo programmato che gli atti del convegno sarebbero stati pubblicati nella collana “Critica giuridica e analisi sociale” da noi diretta e da poco inaugurata presso l’editore barese.

[2]    Cfr. P. BARCELLONA, Introduzione a I, Scienza giuridica e analisi marxista, cit., p. IX, dove la lettura dell’esperienza conduce inesorabilmente a verificare la crisi della mediazione giuridica, ormai divenuta anche crisi del giurista alla ricerca della sua perduta identità.

[3]     P. BARCELLONA, Introduzione, cit., p. XVI. Si era in una stagione in cui i giuristi  più avveduti e sensibili avvertivano come costrittive le categorie concettuali con le quali erano soliti operare, categorie quasi sempre considerate come entità oggettive entro le quali era necessario collocare i dati, necessariamente innovativi, dell’esperienza. Significativa era stata la riflessione che, pur partendo da diversi punti di vista, molti dei partecipanti al convegno avevano fatto sul tema del contratto. All’interno di un contesto in cui l’errore ostativo veniva equiparato all’errore motivo, la conoscibilità alla conoscenza delle condizioni generali di contratto nei contratti di serie, mancava qualsiasi tutela del contraente debole con conseguente accentuata protezione del produttore rispetto al consumatore. Veniva cioè tramandato il convincimento che il contratto di oggi fosse la stessa cosa di quello riconosciuto dal diritto romano, anzi che tutto il diritto privato non potesse che rappresentare una coerente evoluzione di quella tradizione; tanto è vero che nell’esame di accesso alla magistratura continuava ad essere imposto ai candidati (e così rimase ancora per anni) di trovare per ciascun istituto del diritto privato il necessario antecedente nel diritto romano. Si era cioè nel pieno di una stagione in cui il diritto era predicato, insegnato e prevalentemente avvertito come una struttura sostanzialmente anelastica entro la quale era giocoforza collocare le sopravvenienze. Non è senza significato  il fatto che, parallelamente alla riflessione catanese, si andava sviluppando il dibattito anche sul tema della formazione giuridica, siccome consegnata alla struttura dei manuali universitari. Va segnalato, a questo proposito, il lavoro di G. COTTURRI, Diritto eguale e società di classi. Per una critica dei manuali tradizionali, Bari, 1972, nel quale esplicitamente si svolge la tesi dell’impossibilità di “lavorare con i soli enunciati legislativi, da ordinare e ‘sistemare’”, perchè “il lavoro del giurista richiede un collegamento interdisciplinare” (p. 174).”

[4]     Cfr. L. FERRAJOLI, Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria, in L’uso alternativo del diritto, I, Scienza giuridica e analisi marxista, cit., p. 115. Nello stesso senso v. A. DI MAJO, Proposte per un avvio di discorso teorico sull’“uso alternativo” del diritto, in L’uso alternativo del diritto, II, Ortodossia giuridica e pratica politica, cit., p. 158.

[5]     Massimo esponente di questa posizione fu S. RODOTA’, Funzione politica del diritto dell’economia e valutazione degli interessi realizzati nell’intervento pubblico, in L’uso alternativo del diritto, II, cit., p. 229 ss.

[6]     In questo senso si espresse principalmente F. GALGANO, Uso alternativo del diritto privato, in L’uso alternativo del diritto, II, cit., p. 137 ss.

[7]     Principale sostenitore di questa posizione fu L. FERRAJOLI, Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria, in L’uso alternativo del diritto, I, cit., p. 105 ss., allora non ancora cattedratico ma esponente di punta della corrente di “Magistratura democratica”. Nel suo contributo F. esplicitamente afferma che “solo con riferimento agli specifici connotati dello scontro di classe in un dato momento è possibile individuare le scelte giurisprudenziali realmente alternative in ragione della loro aderenza a effettivi interessi sociali”, riconoscendo che si tratta in tal modo di aprire, “utilizzando tutte le possibilità tecniche offerte dall’ordinamento, nuovi e più ampi spazi alle lotte di massa in vista di nuovi e alternativi assetti di potere” (p. 116). Nella stessa linea si colloca B. DE GIOVANNI, Significato e limiti del riformismo giuridicoibidem, p. 254, sostenendo che, se il sistema giuridico è espressione della logica antagonista delle forze produttive, è in discussione l’uso complessivo del diritto operato dalle classi dominanti e quindi bisogna ipotizzare un’analisi diversa del suo ruolo così da incidere in concreto sullo sviluppo storico delle forze di produzione.

