Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta dal Presidente Ernesto Lupo, in occasione del LXVII Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani svoltosi a Roma il 9 e 10 dicembre 2017, ed intitolato: “Lo spirito e la lettera della legge, oggi”.
di
Ernesto Lupo
Sommario: 1. Qualche premessa- 2. Oggetto della relazione: cause delle tensioni giurisprudenziali individuate attraverso casi concreti. – 3. Tensioni riconducibili ad inerzie legislative. – 4. Tensioni riconducibili ad interventi legislativi tecnicamente imperfetti. – 5. Tensioni dovute a scelte valoriali del giudice. – 6. Segue. Riflessioni sui casi di tensioni dovute a scelte di valore. – 7. Considerazioni conclusive: la discrezionalità del giudice.
- Qualche premessa.
Il titolo della relazione, riferendosi a “tensioni” tra lettera e spirito della legge, pone il problema immenso ed antico della sua interpretazione. L’art.12 delle disposizioni sulla legge in generale, che nella rubrica ha proprio questo oggetto[1], mentre considera l’elemento letterale (significato proprio delle parole), ignora il concetto di “spirito”[2] della legge. Ma poiché è l’intero 67° Convegno dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani che si impernia su questo concetto, attualizzato, posso non affrontare il difficile tema, che sarà oggetto di studio delle altre relazioni.
Alla mia relazione è affidato il compito di prendere in considerazione la giurisprudenza, esaminandone le “tensioni” che emergono nella attività di interpretazione della legge.
Poiché il Convegno intende esaminare la situazione attuale (oggi), credo che l’indagine debba necessariamente allargarsi al rapporto tra la legge ed il giudice che è chiamato, per le funzioni esercitate, ad interpretarla ed applicarla. Oggi il giudice viene non raramente accusato di sovrapporsi alla legge (considerata in tutti i suoi elementi interpretativi, e quindi sia nella lettera che nello spirito), sino a diventare egli stesso legislatore[3]. Si tende ad accentuare la funzione creativa della giurisprudenza, considerata come fonte del diritto, quasi sullo stesso piano della legge[4].
Al di là di ogni opinione su tale vivacissimo dibattito, è certo che attualmente si è accresciuto sensibilmente il potere interpretativo del giudice. Finanche in un recente saggio[5], che ha lo scopo di criticare le “diverse concezioni oggi correnti della giurisdizione come creazione del diritto, qualunque cosa si intenda con il termine creazione”, si riconosce che “oggi nessun giuspositivista nega l’esistenza, nella giurisdizione, di una sfera fisiologica ed irriducibile di discrezionalità interpretativa”.
Ben note sono le cause di tale fenomeno: senza pretesa di esaustività, esse sono interne alle leggi (come la loro inflazione, il basso livello qualitativo della loro redazione tecnica[6], il ritardo nel rispondere al mutamento delle esigenze sociali) ed esterne alle stesse, come la pluralità degli ordinamenti giuridici e la necessità che l’interpretazione della legge si conformi a norme sovraordinate rispetto a quelle nazionali. A ciò va aggiunto il mutamento che ha ricevuto il concetto stesso di interpretazione giuridica.
La tesi della natura cognitiva dell’attività interpretativa, secondo cui essa consiste nell’accertamento del significato della norma giuridica (desumibile sia dalla lettera che dallo spirito di essa), viene contestata sempre più ampiamente dalle dottrine filosofiche e giuridiche che, distinguendo tra disposizione normativa (o enunciato linguistico) e norma (il significato dell’enunciato), ritengono che la norma sia il risultato dell’attività interpretativa, e non il suo presupposto. Ne deriva che lo scarto tra le parole della legge ed il significato che ad esse può attribuire l’interprete si amplia enormemente[7].
- Oggetto della relazione: cause delle tensioni giurisprudenziali individuate attraverso casi concreti.
Il maggiore spazio che oggi ha l’interprete della legge, ed in particolare il giudice, accresce evidentemente le tensioni interne alla giurisprudenza, e cioè i contrasti emersi (o anche solo potenziali) tra le soluzioni dello stesso problema giuridico. Per approfondire questo fenomeno è utile chiedersi quali sono i fattori che determinano il contrasto, e cioè identificare gli argomenti interpretativi su cui si fondano le decisioni confliggenti.
L’analisi potrebbe essere condotta per ogni situazione di contrasto interpretativo. Ma è opportuno limitarla ai conflitti emersi a livello della Corte di cassazione, sia per ragioni pratiche derivanti dalla più agevole conoscenza di tale giurisprudenza, sia per la ragione teorica che il conflitto interpretativo davanti al giudice di legittimità è meno “inquinato” dalla diversità delle situazioni di fatto in cui si è fatta applicazione della legge da interpretare[8]. Nella concreta impossibilità di considerare tutta la giurisprudenza della Cassazione[9], si ritiene preferibile limitare l’esame alle decisioni delle Sezioni unite emanate sulle questioni giuridiche che hanno dato o possono dare luogo a conflitti interpretativi. Tali decisioni consentono di conoscere non solo i termini del contrasto interpretativo e quali sono gli argomenti sui quali esso si fonda, ma anche la soluzione del contrasto alla quale il massimo collegio decidente è pervenuto, e quindi a quali argomenti interpretativi esso ha dato prevalenza.
Non interessa qui il contenuto preciso e dettagliato della questione giuridica posta alle Sezioni unite e risolta con la decisione la cui valutazione spetta ovviamente ai cultori delle diverse materie interessate. Rileva, invece, individuare quali sono stati i fattori causativi del contrasto.
Ci si limita a prendere in esame solo poche sentenze delle Sezioni unite, che appaiono significative al fine di individuare alcune cause produttive di tensioni giurisprudenziali[10]. Si tratta di sentenze recenti perché la tematica qui trattata è soggetta ad una veloce evoluzione.
Le sentenze scelte concernono sia il settore civile che quello penale. Il concetto di interpretazione giuridica e la soggezione del giudice alla legge valgono in tutti i settori del diritto, onde è utile considerare insieme almeno i due ambiti della attività del giudice ordinario[11].
L’esame delle singole sentenze consentirà, alla fine, di esporre alcune considerazioni generali sul c.d. diritto giurisprudenziale, sotto l’aspetto della interpretazione della legge.
- Tensioni riconducibili a inerzie legislative.
In alcuni casi la tensione giurisprudenziale si presenta come diversa interpretazione di disposizioni normative vigenti, ma essa in realtà trova la propria causa principale in inerzie del potere legislativo, il quale non riesce ad intervenire su problemi di attualità, trasferendo sull’interprete scelte che, per la loro natura, dovrebbero essere operate dal legislatore.
- A) Emblematica in tal senso è la sentenza delle Sez. un. civili, 25 gennaio 2017, n.1946[12], che ha risolto un conflitto emerso a livello (non di Cassazione, ma) di giudici di merito in materia di parto anonimo e di diritto del nato (da esso) a conoscere le proprie origini.
Se la madre abbia dichiarato, alla nascita del figlio, di non volere essere nominata, la legge (art.28, comma 7, l. 4 maggio 1983, n.184) non consentiva al figlio di accedere alle informazioni sulla propria origine. Questa disposizione legislativa è stata dichiarata in contrasto con gli artt.2 e 3 della Costituzione nella parte in cui non prevede, attraverso un procedimento, stabilito dalla legge, che assicuri la massima riservatezza, la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre su una eventuale revoca della precedente dichiarazione di non volere essere nominata (Corte cost., 22 novembre 2013, n.278).
Dopo la sentenza di illegittimità costituzionale vi è stato, nella giurisprudenza minorile di merito, un radicale ed insistito contrasto[13]. Alcuni giudici hanno ritenuto che fosse necessaria, per potere accogliere la richiesta del figlio nato dal parto anonimo, l’introduzione di una disciplina legislativa sul procedimento, secondo l’indicazione della Corte cost.; altri giudici hanno accolto la richiesta del figlio affermando che l’inerzia del legislatore non potesse impedire l’esercizio del diritto del figlio derivante dalla detta sentenza.