[8]     Sul punto cfr. M. COSSUTTA, op. cit., p. 18, il quale richiama l’esigenza, allora insistentemente ribadita, di liberare l’attività interpretativa del giurista dalla formula vuota racchiusa nella locuzione “realtà sociale”. Sulla necessità di richiamarsi all’art. 3 cpv. della costituzione quale criterio direttivo per le operazioni applicative della magistratura hanno in quel tempo significativamente insistito anche giudici non di formazione marxista, evidenziando come l’applicazione di quella norma conduce a superare il modello dello Stato di diritto quale mero custode di un sistema di garanzie formali, perché impone l’impegno positivo a che quelle garanzie diventino concrete ed effettive per tutti i cittadini (cfr. A.C. MORO, Il giudice nello stato contemporaneo, in Il Ponte, n. 6/7 del 1968, p. 848 ss.).

[9]    Cfr. L. FERRAJOLI, Replica, in L’uso alternativo del diritto, II, cit., p. 290.

[10]   Cfr. A. DI MAJO, op. cit., p. 159.

[11]   Che sarà poi la linea sistematicamente portata innanzi dalla rivista “Politica del diritto” diretta da Stefano Rodotà, il cui primo numero è del marzo 1970. Nell’editoriale inaugurale della nuova rivista Rodotà esplicitamente auspicava una scienza giuridica che si ponesse “come un luogo in cui non solo si apprestano strumenti tecnici, ma si operano pure coraggiose scelte politiche, capaci di restituire a quegli strumenti la funzione di attuare i valori che soli possono condurre a trasformazioni profonde della società”.

[12]   L. LOMBARDI VALLAURI, La scienza giuridica come politica del diritto. Linee di una metodologia filosofico-giuridica, Firenze, 1974.

[13]   L. LOMBARDI VALLAURI, op. cit., p. 11. Ha osservato giustamente G. ZACCARIA, L’obiettività del giudice tra esegesi normativa e politica del diritto, in Rivista di diritto civile, 1979, p. 632 che “l’istanza ricorrente che il diritto debba prescindere dalle ideologie ed appagarsi del privilegio della propria purezza e della propria neutralità nei confronti di ogni contenuto sociologico od assiologico, si è dimostrato, ancora prima che difficilmente sostenibile, come un’aspirazione impossibile”.

[14]   L. LOMBARDI VALLAURI, op. ult. cit., p. 8.

[15]   Op. ult. cit., p. 13.

[16]   Cfr. G. TARELLO, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete, in L’uso alternativo del diritto, I, cit., p. 74.

[17]   Lo riconosce esplicitamente E. SPAGNA MUSSO, Note per una discussione organica sulla utilizzazione politica del diritto, in L’uso alternativo del diritto, I, cit., p. 50.

[18]   Per alcune preveggenti indicazioni da parte di magistrati impegnati in un’operazione che incontrò all’inizio difficoltà ed attriti si può vedere il cit. fascicolo n. 6/7 del 1968 della rivista Il Ponte, nel quale si segnalano, oltre al già richiamato scritto di A. C. MORO, quelli di M. RAMAT, Cosa abbiamo voluto dire, p. 725 ss. e di A. PORCELLA, Le scelte politiche della magistratura, p. 737 ss. Sul significato attuale della Drittwirkung dei principî costituzionali in chiave addirittura di superamento della stessa logica delle fonti del diritto mi permetto di rinviare a N. LIPARI, Il diritto civile dalle fonti ai principî, in corso di pubblicazione su Rivista trimestrale di diritto e procedura civile.

[19]  Potrebbero essere infiniti gli esempi dei modi distorti attraverso i quali i grandi mezzi di informazione trasmettono un’immagine sbagliata del diritto, riproponendone un archetipo ormai del tutto perento. Mi limito ad indicarne uno solo, tuttavia molto recente. Prendendo malamente spunto da un discorso del Presidente della Repubblica ai neo-magistrati, nel quale giustamente ai affermava che “l’interpretazione della legge non può mai esprimere arbitrio” e che “l’attenzione dell’opinione pubblica non può e non deve condizionare la decisione”, C. NORDIO, Interpretare la legge senza recite a soggetto, ne Il Messaggero del 10 ottobre 2017, riesuma l’affermazione di Montesquieu sul giudice come “bouche de la loi”, che è evidentemente del tutto distorsiva per chi non è esperto di cose di diritto, e definisce (anche qui contraddicendo tutto un iter culturale) “bizzarro quanto sciagurato” il principio secondo il quale “ogni decisione giudiziaria ha comunque un forte connotato politico”, impropriamente attribuendo quella che è una pacifica conclusione della filosofia del diritto all’atteggiamento di parte di alcune “toghe rosse”. E’ appunto attraverso luoghi comuni di questo tipo che si concorre a determinare un solco tra la pubblica opinione e chi esercita la funzione giurisdizionale, negativamente incidendo sullo stesso modo di intendere il principio democratico.