Il contrasto, come è chiaro, verteva sulla interpretazione non della disposizione legislativa (il citato art.28 della legge n.184/1983), ma della sentenza della Corte cost.. La prima tesi ne dava una interpretazione letterale, rilevando che la previa disciplina legislativa del procedimento idoneo ad assicurare la massima riservatezza era espressamente richiesta nel dispositivo della sentenza della Corte. La seconda tesi interpretava, invece, lo spirito della stessa sentenza, che aveva dichiarato, con effetto immediato, l’illegittimità della norma di legge ed affermato il diritto del figlio all’interpello della madre. Le Sez. un. hanno seguito la seconda tesi. Argomento principale: la prima tesi comportava che si sarebbe continuato a fare applicazione di una norma legislativa già dichiarata in contrasto con la Costituzione, rendendo quindi irrilevante una pronunzia di illegittimità a causa dell’inerzia del legislatore[14]. È seguita la ricerca, da parte delle Sez. un., di un procedimento idoneo a consentire l’esercizio del diritto del figlio, che il Collegio ha desunto dal sistema normativo e dal principio della massima riservatezza affermato dalla Corte cost.[15].
A commento della sentenza della Cassazione si è usata l’espressione, in sé contraddittoria, di “giudice legislatore”[16]. Ed in effetti il procedimento di esercizio del diritto del figlio nato da parto anonimo, che la Corte cost. aveva previsto dovesse essere “stabilito dalla legge”, è stato invece individuato dalle Sez. un.. Ma l’intervento delle Sez. un., che può sembrare essere andato oltre i limiti del potere giudiziario, è stato determinato dalla inerzia legislativa[17] ed è servito a fare cessare una tensione giurisprudenziale dannosa per la collettività nazionale e per le stesse istituzioni sia legislative che giurisprudenziali.
- B) Analoghe considerazioni sono indotte, nel settore della giustizia penale, dalla tensione giurisprudenziale che è emersa sul tema della disciplina applicabile alla stampa dei giornali telematici (on line). Si è posto il problema se la testata giornalistica telematica rientri o meno nel concetto di stampa regolato dalla legge 8 febbraio 1948, n.47, in applicazione della quale il giornale cartaceo non può essere oggetto di sequestro preventivo (art.321 c.p.p.) in relazione al reato di diffamazione a mezzo stampa.
La sez. V della Cassazione penale, nella sentenza 5 novembre 2013. n.10594, rv.259887, Montanari[18], ha dato al quesito risposta negativa, ritenendo ammissibile il sequestro preventivo sulla base della considerazione che le garanzie costituzionali in tema di sequestro preventivo della stampa non sono estensibili alle manifestazioni del pensiero destinate ad essere trasmesse in via telematica, ivi comprese quelle oggetto di articoli giornalistici pubblicati sul web, dato che il termine “stampa” sarebbe stato assunto dalla norma costituzionale in riferimento alla sola carta stampata.
Affermazione opposta è stata, però, fatta dalle Sez. un. penali, 29 gennaio 2015 n.31022, rv.264090, Fazzo[19], le quali hanno ritenuto che il giornale telematico, in quanto assimilabile funzionalmente a quello tradizionale, rientra nel concetto ampio di “stampa” e soggiace alla normativa, di rango costituzionale e di livello ordinario, che disciplina l’attività di informazione diretta al pubblico. Le Sez. un. hanno perciò negato l’ammissibilità del sequestro preventivo del giornale on line (salvo che nei casi tassativamente previsti dalla legge n.47/1948, tra i quali non è compreso il reato di diffamazione a mezzo stampa). Va, però, osservato che l’applicabilità della normativa generale sulla stampa viene dalla sentenza riferita anche alle “norme che disciplinano la responsabilità per gli illeciti commessi”[20], onde sembra che essa debba essere estesa anche alla applicazione dell’art.57 c.p. (responsabilità del direttore del periodico telematico per omesso controllo), che invece è stata espressamente esclusa dalla citata sentenza della Sez. V, n.10594/2013.
Le ragioni poste a fondamento dell’orientamento delle Sez. un. sono numerose. Non occorre qui esporle[21]. E’ sufficiente osservare che il contrasto emerso all’interno della Cassazione riguarda una questione molto dibattuta anche in dottrina, nella quale, come rilevano le Sez. un., si è “di fronte alla colpevole inerzia del legislatore, rimasto insensibile a ogni sollecitazione di fare chiarezza sullo specifico punto controverso”[22]. Per effetto di tale inerzia si è posto il giudice interprete di fronte a scelte di tale ampiezza che hanno indotto qualche critico a parlare di “nomopoiesi”[23].
4.-Tensioni riconducibili ad interventi legislativi tecnicamente imperfetti.
Tra le cause dei contrasti giurisprudenziali riconducibili in via principale alla legislazione, maggiore frequenza presentano quelli che, anziché all’inerzia, sono attribuibili alla cattiva tecnica legislativa, nel senso che il legislatore interviene, ma lo fa in modo imperfetto perché il significato delle nuove disposizioni legislative non è chiaro o contiene comunque evidenti e gravi criticità[24].
- A) Un tipico esempio di tale tipo di fattore causale è dato dalla legge 27 maggio 2015, n.69, sulla disciplina del falso in bilancio.
Nel modificare il reato di false comunicazioni sociali, disciplinato dal codice civile[25], il legislatore ha continuato a configurare la condotta delittuosa come esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero”, ma ha eliminato le seguenti parole successive, già previste nel primo comma degli artt.2621 e 2622 c.c.: “ancorché oggetto di valutazioni”. Si è subito posto il problema se la nuova legge del 2015 avesse o meno mantenuto la punibilità del falso valutativo (attinente cioè alle valutazioni compiute nella redazione del bilancio e delle altre comunicazioni sociali) e, nell’ipotesi di risposta positiva, entro quali limiti (e cioè in quali ipotesi di falsa valutazione). La risposta ha dato vita ad un radicale contrasto nell’ambito della stessa sezione (quinta) della Cassazione penale. Due sentenze[26] hanno ritenuto che la nuova legge avesse abrogato le condotte di falsa valutazione di una realtà economica effettivamente sussistente. Tra le due sentenze se ne è avuta un’altra[27] che ha seguito la tesi opposta[28]. E, finalmente, con ordinanza del 4 marzo 2016, la questione è stata rimessa alle Sezioni unite, le quali hanno condiviso la tesi non abrogazionista, ritenendo la sussistenza del reato nel caso di esposizione in bilancio di enunciati valutativi, se l’agente, in presenza di criteri di valutazione normativamente fissati[29] o di criteri tecnici generalmente accettati, se ne discosti consapevolmente senza fornire adeguata informazione giustificativa, in modo concretamente idoneo ad indurre in errore i destinatari delle comunicazioni[30].
Il contrasto è stato eclatante per la rilevanza sociale della questione, per le sue conseguenze (punibilità o meno di identiche condotte nell’ambito di società), per essersi prodotto all’interno della stessa sezione della Cassazione, anche se l’intervento celere delle Sezioni unite ne ha attenuato gli effetti sulla giurisprudenza di merito.
Va fortemente censurato il formarsi e, ancor più, il perpetuarsi del contrasto interpretativo all’interno della stessa sezione della Corte di legittimità[31]. Ma non può essere lasciata all’interprete la scelta se vadano o meno punite le falsità nelle valutazioni societarie. Il problema era stato posto nel corso dei lavori parlamentari della legge n.69 del 2015. Ma il relatore di maggioranza al Senato rispose: “sarà la nostra Corte di cassazione a dover valutare se gli elementi valutativi e le stime possano o meno rientrare all’interno di un concetto che implica fatti materiali rilevanti”. Francesco Palazzo[32] ha parlato di “tradimenti legislativi della legalità”, indicando l’episodio qui riferito come “esempio plateale di una incondizionata rinuncia all’esercizio dell’ars legiferandi”.