[20]   Così, S. COTTA, Il compito del giurista nell’ora presente, in Justitia, 1966, p. 170.

[21]   Cfr. S. WOLIN, Politica e visione, trad. it., Bologna, 1996, p. 68.

[22]   E’ appena il caso di ricordare che lo stesso K. MARX, Critica al programma di Gotha, trad. it., Roma, 1968, p. 38 riconosceva che “il diritto non può mai essere superiore alla configurazione economica e allo sviluppo, da esso condizionato, della società”.

[23]   Cfr., sia pure senza esplicito riferimento a quel precedente, E. SANTORO, Diritto come questione sociale: la prospettiva della sociologia del diritto, in ID., a cura di, Diritto come questione sociale, Torino, 2010, p. XI.

[24]   Che è, con tutta probabilità, l’inconfessata inclinazione di gran parte di coloro che anche oggi predicano il ruolo meramente dichiarativo della giurisprudenza. Sul punto cfr. M. WEBER, Economia e società, III, Sociologia del diritto, III, (1922), trad. it., Milano, 1955, p. 170.

[25]   Così P. COSTA, Discorso giuridico e immaginazione. Ipotesi per una antropologia del giurista, in Diritto pubblico, 1995, p. 32.

[26]   Cfr. R. NICOLO’, L’esperienza scientifica nel diritto civile degli ultimi cinquant’anni, in Raccolta di scritti, III, Milano, 1993, p. 61 s. Per un radicale superamento di una simile classica impostazione cfr. G. ZACCARIA, L’obiettività del giudice tra esegesi normativa e politica del diritto, cit., p. 603 ss., il quale, ripercorrendo quella stagione culturale, giustamente osserva che “non si tratta semplicemente di discutere se il giudice ricorra o meno a giudizi di valore, bensì di vedere se queste sue opinioni valutative continuino ad operare entro i limiti consentiti dalle norme o indipendentemente da essi” (p. 605), registrando una crisi dell’ordinamento giuridico chiuso (p. 610 s.), una crisi della concezione sillogistica del procedimento interpretativo (p. 612 ss.), più in generale una crisi della statualità del diritto (p. 621 ss.).

[27]   Cfr. F. SANTORO PASSARELLI, Quid jus?, in Ordinamento e diritto civile. Ultimi saggi, Napoli, 1988, p. 25.

[28]   Sul punto cfr. N. BOBBIO, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, 1977, p. 47 s.

[29]   Cfr. U. SCARPELLI, L’educazione del giurista, in Rivista di diritto processuale, 1968, p. 13 ss.

[30]   Cfr. U. SCARPELLI, I magistrati e le tre democrazie, in Rivista di diritto processuale, 1970, p. 658.

[31]   U. SCARPELLI, Il metodo giuridico, in Rivista di diritto processuale, 1971, p. 553 s.

[32]   Cfr. S. SATTA, Il giudice e la legge, in Quaderni del diritto e del processo civile, IV, Padova, 1970, p. 12.

[33]   S. SATTA, op. cit., p. 23.

[34]   Cfr. S. SATTA, op. cit., p. 16 s. Va comunque segnalato, indice significativo di una frattura che si andava ormai manifestando nella cultura giuridica, che, nel quadro dello stesso convegno dei giuristi cattolici introdotto da Satta, un altro relatore, che era anche autorevole magistrato, P. PAJARDI, La funzione attuale del giudice, in Justitia, 1971, p. 25, affermava che al giudice si deve chiedere proprio di intendere la legge alla luce dei principî costituzionali ed “ergersi a giudice delle stesse leggi quando queste trasgrediscono la costituzione”.

[35]  S. SATTA, Diritto processuale, 8ª ed., Padova, 1973.

[36]  S. SATTA, op. ult. cit., p. VIII. Un’eco di questa posizione, prima ancora di giungere alle consapevolezze di oggi, si può cogliere nell’affermazione, svolta all’interno del convegno catanese, di L, FERRAJOLI, Magistratura democratica e l’esercizio alternativo della funzione giudiziaria, cit., p. 117, quando osserva: “non è più la norma che è asserita quale dato naturale di cui è scontata, secondo le soluzioni giurisprudenziali canonizzate dalla tradizione, la capacità rappresentativa del fatto, ma è il fatto ad essere assunto ad oggetto primario e privilegiato di conoscenza […] nella totalità dei suoi nessi e delle sue complesse e singolari determinazioni economico-materiali”.

[37]   S. SATTA, op. ult. cit., p. X.