Ed in effetti, dalla lettura della citata sentenza delle Sez. un.[33] si desume l’opinabilità della soluzione seguita, per l’equivocità degli elementi interpretativi di natura letterale, di cui il collegio decidente ha comunque rilevato la “eccessiva enfatizzazione” da parte degli interpreti, osservando che “per una corretta interpretazione delle norme non è sufficiente verba earum tenere, sed vim ac potestatem”, e dando allora prevalenza, da un lato, al “complessivo impianto dell’assetto societario….in una visione logico-sistematica della materia”, e, dall’altro, alle “conseguenze derivanti dall’una o dall’altra interpretazione, non essendo dubbio che la valutazione di tali conseguenze costituisce una sorta di controprova della (correttezza della) necessaria interpretazione teleologica”.
- B) Ci si è soffermati su una singola deficienza legislativa, particolarmente grave perché, come si è visto, consapevole. Ma, ormai, la tecnica legislativa (anche della legislazione delegata) è così inidonea che, nel settore penale, non vi è stata, di recente, nuova legge che non abbia reso necessario un ravvicinato intervento delle Sezioni unite della Cassazione per risolvere i contrasti interpretativi subito emersi, all’interno della Corte, nella sua interpretazione.
Ci si limita a qualche recente indicazione, sicuramente non esaustiva, senza specificare i termini della singola tensione insorta all’interno della Corte di legittimità:
- a) la legge 28 aprile 2014 n.67, che ha introdotto la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato[34]. Le sentenze delle Sez. un., 31 marzo 2016, n.33216, Rigacci, rv.267237 e n.36272, Sorcinelli, rv.267328[35], hanno dovuto risolvere due opinabili problemi posti dalla nuova legge e relativi all’ambito della ricorribilità per cassazione (la prima sentenza) ed alla individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile il nuovo istituto (la seconda sentenza);
- b) il d. lgs. 16 marzo 2015 n.64, che ha introdotto la non punibilità per la particolare tenuità del fatto[36]. Sono dovute intervenire ben tre sentenze delle Sez. un.,[37], per risolvere contrasti formatisi in ordine all’ambito di applicazione del nuovo istituto, tema fondamentale per la nuova causa di non punibilità;
- c) il d. lgs. 15 gennaio 2016 n.7, che ha introdotto nell’ordinamento gli illeciti sottoposti a sanzioni pecuniarie civili, così qualificando alcuni fatti in precedenza previsti come reati[38]. Queste sanzioni pecuniarie, devolute alla cassa delle ammende, si aggiungono al risarcimento del danno a favore della persona offesa dall’illecito. L’intervento di riforma del sistema sanzionatorio, di carattere del tutto innovativo per il nostro ordinamento, si è sommato all’altro, attuato con il contemporaneo d. lgs. n.8, con cui si è disposta una nuova depenalizzazione secondo il modello tradizionale della sostituzione del reato con un illecito sottoposto a sanzioni amministrative punitive[39].
È sorto il problema di diritto transitorio se il giudice dell’impugnazione avverso una sentenza di condanna, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, debba decidere anche sui capi della sentenza impugnata concernenti gli interessi civili, e quindi possa confermare la condanna al risarcimento del danno emanata prima della nuova disciplina qualora anche egli ritenga la sussistenza del fatto illecito. Il problema si è posto perché il legislatore non ha riportato nel d. lgs. n.7 la disposizione contenuta nel d. lgs. n.8, che risolve espressamente la questione[40], né ha disposto in senso contrario alla detta regola.
Il silenzio del legislatore, che non trova alcuna spiegazione nei lavori preparatori dell’atto normativo, ha determinato il radicale contrasto tra molte sentenze della Cassazione sulla applicabilità (in via analogica) al d. lgs. n.7/2016 della disposizione normativa espressamente contenuta nell’art.9, comma 3, del contemporaneo d. lgs. n.8[41]. È stato necessario l’intervento delle Sez. un., 29 settembre 2016, n.46688, Schirru e altro, rv.267884[42], che hanno scelto la tesi contraria alla possibilità, per il giudice dell’impugnazione, di confermare la statuizione della sentenza di primo grado di condanna al risarcimento del danno, affermando che i capi concernenti gli interessi civili devono sempre essere revocati[43].
- Tensioni dovute a scelte valoriali del giudice.
Altre tensioni giurisprudenziali non sono, di regola, riconducibili al legislatore perché hanno per oggetto disposizioni normative che non sono mutate nel tempo[44]. Sulla loro interpretazione si affermano in giurisprudenza, però, orientamenti diversi da quelli precedentemente seguiti, onde se ne traggono norme diverse o addirittura di senso opposto. Quali sono le ragioni che determinano tali mutamenti di orientamenti interpretativi? Secondo il metodo dianzi precisato, si prendono in considerazione alcuni casi specifici di contrasti pervenuti recentemente al livello di Sezioni unite della Cassazione.
Nel settore civile si segnalano, a titolo esemplificativo, due interpretazioni fortemente innovative operate dalle Sezioni unite su questioni molto note.
5.1. Il primo caso concerne l’istituto della delibazione delle sentenze di nullità di matrimoni concordatari emesse dai tribunali ecclesiastici. Ha suscitato un amplissimo dibattito il revirement compiuto dalle due sentenze gemelle delle Sez. un., 17 luglio 2014, n.26379 e 16380[45]. Le due sentenze hanno affermato che la convivenza “come coniugi”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio, integra una situazione giuridica di “ordine pubblico italiano”[46], ostativa alla dichiarazione di efficacia della sentenza di nullità del matrimonio pronunziata dal tribunale ecclesiastico. La stessa questione era stata già affrontata dalle Sez. un., 20 luglio 1988, n.4700, che avevano risolto in modo opposto un contrasto emerso nell’ambito della prima sezione civile della Cassazione. Detta sezione aveva poi seguito le Sez. un. del 1988, ma, negli anni 2011 e 2012, aveva espresso dissensi. Rimessa nuovamente la questione alle Sez. un., queste, con le due sentenze citate, hanno ribaltato il proprio precedente orientamento, dando una interpretazione diversa ad una normativa rimasta immutata. Il revirement è stato essenzialmente fondato sulla tutela della convivenza coniugale, riconducibile a principi desunti dalla Costituzione e dai diritti fondamentali previsti dalle normative europee (Cedu, artt. 8 e 12; Protocollo Cedu n.7, art.5; Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., art.7)[47]. L’applicazione di tali principi ha portato il massimo collegio a dare rilevanza alla convivenza “come coniugi” successiva alla celebrazione del matrimonio (convivenza prevista dall’art.123, secondo comma, c.c., come ostativa soltanto alla azione di impugnazione del matrimonio per simulazione[48]), ed a fissare la durata minima (triennale) di tale convivenza[49] come elemento necessario per concretizzare la situazione di ordine pubblico interno impeditivo della delibazione della sentenza canonica.
Il raffronto tra i principi generici invocati a fondamento del revirement delle Sezioni unite e la specifica regola giuridica che i giudici ne hanno tratto per configurare un preciso limite alla delibazione della sentenza di nullità dei tribunali ecclesiastici, mostra in modo evidente la forte innovatività e creatività del più recente orientamento giurisprudenziale, che qui si segnala con la finalità di mera constatazione di come oggi viene intesa l’interpretazione della legge, e quindi senza compierne alcuna valutazione inerente alla sua fondatezza[50].
Si è detto in dottrina[51] che le norme costituzionali (a cui possono parificarsi quelle delle Carte dei diritti fondamentali dianzi citate), applicate, come si è visto, dalle Sez. un. nelle sentenze qui considerate, determinano “la rottura del paradigma della fattispecie”, perché esse affermano principi senza delineare fattispecie astratte entro cui sussumere i fatti concreti. Va, però, osservato che il supremo collegio ha fatto esplicitamente applicazione di principi, ma ne ha tratto la costruzione di una regola, e cioè di una nuova fattispecie astratta consistente in un preciso limite generale alla delibazione delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario, limite non previsto né espressamente, né implicitamente dalla normativa ordinaria, ma creato in via giurisprudenziale. Ciò, però, a ben vedere, è insito nella funzione di nomofilachia della Cassazione, il cui esercizio è rivolto non tanto a decidere il caso concreto sottoposto al giudice, quanto ad orientare la decisione dei casi futuri[52].
Si nota che le Sez. un. tacciono sulle conseguenze pratiche del nuovo orientamento e sulla scelta di valori che è sottesa al revirement interpretativo. Essa, però, si può desumere dalla citata sentenza n.4700 del 1988 la cui tesi è stata ribaltata. In questa ultima sentenza si legge che “l’indirizzo giurisprudenziale disatteso (e oggi prevalso: n.d.r.) è mosso soprattutto da apprezzabili ragioni di tutela del coniuge più debole, il quale – sulla base della attuale normativa – è, dal punto di vista patrimoniale, insufficientemente tutelato a seguito di una pronuncia di nullità, rispetto alla più ampia tutela che riceve dalla pronuncia di divorzio”[53]. Ma, nel 1988, il giudice interprete ritenne indispensabile, per superare l’insufficiente tutela, l’intervento del legislatore, che invece, nel 2014, è stato sostituito dalla opposta interpretazione della stessa normativa.
5.2. Il secondo caso di interpretazione fortemente innovativa di una legislazione rimasta sostanzialmente immutata ha per oggetto l’art.1421 c.c., secondo cui la nullità del contratto “può essere rilevata di ufficio dal giudice”.
La giurisprudenza tradizionale ha dato di questa disposizione una interpretazione restrittiva, perché ha ritenuto di coordinare il potere officioso del giudice con il principio della domanda (art.99 c.p.c.) e con il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art.112 c.p.c.). La conseguenza è stata che la rilevabilità di ufficio di una causa di nullità contrattuale era riconosciuta solo nel caso di domanda avente per oggetto l’adempimento del contratto, e non invece la risoluzione, la rescissione o l’annullamento. Se in queste tre ultime ipotesi il giudice avesse rilevato ex officio la nullità del contratto sarebbe incorso nel vizio di ultrapetizione. L’orientamento giurisprudenziale, criticato dalla prevalente dottrina, era oggetto di dissensi all’interno della Cassazione solo per l’ipotesi di domanda di risoluzione del contratto. All’esame di questa sola ipotesi si è limitata la sentenza delle Sez. un. 4 settembre 2012, n.14828[54], che ha reso operativa in essa la rilevabilità di ufficio della nullità, senza però pronunziarsi sulle altre ipotesi di domanda di rescissione o di annullamento. Le sentenze delle Sez. un. 12 dicembre 2014, n.26242 e 26243[55] hanno, invece, affermato l’applicabilità dell’art.1421 c.c. (e quindi il rilievo di ufficio) in tutti i casi sopra indicati, seguendo perciò un orientamento del tutto opposto a quello tradizionale. Il potere officioso del giudice è stato esteso anche al rilievo di una causa di nullità diversa da quella invocata dall’attore[56].
L’innovativa interpretazione dell’art.1421 c.c., data dalle due citate sentenze del 2014, è fondata su complesse ragioni sistematiche inerenti all’individuazione dell’oggetto del processo nelle azioni di impugnativa del contratto[57]. Ma, al di là delle ragioni di tecnica giuridica, la giustificazione del nuovo orientamento viene dal giudice indicata nella diversa concezione in ordine ai rapporti tra diritto sostanziale e processo, ovvero su quelli che nelle sentenze sono denominati “valori funzionali del processo”. Si afferma, nelle sentenze, “la dimensione essenzialmente strumentale” del processo; ci si preoccupa di non “avallare un evidente abuso dello strumento del processo” e di non “trasformare il processo in un meccanismo potenzialmente destinato ad attivarsi all’infinito”[58].
Si tratta di una scelta di valori, che in queste sentenze è esplicitata, a differenza di quella dell’orientamento in precedenza esposto in materia matrimoniale, probabilmente perché meno impegnativa e caratterizzante sotto l’aspetto politico. Ma questa possibile differenza di natura e di rilievo politico delle due scelte valoriali non sembra modificarne l’opinabilità. In relazione all’ampliamento dei poteri ex officio del giudice (rispetto ai poteri delle parti processuali) nella rilevazione delle nullità negoziali[59], è sufficiente porre mente all’opposto orientamento di politica del diritto che sussiste in relazione al processo penale, ove una ampia tendenza culturale ed interpretativa tende a restringere i poteri officiosi del giudice, in asserita coerenza con la scelta del sistema accusatorio operata dal codice di rito del 1988[60]. La contraddizione qui segnalata può essere ritenuta paradossale da chi abbia presente la diversa natura degli interessi in gioco nei due tipi di processi, considerato che la tutela degli interessi pubblici, sempre presente e prevalente nel processo penale, dovrebbe comportare un maggiore potere di intervento officioso del giudice.
Identica scelta di valore ha successivamente determinato un altro orientamento radicalmente innovativo delle Sez. un. civili, che, in contrasto con tutti i precedenti della Cassazione[61], hanno affermato la rilevabilità di ufficio dell’inefficacia del contratto concluso dal falsus procurator, mentre, in precedenza, si era sempre sostenuto che tale inefficacia poteva essere eccepita soltanto dalla parte interessata, e cioè dal pseudo-rappresentato[62].
5.3. Nel settore penale l’orientamento innovativo più significativo degli anni recenti va individuato in quello affermato da Sez. un., 29 maggio 2014, n.42858, Gatto[63], che ha affrontato il problema degli effetti sul giudicato di condanna della sentenza di illegittimità costituzionale di norma penale diversa da quella incriminatrice. In ordine agli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma incriminatrice dispone l’art.673 c.p.p., secondo cui il giudice dell’esecuzione revoca la sentenza di condanna già passata in giudicato. Nulla è invece previsto dalla legge per gli effetti della pronunzia di illegittimità costituzionale di una norma non incriminatrice (relativa, per esempio, ad una circostanza aggravante), incostituzionalità che non fa venire meno la condanna, ma è idonea ad incidere sul trattamento sanzionatorio, rendendo meno grave quello inflitto con la sentenza passata in giudicato prima della pronunzia della Corte cost.. Le Sez. un. hanno ritenuto che il giudicato possa essere modificato dal giudice dell’esecuzione sulla base di una “nuova lettura”[64] dell’art.30, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n.87, sul funzionamento della Corte costituzionale, secondo cui “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali”[65]. La lettera della disposizione ora trascritta, prevedendo la cessazione di “tutti gli effetti penali”, si riferisce, chiaramente, alla incostituzionalità della norma incriminatrice perché l’incostituzionalità di una norma che incide sul solo trattamento sanzionatorio lascia sussistere il giudicato di condanna, potendo determinare solo la riduzione della sanzione. Ma le Sez. un. ritengono che l’innovativa interpretazione dell’art. 30, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 sia consentita dalla “più generale tendenza verso la flessibilità del giudicato” e dal pieno perseguimento dei valori costituzionali, che impongono la cessazione della “esecuzione della pena o della parte di pena che ha trovato fondamento nella norma dichiarata incostituzionale”[66].
Anche a proposito di questo innovativo orientamento interpretativo di una disposizione legislativa risalente al 1953, qualche autore lo ha ritenuto “un vero e proprio atto nomopoietico, di creazione normativa”, perché si è creata “una norma che nessuna autorità legislativa ha mai formulato”[67]. Questa norma – va qui osservato – è stata, però, desunta non solo dalla applicazione di principi costituzionali, ma anche dalla interpretazione di una disposizione ordinaria (art.30 citato), limitata nel suo tenore letterale (per il riferimento alla cessazione di “tutti” gli effetti penali della condanna), ma colta nella sua finalità (si potrebbe dire: nel suo spirito) di particolare disciplina e di ampliamento degli effetti retroattivi delle pronunzie di incostituzionalità delle norme penali.