[38]   Cfr. G. FASSO’, Il giudice e l’adeguamento del diritto alla realtà sociale, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1972, p. 897 s.

[39]   Tutto ciò naturalmente prima che un giurista cattolico del rango di S. COTTA, Diritto naturale, in Enciclopedia del diritto, XII, Milano, 1964, p. 652, coraggiosamente affermasse l’esigenza del diritto naturale di “abbandonare l’ambiziosa pretesa all’assolutezza e all’eternità” per vedere “riaffermare il suo carattere schiettamente umano e storico”. Ai giuristi cattolici fu semmai rimproverato  di collocare la loro posizione in una sfera teorica ed astratta senza concrete ricadute sulle singole operazioni interpretative. Fu considerata emblematica, a questo proposito, la posizione di D. BARBERO, Sistema istituzionale del diritto privato italiano, 3ª ed., Torino, 1950, il quale, dopo un’introduzione (“Diritto e legge”), nella quale espressamente si teorizzava la prevalenza del criterio di giustizia sulla formalità da dettato legislativo, svolgeva poi l’intera trattazione degli istituti del diritto civile con raffinato uso degli strumenti della dogmatica (peraltro lasciando nell’ombra ogni riferimento all’impianto costituzionale), ma senza mai una ricaduta applicativa del suo assunto metodologico.

[40]   Così G. FASSO’, op. cit., p. 899.

[41]   Le richiama giustamente M. COSSUTTA, op. cit., p. 131.

[42]   Lo lascia intendere anche A. DI MAJO, op. cit., p. 157. Si ipotizzava che  un uso alternativo del diritto privato avrebbe dovuto esplicarsi nella direzione di valori antitetici e opposti rispetto a quelli proprietari legati al profitto e all’appropriazione privata dei prodotti, che ne hanno a lungo caratterizzato la vicenda storica.

[43]   Cfr. G. LAZZARO, Un’indagine sul ragionare dei giudici, in Rivista internazionale di filosofia del diritto, 1968, p. 642.

[44]   Cfr. G. LAZZARO, La funzione dei giudici, in Rivista di diritto processuale, 1971, p. 1 ss. E’ evidente che, nel momento in cui si riconosce il  ruolo decisivo della giurisdizionalità e il giudice diviene il soggetto chiamato a coniugare la dimensione prescrittiva e quella argomentativa, si finisce per determinare una comunicazione stretta e dinamica con le basi sociali ed etiche del diritto, liberandolo dai condizionamenti di una struttura necessariamente formalizzata (cfr. J. WALDRON, Judges ad Moral Reasonens, in I.CON, 7, 2009, p. 2 ss.).

[45]   Un ampio panorama del dibattito svoltosi in proposito in dottrina nel decennio successivo al 1968 e quindi a cavallo del convegno catanese sull’uso alternativo del diritto è offerto da G. ZACCARIA, L’obiettività del giudice tra esegesi normativa e politica del diritto, cit., p. 603 ss.

[46]   Così G. FASSO’, Il giudice e l’adeguamento del diritto alla realtà sociale, cit., p. 948 s. Sul nuovo  ruolo della giurisprudenza in un regime politico liberal-democratico cfr. G. CAPURSO, La crescita d’influenza dell’interpretazione giudiziaria nei processi di formazione del diritto: riflessi istituzionali, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1976, p. 1478 ss.; ID. I giudici ed il ruolo della Costituzione nella interpretazione giudiziaria delle norme giuridiche, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1973, p. 1190 ss.; G. ZAGREBELSKY, Giudici e sistema politico, in Giustizia e costituzione, 1978, p. 3 ss.

[47]   Così L. BAGOLINI, Fedeltà al diritto e interpretazione, in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1974, p. 312.

[48]   In tal senso v. C.M. BIANCA, L’autonomia dell’interprete: a proposito del problema della responsabilità contrattuale, in Rivista di diritto civile, 1964, p. 489 s.

[49]   Cfr. C.M. BIANCA, op. cit., p. 494.

[50]   Che le veniva da taluno riconosciuta come connotato essenziale: cfr., ad esempio, L. RICCA, Uso alternativo del diritto privato, in L’uso alternativo del diritto, II, cit., p. 150 s.

[51]   Cfr. N. BOBBIO, Il positivismo giuridico, Torino, 1961, spec.  p. 265 ss.

[52]   Cfr. N. BOBBIO, Quale giustizia o quale politica?, in Il Ponte, 1968, p. 1439 s.

[53]   Sul punto v. M. COSSUTTA, op. cit., p. 151.

[54]   Cfr. L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, Milano, 1967, il quale prospetta programmaticamente la tesi fin dall’introduzione (p. VII s.). Dopo questo scritto appaiono davvero fuori tempo le persistenti discussioni sulla “creatività” della giurisprudenza: sul punto si vedano i saggi pubblicati nel numero 4/2016 della rivista on-line Questione giustizia. Al di là dell’improprietà del termine, che comunque vale a non differenziare qualitativamente il ruolo del giudice da quello del legislatore (cfr. N. LIPARI, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, p. 209), non si può ormai non convenire, superando l’insufficienza delle parole, con l’affermazione di P. GROSSI, Lungo l’itinerario di Nicolò Lipari (a proposito del volume Il diritto civile tra legge e giudizio), in corso di pubblicazione in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, secondo il quale “il diritto è alle radici di una civiltà, appartiene al sostrato valoriale di questo, è una realtà riposta da cercare e trovare in quelle radici. Nessuno lo crea, nemmeno il legislatore”.

[55]   L. LOMBARDI VALLAURI, Saggio sul diritto giurisprudenziale, cit., p. 502.

[56]   L. LOMBARDI VALLAURI, op. ult. cit., p. 509.

[57]   In questo senso v. P. GROSSI, Epicedio per l’assolutismo giuridico (oltre gli “atti” di un Convegno milanese e alla ricerca di segni), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XVII (1988), p. 518 ss., oggi in Assolutismo giuridico e diritto privato, Milano, 1998, p. 13 ss.

[58]   S. COTTA, La sfida tecnologica, 4ª ed., Bologna, 1971.

[59]   Cfr. S. COTTA, op. ult. cit., p. 139.

[60]   S. COTTA, op. ult. cit., p. 136.

[61]   Op. ult. cit., p. 182.

[62]   Op. ult. cit., p. 181.

[63]   Op. loc. citt., p. 180. Mi pare di poter cogliere in una prospettiva di questo tipo le premesse di quel passaggio da uno jus positum a uno jus in fieri che, più di recente, ho tentato di suggerire nei suoi presupposti concettuali e nei suoi risvolti applicativi: cfr. N. LIPARI, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., spec. p. 155 ss.

[64]   Ricordo, per tutti, il lavoro di C. CASTRONOVO, Eclissi del diritto civile, Milano, 1915, spec. p. 29 ss., dove si parla di una “mutazione genetica della giurisdizione”.

[65]   Ci si muoveva cioè ancora all’interno di una concezione che considerava lo Stato come la fonte esclusiva della sovranità e quindi come responsabile delle divaricazioni sociali. Oggi, in una stagione in cui, anche a prescindere  dai riflessi della lex mercatoria, pesantemente condizionanti sul piano delle regole, abbiamo ormai assistito ad una diffusa deterritorializzazione del diritto (cfr., per tutti, E. PARIOTTI, La giustizia oltre lo Stato: forme e problemi, Torino, 2004; AA.VV., Una Costituzione senza Stato, Bologna, 2001, p. 119 ss.), le prospettive di riequilibramento sociale ipotizzate dai teorici dell’uso alternativo del diritto vedrebbero venir meno alcuni dei presupposti fondamentali ai quali si riagganciavano le tesi avanzate negli anni Settanta.

[66]   Così lucidamente F. GENTILE, Equivoci e paradossi della giustizia politicizzata, in Intelligenza politica e ragione di stato, Milano, 1983, p. 216. Osserva giustamente R. TREVES, Giustizia e giudici nella società italiana, Milano, 1973, p. 95 che, così come si può parlare di un giusnaturalismo conservatore e di un giusnaturalismo progressista, si può anche parlare di un positivismo giuridico conservatore e di un positivismo giuridico progressista. A ben vedere, con l’espressione “uso alternativo del diritto” si aveva ancora sostanziale riguardo ad un diritto vigente, consegnato ad un sistema di norme valutabili nell’ottica della c.d. ideologia della codificazione come un sistema ordinato e sostanzialmente completo (salvo i meccanismi di implementazione affidati agli strumenti, peraltro formalmente disciplinati, di completamento delle lacune). Avvertiva sostanzialmente questa contraddizione P. BARCELLONA, Introduzione  al volume Scienza giuridica e analisi marxista, quando osservava (p. XVII), pur muovendosi all’interno di un complesso di enunciati posti, che la nuova cultura giuridica “non può risolversi in una diversa ricostruzione del sistema ma deve essere la rinuncia al sistema. Deve essere la rinuncia all’elaborazione di concetti che si risolvono in astrazioni generalizzanti”. Che è proprio quanto noi abbiamo ormai inesorabilmente  conseguito riconoscendo che il sistema non può essere assunto come un presupposto dato, una sorta di struttura anelastica costituita da un complesso di enunciati formali (connessi ad assetti istituzionali), ma semmai come una prospettiva, un traguardo sempre provvisorio cui guardare nel coordinamento dei vari indici che connotano il procedimento interpretativo, al contempo dando atto della “legalità del caso”, cioè della necessità di ricondurre alla specificità della situazione concreta uno degli indici essenziali per dare concretezza al precetto quale regola all’azione.