5.4. In un secondo gruppo di casi che, nel settore penale, si intende segnalare, non si è in presenza di interpretazioni innovative (di disposizioni legislative rimaste immutate), perché le Sez. un. sono intervenute per risolvere contrasti che sul loro significato si trascinavano da lungo tempo all’interno della Cassazione, in cui coesistevano orientamenti diversi o addirittura opposti. Si è avuta, perciò, la prolungata presenza di tensioni giurisprudenziali, sulle quali solo di recente è intervenuto il collegio della Corte a cui è istituzionalmente affidata la risoluzione dei contrasti. Si tratta, in particolare, di tre sentenze delle Sez un., tutte relative alla interpretazione di disposizioni normative in tema di furto dettate dal c.p. del 1930. L’esistenza duratura dei contrasti all’interno della Cassazione e la conoscenza delle ragioni della loro risoluzione si rivelano particolarmente utili al fine di indagare sui fattori causativi delle tensioni interpretative.
Si indicano le sentenze secondo l’ordine logico delle questioni affrontate.
- a) Sez. un., 17 luglio 2014, n.52117, Pg. in c. Prevete[68], hanno individuato il momento consumativo del reato di furto, che si realizza, sotto l’aspetto oggettivo, da chi “si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene” (art.624 c.p.). Il problema si è posto in relazione ad episodi di furto nei supermercati. Due le tesi principali in contrasto. Quella maggioritaria riteneva consumato il reato nel momento in cui colui che ha preso la merce dagli scaffali del supermercato passa davanti alla cassa senza pagarla, ritenendo irrilevante che il fatto sia avvenuto sotto il controllo del personale incaricato della vigilanza, il quale intervenga dopo il superamento della cassa da parte dell’agente. Quella minoritaria ed anche meno recente riteneva, invece, che l’esistenza di tale controllo faceva qualificare la condotta dell’agente come tentativo di furto, poiché il controllo stesso aveva impedito che l’agente conseguisse l’impossessamento della merce non pagata alla cassa, e cioè l’autonoma disponibilità della merce sottratta[69]. Il contrasto dipendeva chiaramente dal significato che si dà ai termini usati dalla legge di “impossessamento” e di “sottrazione” e dal rapporto che si ravvisi tra di essi, con la conseguente rilevanza o meno della esistenza di una azione di vigilanza sulla condotta furtiva.
Le Sez. un. hanno risolto il contrasto condividendo l’orientamento minoritario e quindi ritenendo l’esistenza del tentativo, anziché del reato consumato[70].
- b) Sez. un., 18 luglio 2013, n.40354[71], Sciuscio, sono intervenute per risolvere un contrasto interpretativo sulla circostanza aggravante speciale del furto prevista dal n.2 dell’art.625 c.p. (“se il colpevole si vale di qualsiasi mezzo fraudolento”). In particolare, si sono avute sentenze della Corte di legittimità contrastanti sul problema se la detta aggravante sia o meno sussistente nella condotta del ladro che abbia prelevato ed occultato sulla sua persona o nella borsa merce esposta nell’esercizio di vendita self-service. La questione ha implicazioni sulla perseguibilità del delitto di furto, che è punibile a querela della persona offesa quando non ricorre alcuna delle aggravanti previste dall’art.625 (o dall’art. 61 n.7 c.p.).
Il problema consiste nella interpretazione del concetto di mezzo fraudolento. Le Sez. un., condividendo l’orientamento che restringe l’ambito di applicazione dell’aggravante, hanno ritenuto che questo mezzo non sia concretizzato dal mero occultamento della merce, che è un “banale, ordinario accorgimento che non vulnera in modo apprezzabile le difese apprestate a difesa del bene”, ma che occorra, per la sussistenza della aggravante, una condotta “dotata di marcata efficienza offensiva e caratterizzata da insidiosità, astuzia, scaltrezza”[72].
- c) Sez. un., 24 aprile 2017, n.34090, Quarticelli, rv. 270088, hanno risolto un contrasto su un’altra circostanza prevista dall’art.625 c.p., quella del n.4 (“se il fatto è commesso con destrezza”), contrasto, come si è detto, rilevante anche al fine della punibilità del reato di furto (di ufficio o a querela di parte).
Anche qui si erano formati due indirizzi interpretativi espressi da numerose sentenze della Cassazione. Secondo le parole della sentenza[73], un primo indirizzo “di risalente formazione riconosce la circostanza aggravante in ogni situazione in cui l’agente colga l’occasione favorente la realizzazione dell’impossessamento, inclusa la momentanea sospensione da parte della persona offesa del controllo del bene, perché poco attenta, oppure per essere impegnata, nello stesso luogo di detenzione della cosa o in luogo immediatamente prossimo, a svolgere le proprie attività di vita o di lavoro. A tale linea interpretativa si oppone altro orientamento, il quale esclude la destrezza nella condotta di chi si avvalga di un momento di distrazione o del temporaneo allontanamento dal bene del suo detentore”. Le Sez. un. hanno aderito al secondo indirizzo, ritenendo che la “destrezza sussiste qualora l’agente abbia posto in essere, prima o durante l’impossessamento del bene mobile altrui, una condotta caratterizzata da particolare abilità, astuzia ed avvedutezza ed idonea a sorprendere, attenuare o elidere la sorveglianza del detentore sulla res, non essendo sufficiente che egli si limiti ad approfittare di situazioni, non provocate, di disattenzione o di momentaneo allontanamento del detentore medesimo”[74]
Non si intende qui porre in discussione la fondatezza degli orientamenti delle Sezioni unite, che hanno ricevuto ampie adesioni in dottrina[75]. Si vuole, invece, mostrare come le contrapposte tesi che, sui tre problemi, sono coesistite a lungo nell’ambito della Cassazione, ed anche quelle scelte poi dalle Sezioni unite, siano tutte sostenibili in quanto fondate su corretti argomenti interpretativi delle disposizioni legislative vigenti. Il fatto è che queste disposizioni del codice penale sono ambigue e non contengono contenuti definitori precisi, onde si prestano – non solo per l’argomento letterale ma anche per lo spirito che, risalendo esse al 1930, può essere oggi inteso in senso diverso da quello della loro origine – a più interpretazioni, tutte tecnicamente possibili. Ed ecco allora che la prevalenza dell’uno o dell’altro degli argomenti interpretativi è conseguenza della scelta di valori (che si potrebbe anche qualificare come scelta etico-politica) compiuta dall’interprete, nel nostro caso dalle Sez. un.. Questa considerazione sembra essere condivisa da una delle tre sentenze del supremo collegio (la n.40354/2013, sulla interpretazione del mezzo fraudolento), ove si osserva che la disciplina delle circostanze aggravanti speciali del furto è caratterizzato “da uno speciale rigore sanzionatorio che a molti pare eccessivo, anche in considerazione del mutamento della gerarchia di valori determinato dalla Costituzione”[76]. Ed infatti le soluzioni che ai tre contrasti interpretativi hanno dato le Sezioni unite sono accomunate dal risultato pratico di attenuazione delle sanzioni applicabili al ladro, a seguito dell’ambito ampliato del tentativo (rispetto al delitto consumato) e delle nozioni più restrittive di mezzo fraudolento e di destrezza.
- Segue. Riflessioni sui casi di tensioni dovute a scelte di valore.
I quattro esempi di tensioni interpretative indicati nel precedente paragrafo sono molto diversi, oltre che nelle materie coinvolte, negli argomenti interpretativi utilizzati, di volta in volta, dalle sentenze delle sezioni semplici e poi delle Sezioni unite. I casi sono stati qui accostati perché, concernendo disposizioni legislative rimaste per lungo tempo immutate, si prestano ad analisi concentrate sull’attività interpretativa del giudice, senza che, nella spiegazione delle tensioni giurisprudenziali verificatesi, possa essere coinvolto il legislatore, al quale pertanto le tensioni stesse non sono direttamente imputabili (a differenza di quelle degli esempi qui esposti nei § 3-4).
L’analisi casistica compiuta ha mostrato che la soluzione delle questioni postesi alla Cassazione è stata, in tutti i casi, determinata, in maggiore o minore misura, da scelte di valore (o etico-politiche) compiute dai collegi giudicanti che hanno seguito l’una o l’altra tesi, al di là delle argomentazioni tecniche pur esposte con ampiezza e profondità (come è sempre nelle decisioni delle Sez. un.).
Ma vi sono, tra i quattro esempi, anche differenze che è utile rilevare.
- a) Nei casi indicati sub 5.1 (delibazione delle sentenze di nullità matrimoniali dei tribunali ecclesiastici) e § 5.3 (effetti sul giudicato penale delle illegittimità costituzionale di norme non incriminatrici) le sentenze delle sezioni unite hanno, essenzialmente, fatto applicazione di principi generali desunti dalla Costituzione (e anche, nel primo caso, dalla tutela, a livello europeo, dei diritti fondamentali). Ma differente, nei due esempi, è il rapporto tra i principi applicati e le regole giuridiche che i giudici hanno da essi tratto. Nel primo caso, come si è già rilevato, si è costruita una regola del tutto nuova nell’ordinamento perché essa non ha corrispondenza in alcuna disposizione legislativa, ove non è prevista la convivenza “come coniugi” per almeno tre anni come fatto ostativo alla delibazione o comunque rilevante sul rapporto matrimoniale; nel secondo caso l’applicazione del principio ha comportato, invece, l’ampliamento di una specifica disposizione legislativa esistente, che già regola gli effetti delle dichiarazioni di incostituzionalità sul giudicato penale. Qui l’applicazione del principio non ha creato una regola completamente innovativa, ma ha allargato l’ambito di una regola già presente nel sistema normativo. Ben più ampio, allora, si ravvisa lo spazio creativo utilizzato dall’interprete nel primo caso rispetto a quello del secondo caso.
Ma, a ben vedere, i due casi differiscono anche per quanto attiene alla individuazione ed incidenza dei principi applicati rispetto alla questione risolta. Nel primo caso la tutela della convivenza tra coniugi (affermata anche quando non vi sia stata filiazione) viene richiamata in situazioni in cui detta convivenza è ormai cessata perché è intervenuta la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario da parte dei tribunali ecclesiastici ed i coniugi sono in contrasto sull’attribuzione di efficacia di questa nullità nell’ordinamento civile. Il richiamo del principio è, in realtà, finalizzato a pervenire ad un obiettivo diverso: la tutela del coniuge economicamente più debole. Questa tutela viene incorporata nella nozione di ordine pubblico interno con l’effetto di ampliarne l’ambito di applicazione, in contrasto però con la tendenza della giurisprudenza a restringere il contenuto di tale limite posto all’efficacia di sentenze ed atti stranieri[77].
Nel secondo caso il principio applicato è quello degli effetti invalidanti delle pronunzie di illegittimità costituzionale e della maggiore estensione di questi effetti rispetto al giudicato penale. Questo principio è chiaramente pertinente alla questione affrontata e direttamente incidente sulla sua soluzione.
I due casi esemplificativamente qui segnalati mostrano come l’interpretazione secondo principi non segua sempre gli identici percorsi metodologici, potendo essere diversi sia il rapporto tra il principio richiamato e la regola applicata (ricollegata in modo più o meno stretto alla disposizione legislativa che configura una determinata fattispecie astratta), sia la pertinenza e la forza dello stesso principio.
I due orientamenti giurisprudenziali, pur nel differente spazio di creatività interpretativa utilizzato e nella maggiore opinabilità del primo di essi, si fondano sul criterio della interpretazione conforme a Costituzione, criterio incentivato in linea generale dalla Corte costituzionale[78], ma dalla stessa Corte censurato in qualche isolata applicazione fattane dalla Cassazione, sia civile che penale[79].
- b) Gli esempi indicati sub 5.2 (rilevabilità di ufficio delle nullità negoziali) e § 5.4 (disciplina codicistica del delitto di furto) indicano tensioni giurisprudenziali derivanti da una diversa interpretazione di enunciati legislativi che si prestano ad assumere significati differenti, tutti compatibili con la loro formulazione letterale. Anche tra questi due casi sussistono, però, differenze sul tipo di scelta valoriale compiuta dall’interprete.
Nel primo caso si è già detto che l’interpretazione innovativa delle sez. un. si ricollega – come viene espressamente riconosciuto nelle citate sentenze del 2014 – alla concezione del rapporto tra diritto sostanziale e processo, e quindi ad una scelta sistematica di carattere generale che comporta la prevalenza della disposizione del codice civile rispetto alle regole processuali, le quali in precedenza si riteneva che dovessero essere coordinate con la norma sostanziale, che pertanto finiva con l’essere ridotta nell’ambito della sua operatività.
Nel secondo caso il contrasto sul significato delle disposizioni applicabili al delitto di furto deriva dalla ambiguità e pluralità di significati delle espressioni usate dalla legge (impossessamento, mezzo fraudolento e destrezza). Esse possono essere intese in senso ampio ovvero ristretto. La scelta, per quanto possa essere fondata sul significato dei termini della legge, risente delle valutazioni dell’interprete sulla gravità del trattamento sanzionatorio stabilito dal legislatore. Tale valutazione può essere ricollegata alla interpretazione delle norme costituzionali, ma è tipicamente valoriale. Essa, come si è visto, è stata esplicitata in una sola delle tre sentenze delle sezioni unite qui considerate, mentre nelle altre due è rimasta inespressa, come se fosse stata assente nei lunghi contrasti all’interno del giudice di legittimità e, altresì, nelle scelte del massimo collegio[80].
- Considerazioni conclusive: la discrezionalità del giudice.
I casi concreti di tensioni giurisprudenziali qui presi in considerazione hanno consentito di individuare alcuni fattori causativi delle stesse. L’analisi è ben lungi dall’essere completa poiché si sono trascurate alcune cause di particolare complessità, come, per esempio, il rapporto tra l’ordinamento interno e le sentenze delle Corti di Lussemburgo e di Strasburgo, i cui effetti pongono problemi spesso originali e di non facile soluzione[81].
Innanzitutto si è tenuto ad isolare le tensioni imputabili al legislatore, per sue inerzie o per difetti dell’intervento legislativo. Le prime sono, di regola, meno rimproverabili dei difetti della legge perché l’inerzia è, di frequente, effetto della difficoltà della materia da regolare e del mancato sufficiente consenso sul contenuto della nuova legge. I secondi, per lo più dovuti ad una tecnica legislativa inidonea, sono particolarmente gravi quando sono, per così dire, dolosi, perché la genericità della disposizione legislativa è il risultato voluto di un mancato accordo politico su qualche punto della nuova disciplina, onde lo scioglimento del nodo politico viene così consapevolmente rimesso alla giurisdizione.
In presenza di pronunzie giudiziarie che, per il loro contenuto, determinano un dibattito nell’opinione pubblica, non è infrequente l’affermazione che il giudice non ha fatto altro che applicare la legge, onde, se la pronunzia non si condivide, la critica va rivolta al legislatore, e non al giudicante. È una osservazione valida in non pochi casi, ma non sempre. Con la presente relazione si è ritenuto di sottolineare la netta distinzione, attraverso l’indicazione di alcuni casi concreti, tra le due situazioni. E sarebbe opportuno che, nelle discussioni almeno tra gli addetti ai lavori, questa distinzione non fosse mai persa di vista.
Il Convegno, concernendo il rapporto tra la legge ed il giudice, ha riguardo, probabilmente, alle sole tensioni non addebitabili al legislatore. Si è constatato che queste tensioni, attinenti all’interpretazione di una legge che non presenti gravi imperfezioni tecniche, derivano, più che dal contrasto tra lettera e spirito della stessa legge, dalle scelte di valore (e cioè etico-politiche) che l’interprete può normalmente compiere negli spazi di discrezionalità che gli enunciati normativi necessariamente gli lasciano.