[67]   Ha giustamente osservato P. GROSSI, L’invenzione del diritto, Bari-Roma, 2017, che il diritto di oggi appare quale il “risultato di una invenzione, percepito cioè non come qualcosa che si crea da parte del potere legislativo, ma come qualcosa che si deve cercare e trovare (secondo il significato dello invenirelatino) nelle radici di una civiltà, nel profondo della sua storia, nella identità più gelosa di una coscienza collettiva; e ne debbono essere inventori, fuori della vulgata corrente, in primo luogo i legislatori, ma, poi, anche i giuristi teorici e pratici nella loro complessa funzione” (p. X). “Oggi, in questo nostro tempo giuridico pos–moderno, il giudice, attraverso operazioni squisitamente valutative, deve comprendere il caso da risolvere e adattare la norma al fatto di vita, individuandone la più adeguata disciplina. E la sua ricerca si concretizza, appunto, in una invenzione, che è un procedimento contrario a quello sillogistico perché in essa non è coinvolta solo la razionalità del giudice con le sue capacità di loico, ma soprattutto capacità di intuizione, percezione, comprensione, tutte segnate sul piano assiologico”.

[68]   Senza possibilità di approfondire qui un tema che ho analizzato in altro luogo (cfr. N. LIPARI, Il diritto civile dalle norme ai principi, cit., in corso di pubblicazione in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile), può essere sufficiente osservare che la rilevanza dei principî quale criterio indirizzante delle soluzioni giuridiche consente l’immissione nella dimensione giuridica di regole (o, meglio, di criteri direttivi dell’azione collettiva) provenienti da scienze diverse nonché dalla morale, in una chiave che può dirsi “illimitatamente monogenetica” (cfr. F. MODUGNO, Principi generali dell’ordinamento, in Enciclopedia giuridica Treccani, XXIV, Roma, 1997, p. 3 s.)

[69]   A ben vedere, oggi è stato integralmente rivisto lo stesso concetto di legalità, che non può più essere assunto in quei termini formali di una rigidità anelastica che ci sono stati trasmessi dalla tradizione del positivismo, ma semmai nella prospettiva di una nuova relazionalità (istituzionale, ordinamentale, procedurale e interpretativa) (cfr., in questo senso, con ricchezza di spunti, M. VOGLIOTTI, Legalità, in Enciclopedia del diritto, Annali, VI, Milano, 2013, spec. p. 431 ss.), in cui l’ordine si consegue come traguardo “accettato e accettabile con argomenti che ‘reggono’ in relazione alla rete, al con-testo delle norme e della loro progressiva  conferma attraverso i precedenti” (cfr. G. VATTIMO, Fare giustizia del diritto, in J. DERRIDA – G. VATTIMO, a cura di Diritto, giustizia e interpretazione, Roma-Bari, 1998, p. 289 s.).

[70]   Cfr. E. SANTORO, Diritto e diritti: lo Stato di diritto nell’era della globalizzazione, Torino, 2008, p. 310 ss.

[71]   Sul punto v. P. GROSSI, Il diritto tra potere e ordinamento, Napoli, 2005. Riconnette  il primato della legislazione al paradigma dell’esclusiva statualità del diritto M.A. CATTANEO, Illuminismo e legislazione, Milano, 1966, p. 14.

[72]   Cfr., per tutti, E. ERLICH, I fondamenti della sociologia del diritto, (1913), trad. it., Milano, 1976, p. 591 ss. In questa linea si muoveva anche il mio intervento all’interno del convegno catanese (cfr. N. LIPARI, Scelte politiche e determinazione storica dei valori realizzabili, in L’uso alternativo del diritto, I, cit., p. 37 ss.). Pur contestando i modelli culturali prevalenti utilizzati dai teorici del diritto (la legge come oggetto esclusivo dell’analisi del giurista, l’equivalenza tra legge e diritto, l’integrazione del diritto come processo esclusivamente logico), negavo la possibilità di configurare un uso del diritto che fosse in qualche modo indipendente dalla struttura sociale, osservando che, “anche a voler ammettere che l’elaborazione tecnica sia adattabile ad ogni tipo di valore, certamente non lo è il contesto sociale, entro il quale e a mezzo del quale deve necessariamente operare il giurista, se non vuol negare se stesso e la sua funzione” (p. 38). Soggiungevo (p. 39) che risulterebbe quanto meno contraddittorio riscoprire l’effettività come criterio antiformalistico di interpretazione e di applicazione dell’enunciato normativo, se poi viene offerto al giurista un modello di comportamento che è destinato ad operare indipendentemente dal concreto modo di atteggiarsi della realtà sociale e che quindi deve trovare attuazione quale che sia il grado di evoluzione della società nei cui confronti il diritto si pone come (operante e non utopico) criterio di organizzazione. Con una frase che suscitò allora non poche perplessità all’interno di un mondo affascinato dalla chiave di lettura marxista, dissi che “non ha senso costruire una teoria dell’effettività giuridica, o, se volete, una dogmatica giuridica, della storia come illecito: la storia ha sempre una sua razionalità”. Un giurista non può non interrogarsi, valendosi di una opportuna chiave di lettura di segno sociologico, circa la misura in cui il nostro contesto sociale sarebbe in grado di accogliere e quindi di attuare il valore marxista della scelta di classe (in quel contesto proposto come l’unico valore idoneo ad esprimere l’atteggiamento politico del giurista). Assumendo una aprioristica scelta di campo si sarebbe negato ogni indice di verificabilità all’analisi del giurista e quindi ogni scientificità al suo modo di riflettere intorno all’esperienza del diritto.

Contestavo in radice la posizione di Ferrajoli ritenendo che non facesse che legittimare l’operazione giuridica dei giudici conservatori. Questi camuffavano, sotto l’asserita asetticità della loro operazione tecnica, la propria scelta valutativa contraria ad ogni modifica dell’assetto sociale; Ferrajoli proponeva una diversa scelta di valore radicalmente modificativa della struttura sociale, e a quella condizionava lo svolgimento di ogni possibile indagine tecnica: sia gli uni che l’altro, tuttavia, non solo finivano per sottrarre il risultato della propria analisi ad ogni possibilità di verifica, ma prescindevano in radice dal grado in cui il valore che si continua a ritenere operante o che si prefigura può veramente fornire modelli all’azione dei singoli, di tutti i singoli, non di alcuni isolati laudatori del passato o anticipatori del futuro (p. 42). La mia posizione manifestata in quella occasione riprendeva comunque quanto avevo già espresso nella mia prolusione barese (N. LIPARI, Il diritto civile tra sociologia e dogmatica. Riflessioni sul metodo, in Rivista di diritto civile, 1968, p. 297 ss.), quando avevo detto che il giurista “in tanto è vincolato dalla norma in quanto concretamente riscontri che essa esprima un valore che è presente, secondo le condizioni storiche e sociali di quel momento, nella totalità dell’esperienza, rispetto alla quale la stessa norma è certo momento ineliminabile, ma comunque del tutto parziale” (p. 323 s.).

[73]               Essi ponevano, a loro modo, lo stesso interrogativo che oggi ripropone, in un contesto diverso, F. OST, A quoi sert le droit? Usages, fonctions, finalités, Bruxelles, 2016, il quale addirittura si chiede se non ci si stia avviando verso “una società post-giuridica-una società senza diritto. Una società nella quale il diritto si sarebbe dissolto in un oceano di normatività indistinte” (p.1). Si tratta – com’è ovvio – di un interrogativo ricorrente (cfr. P. ROSSI, a cura di, Fine del diritto, Bologna, 2009), che va risolto nel senso della fine semmai di “una certa forma di diritto”, e cioè “l’immagine del diritto moderno come diritto ‘razionale’, che Weber ha formulato in forma tipico-ideale” (così P. ROSSI, op. cit., p. 93).

[74]   Cfr. anche R. MARRA, Per una scienza di realtà del diritto (contro il feticismo giuridico), in Materiali per una storia della cultura giuridica, XXXVIII (2008), n. 2, p. 329. In sintonia con una simile posizione mi pare si collochi anche M. COSSUTTA, Interpretazione ed esperienza giuridica, cit., il quale, al termine di una riflessione che ha preso le mosse proprio dal congresso catanese sull’uso alternativo del diritto, configura un’ipotesi di interpretazione intersistemica, intesa come incontro tra i vari sistemi normativi vigenti in un dato contesto. “L’interprete pone in stretta correlazione sistemi diversi; da questo incontro scaturirà il diritto operante in una data società, frutto di una simbiosi fra disposizioni legislative e norme sociali, ma oltre a ciò l’interprete dovrà organizzare gli elementi dell’insieme in un sistema coordinato, capace cioè di rispondere alle esigenze sociali d’ordine” (p. 166). Da qui la conclusione secondo la quale il diritto vigente non può essere considerato equivalente a quello posto dal potere legislativo, perché è invece il derivato di una necessaria integrazione del dato legislativo con la realtà sociale in cui opera (p. 169). Osserva giustamente  P. GROSSI, L’invenzione del diritto, cit., p. XV, che nessuna costituzione può  esaurire “la dimensione costituzionale della convivenza, lasciando così ai giuristi, assai più che ai politici, “un compito autenticamente inventivo”. In questa prospettiva “perde spazio la visione potestativa del diritto, che impone uno strettissimo vincolo tra potere politico e produzione giuridica, emergendo al contrario una visione radicale, cioè  valoriale del diritto”.