Le tensioni giurisprudenziali esaminate nei § 5-6 costituiscono, secondo l’opinione dello scrivente, una chiara conferma della concezione secondo cui l’attività interpretativa della legge si connota per la normale presenza in essa di una sfera di discrezionalità dell’interprete, e quindi di quel particolare interprete che è il giudice. La discrezionalità giudiziaria sta ad indicare che le disposizioni normative offrono la possibilità di diverse interpretazioni, e cioè la possibilità di trarre da esse nome di diverso contenuto utilizzando argomenti differenti, ma tutti legittimi. Un autore che ha approfondito questo tema[82] ha definito la discrezionalità giudiziaria come “il potere conferito al giudice di scegliere tra due o più alternative, ognuna conforme alla legge”. L’approfondimento è riferito al “diritto giurisprudenziale di Common Law”, ma la discrezionalità è ritenuta esistente in “tutti i sistemi giuridici e fa sorgere problemi comuni”[83].
L’esperienza personale di componente e di presidente delle Sezioni unite mi ha fatto percepire che la discrezionalità del giudice esiste anche nel nostro ordinamento a base legislativa. I contrasti giurisprudenziali o le questioni di massima che in tale sede (sia penale che civile) ho contribuito a decidere avevano, di regola, più soluzioni sostenibili con corretti argomenti interpretativi. Il mio ruolo, come relatore o come presidente, l’ho inteso, innanzitutto, come delimitazione dell’ambito di tali soluzioni possibili e conseguente rigetto delle tesi prospettate che fuoriuscivano da tale ambito. Tra le tesi tecnicamente sostenibili operavo, poi, la scelta di quella da me ritenuta preferibile. Le due operazioni argomentative hanno assunto una collocazione diversa anche temporalmente quando ho esercitato la funzione di presidente del collegio, perché nell’intervento introduttivo (terminata l’esposizione del relatore) mi limitavo solitamente a delineare l’ambito delle tesi sostenibili e, solo alla fine della discussione collegiale, esprimevo la tesi da me preferita, al fine di escludere qualsiasi anche astratta possibilità di condizionamento dei membri del collegio.
Credo che il termine di discrezionalità (della interpretazione) giudiziaria possa utilmente sostituire quello, ormai abusato e soprattutto equivoco[84], di creatività della giurisprudenza. Il primo termine, a differenza del secondo, reca in sé, come elemento indefettibile, quello dei limiti, mentre la creatività può fare pensare all’arbitrarietà[85].
Della esistenza della discrezionalità giudiziaria si tarda a prendere atto nella nostra giurisprudenza ove tuttora prevale la tesi della natura cognitiva dell’attività interpretativa della legge[86]. La consapevolezza della sua esistenza, almeno nei “casi difficili” (quali sono, di regola, quelli sottoposti alla decisione delle Sezioni unite), indurrebbe a studiarne le caratteristiche e soprattutto ad individuarne i limiti.
Il discorso sui limiti della discrezionalità giudiziaria, per quanto è essenziale, per tanto è complesso[87]. Esso rimane fuori dal presente scritto. Espongo una sola considerazione che ci riporta alla distinzione tra lettera e spirito della legge.
Nella monografia di fine secolo di Vittorio Frosini, che si è richiamata all’inizio della presente relazione per la coincidenza tra il suo titolo e quello del Convegno[88], si esprimeva la necessità, nell’attività interpretativa, di andare oltre la lettera e di valorizzare lo spirito della legge, in opposizione alle dottrine che la riducono “alla dimensione dell’analisi linguistica”[89]. Oggi l’interprete che applica principi generali e che è chiamato ad attribuire alle disposizioni legislative un significato conforme alla Costituzione, al diritto dell’Unione ed alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, si sente molto più libero rispetto agli enunciati normativi. Questo ampio spazio riconosciuto all’interprete rischia di essere eccessivo e di superare il confine, imposto dalla nostra Costituzione, tra legis-latio e iuris-dictio[90]. Da qui deriva l’importanza da attribuire alla lettera della legge, con cui l’interprete è tenuto a confrontarsi[91], cogliendo tutti i significati che da essa sono estraibili ed anche superandoli se vi sono argomenti per pervenire ad una conclusione antiletterale. Può, in proposito, ricordarsi una semplice frase di Francesco Carnelutti: “l’interpretazione testuale traccia i confini entro i quali liberamente si muove la interpretazione logica”[92] e, oggi deve aggiungersi, sistematica, con riferimento alle fonti sovraordinate alla legge[93].
[1]Si prescinde dal dibattito molto ampio sulla interpretazione di questo stesso art.12 e soprattutto sul suo attuale valore, essendo il suo disposto normativo sicuramente limitato in quanto anteriore alla Costituzione repubblicana e alle sue implicazioni sia dirette (interpretazione conforme a Costituzione), sia indirette, ma incidenti comunque sulla interpretazione della legge (ordinamento dell’Unione europea e tutela dei diritti fondamentali).
[2] In un’opera della fine del secolo scorso, che ha lo stesso titolo dell’odierno Convegno (La lettera e lo spirito della legge di V. Frosini, 3 ed., Milano, 1998; la 1 ed. è del 1994) si osserva: “non è immediatamente riconoscibile quale sia lo spirito della legge, in che cosa esso consista, come lo si debba o possa definire in termini precisi; anche quando esso viene riconosciuto come esigenza interpretativa” (p.139-140).
[3] Le critiche provengono, in prevalenza, dagli studiosi del processo. Tra i tanti possibili esempi ci si limita a citare, per il processo penale, O. Mazza, Legge e potere: l’irruzione delle Corti sovranazionali, in Dir. pen. contemporaneo (rivista on line), 6 giugno 2017, p.4 (“legge sottoposta al giudice”) e, per il processo civile, G.Verde, Il difficile rapporto tra giudice e legge, Napoli, 2012, p.132 (“la legge processuale ha perso qualsiasi grado di effettività ed è diventata non più che un canovaccio che può essere adattato di volta in volta dal giudice secondo sue non sindacabili valutazioni discrezionali”). Ma la critica è frequente anche da parte degli studiosi del diritto sostanziale. Per limitarci sempre a qualche esempio si possono citare il civilista C. Castronovo, Eclissi del diritto civile, Milano, 2012 (il secondo dei tre capitoli è intitolato significativamente “Giurisprudenza creativa e dottrina remissiva”) ed il penalista A. Manna, Il lato oscuro del diritto penale, Pisa, 2017, p.47 (“il legislativo risulta ‘a rimorchio’ di un potere giudiziario che ormai sovente, in particolare nelle cd. sentenze-sistema, assurge impropriamente al rango di legislatore”).
[4] Per la pluralità di significati che può darsi al termine di “creatività” della giurisprudenza v., di recente, M. Nisticò, L’interpretazione giudiziale nella tensione tra i poteri dello Stato. Contributo al dibattito sui confini della giurisdizione, Torino, 2015, cap. IV (L’interpretazione giudiziale come terreno di scontro. Il diritto “creato” dai giudici), p.195 ss.. Per l’affermazione che “la questione della creatività della giurisprudenza è in realtà un fascio di questioni distinte” v. R. Pardolesi – G. Pino, Post-diritto e giudice legislatore. Sulla creatività della giurisprudenza, in Foro it., 2017, V, c.116. Gli autori di quest’ultimo scritto raggruppano le questioni secondo due significati della creatività giurisprudenziale: in senso semantico o interpretativo (in tal senso “l’interpretazione giurisprudenziale è sempre in qualche modo creativa”) e in senso pragmatico o produttivo (la giurisprudenza come fonte del diritto, concezione che può giustificare “i più estrosi esercizi di fantasia interpretativa”). Questa distinzione, pur delineata con acute argomentazioni, sembra, però, unificare il problema dei limiti della interpretazione con quello della efficacia del precedente giurisprudenziale.
[5] L. Ferrajoli, Contro la giurisprudenza creativa, in Questione giustizia (rivista on line), 2016, n.4 (numero monografico su Il giudice e la legge). Le parole trascritte nel testo sono, rispettivamente, a p.16 e 24. La sottolineatura è qui aggiunta.
[6] V., di recente, R. Guastini, Ignorantia iuris, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p.399 ss., che indica (nel § 3) vari tipi di difetti della tecnica legislativa costituenti ostacoli alla conoscibilità del diritto. V. anche G. Alpa, Il linguaggio omissivo del legislatore, ivi, p.415 ss., il quale contiene recenti esemplificazioni di linguaggio omissivo del legislatore che “crea problemi interpretativi e applicativi di enorme difficoltà”.