[75]   Lo ha, di recente, lucidamente rilevato E. SCODITTI, Stefano Rodotà e i giovani civilisti degli anni Sessanta, in Questione giustizia, n. 2/2017. Nella stagione dell’argomentazione di segno persuasivo probabilmente non ha più ragion d’essere la constatazione di N. BOBBIO, Discorso inaugurale, in La filosofia del diritto in Italia nel secolo XX. Atti dell’XI Congresso nazionale, Milano, 1977, p. 16, secondo il quale l’accentuazione delle funzioni politiche del diritto ha condotto a parlare di una sostituzione della “critica ideologica” a quella “gnoseologica” del diritto. Il primo a sottolineare il carattere necessariamente politico dell’attività dei giuristi era stato G. TARELLO, Orientamenti della magistratura e della dottrina sulla funzione politica del giurista-interprete, in Politica del diritto, 1972, p. 459, ora in Diritto, enunciati, usi. Studi di teoria e metateoria del diritto, Bologna, 1974, cap. IV.

[76]   Mi permetto di rinviare, ancora una volta, a N. LIPARI, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit., p. 101 ss.

[77]   Cfr. F. VIOLA, Diritti umani, in Enciclopedia filosofica Bompiani, 3, Gallarate, 2006, p. 2935.

[78]   Si veda la conclusione del richiamato scritto di E. SCODITTI.

[79]   Mi limito a ricordare, ancora una volta, le lucide notazioni di F. VIOLA, La legalità del caso, in La Corte costituzionale nella costruzione dell’ordinamento attuale, I, Principi fondamentali, Atti del 2° Convegno nazionale della Sisdic, Capri, 18-20 aprile 2006, Napoli, 2007, p. 315 ss.

[80]   Non si tratta naturalmente di porre in astratto il problema della giustizia. Quel che è certo è che, quali che siano le nostre collocazioni ideologiche o politiche, riusciamo facilmente ad intendere se alcune fra le situazioni che intersecano la nostra esperienza siano qualificabili in chiave di ingiustizia. E allora, riprendendo un’ipotesi di A. SEN, L’idea di giustizia (2009), trad. it., Milano, 2010, si tratta comunque di “trovare un’intesa, fondata sulla ragione, su come ridurre l’ingiustizia, nonostante le nostre diverse idee sullo stato ‘ideale’ delle cose”. Sulla frattura  tra  esperienza ed ordinamento, tra giudizio come legalità e come ideologia cfr. E. OPOCHER, Analisi dell’idea di giustizia, Milano, 1977, p. 59 ss. Al tema  della giustizia è dedicato il numero unico di Parole chiave, n 51/2015, Giustizia, con introduzione di F. RICCOBONO, Giustizia & Giustizia.

[81]   Ed è questa la riflessione che ho tentato di svolgere in N. LIPARI, Il diritto civile tra legge e giudizio, cit. Osserva giustamente G. ZACCARIA, L’obiettività del giudice, cit., p. 639 che, “se è vero che l’esperienza giuridica è un’esperienza essenzialmente storica, che vive ed è materiata di reali conflitti di interesse, e di valori sociali affermati e riconosciuti; se, mutando i rapporti delle forze politiche e sociali, mutassero anche le prospettive ideologiche e culturali in cui quei conflitti di interessi vengono inquadrati e valutati, non c’è da stupirsi se le stesse norme possono rivelare al giudice un significato diverso anche in rapporto al medesimo (o ad analogo) conflitto di interessi”. Sul punto cfr. lucidamente L. CAIANI, I giudizi di valore nell’interpretazione giuridica, Padova, 1954, p. 165.

[82]   Così P. GROSSI, L’invenzione del diritto, cit., p. XI.

 

(via iustitiaugci.org)

Abstract

Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta dal Prof. Nicolò Lipari, in occasione del LXVII Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani svoltosi a Roma il 9 e 10 dicembre 2017, ed intitolato: “Lo spirito e la lettera della legge, oggi”.