[7] Tra i tanti autori v. R. Guastini, Interpretare e argomentare, Milano, 2011, p. 63 ss.; a livello manualistico, G. Pino, Norma giuridica, in Filosofia del diritto, a cura di G. Pino, A. Schiavello, V.Villa, Torino, 2013, p.144 ss., spec. § 2.2.
[8] L’esperienza personale dello scrivente rivela come non sia rara la situazione di contrasti interni alla Cassazione che appaiono di natura interpretativa, ma che in realtà derivano dalla diversità delle concrete fattispecie alle quali la stessa norma è stata applicata, con affermazioni di carattere generale per tale motivo non uniformi. Onde il contrasto apparente si rivela, in realtà, inesistente.
[9] Una analisi della intera giurisprudenza della Cassazione potrebbe essere oggetto soltanto di ricerche limitate a specifiche materie. Come esempio può indicarsi la ricerca sulle materie di interesse ecclesiastico coordinata da C.Mirabelli sulle decisioni (edite ed inedite) emanate dalla Corte nel periodo compreso tra l’Accordo di modifica del Concordato Lateranense del 1984 e l’anno 2012. Sulla ricerca v. Il diritto ecclesiastico, 2013, n.3-4.
[10] Nella relazione si utilizzano le lezioni che, nei quattro anni più recenti, lo scrivente ha tenuto (nel corso di specializzazione per le professioni legali presso l’Università romana Lumsa) su “Metodologia ed analisi casistica della giurisprudenza delle Sezioni unite della Cassazione”, nell’ambito delle quali sono state analizzate, anche sotto l’aspetto degli argomenti interpretativi utilizzati, alcune decine di sentenze del massimo Collegio (civile e penale). Si è ritenuto opportuno, però, escludere le sentenze emanate da collegi di cui lo scrivente ha fatto parte, come presidente o consigliere, per il rigoroso rispetto del segreto della camera di consiglio (anche se la diversità tra il magistrato relatore sul ricorso ed il magistrato estensore della motivazione della sentenza è idonea a rivelare che la decisione è stata adottata dal collegio a maggioranza, e non all’unanimità).
[11] Il numero monografico di Questione giustizia dedicato al tema Il giudice e la legge (citato retro, nota 5) esamina tale rapporto anche con riferimento alle “varie branche dell’ordinamento”. L’esistenza della riserva di legge nel settore penale (art.25 Cost.) non incide sulla natura dell’attività interpretativa, ma sui suoi limiti.
[12] In Foro it., 2017, I, c.477. Questa sentenza costituisce anche l’occasione dello scritto di R. Pardolesi e G. Pino, citato retro, nella nota 4.
[13] L’indicazione dei non pochi organi giudiziari in dissenso è contenuta nella citata sentenza delle Sez. un. (§ 3-4 dei “fatti di causa”). In qualche caso il contrasto si è avuto tra organi della stessa sede giudiziaria (per esempio, Tribunale per i minorenni e Corte di appello di Catania).
[14] Sulla questione incideva anche la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo 22 settembre 2012, Godelli, che aveva ravvisato nella disciplina italiana in discorso la violazione dell’art.8 della Convenzione europea. Ma la conseguente violazione dell’art.117 Cost., pur dedotta davanti alla Corte cost., era stata dalla stessa ritenuta assorbita. Da questo ulteriore aspetto della questione, anche se esposto a suo ulteriore sostegno dalla sentenza delle Sez. un., si può perciò prescindere.
[15] In realtà le Sez. un. non individuano un unico procedimento, ma indicano come possibili due modalità procedurali in camera di consiglio, già descritte in protocolli elaborati dai tribunali per i minorenni che avevano ritenuto di dare corso alla istanza del figlio di interpello della madre (§ 11 delle “ragioni della decisione”).
[16] N. Lipari, in Foro it., 2017, I, c.492. Sulla espressione “giudice legislatore” si sofferma, recentemente, V.Ferrari, in Foro it., 2017, V, c.295, che ne rileva il carattere equivoco ed il contenuto di un ossimoro, pur potendo, in alcuni casi, esprimere la creatività del giudice che “può anche spingersi a produrre una norma giuridica priva di enunciato legislativo”, nel qual caso l’espressione ‘giudice legislatore’ assume i caratteri dell’endiadi (ma si tratta, secondo l’autore, di casi rari).
[17] L’inerzia legislativa ancora continua perché il disegno di legge n.1978/S (Modifiche all’art.28 della legge 4 maggio 1983, n.184, e altre disposizioni in materia di accesso alle informazioni sulle origini del figlio non riconosciuto alla nascita), approvato dalla Camera dei deputati il 18 giugno 2015, è in corso di esame da parte del Senato.
[18] In Cass. pen. 2015, p.1202.
[19] In Cass. pen. 2015, p.3437.
[20] Così espressamente la citata sentenza delle Sez. un. (§ 22, parte finale), che però erano chiamate a pronunziarsi solo sulla ammissibilità del sequestro preventivo. Subito dopo la risposta (negativa) al detto quesito, la stessa sentenza cita, “a margine”, le pronunzie delle Corti sovranazionali (di Strasburgo e di Lussemburgo), le quali “hanno data per scontata, ritenendola realtà acquisita, l’equiparazione tra giornale cartaceo e giornale on line”.
[21] L’orientamento delle Sez. un. penali è stato successivamente seguito anche dalle Sez. un. civili, nella sentenza 18 novembre 2016, n.23469. La Cassazione, adita dal procuratore generale a norma dell’art.363, comma 1, c.p.c., ha affermato il principio della parificazione del giornale telematico e di quello cartaceo ai fini del divieto di provvedimenti cautelari civili che siano chiesti per il dedotto contenuto diffamatorio delle notizie in esso pubblicate.
[22] § 17 della sentenza penale.
[23] Così L. Diotallevi, a commento della sentenza delle Sez. un., in Giur. cost. 2015, p.1062: La Corte di cassazione sancisce l’”equiparazione” tra giornali cartacei e telematici ai fini dell’applicazione della disciplina in materia di sequestro preventivo: un nuovo caso di “scivolamento” dalla “nomofilachia” alla “nomopoiesi”?.
[24] Casi di difettosa tecnica legislativa sono stati recentemente rilevati dal Presidente della Repubblica. Il primo con la promulgazione della legge 17 ottobre 2017, n.161, sul codice delle leggi antimafia e sulle misure di prevenzione. L’errore ha formato oggetto della lettera in pari data al Capo del Governo e resa pubblica attraverso un comunicato del Quirinale. Nella lettera si è prospettata la necessità di correggere l’errore attraverso modifiche della legge promulgata, che sono state immediatamente proposte dal Governo al Parlamento e approvate con la legge 4 dicembre 2017, n.172. Difetti meramente tecnici hanno, addirittura, impedito la promulgazione della legge approvata dal Parlamento e contenente “misure per contrastare il finanziamento delle imprese produttrici di mine antipersona, di munizioni e submunizioni a grappolo”. La legge è stata rinviata alle Camere per errori tecnici relativi alla previsione delle sanzioni (art.6), sulla quale il Presidente della Repubblica, nel messaggio previsto dall’art.74 Cost. (trasmesso il 27 ottobre 2017), ha rilevato sia il contrasto con gli obblighi derivanti da convenzioni internazionali, sia la violazione dell’art.3 Cost. (Camera dei deputati, XVII legislatura, Doc. I, n.2). Nel messaggio si è premesso che la legge (non promulgata) “contiene aspetti innovativi, che risultano indubbiamente positivi”. Il terzo caso si desume da altra lettera che il Presidente della Repubblica ha scritto (e reso pubblica) al Presidente del Consiglio all’atto della promulgazione della legge 30 novembre 2017, n.179 (Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato), con la quale è stato fatto presente che la legge promulgata doveva avere esecuzione in modo da “preserva(re) nella pienezza delle sue prerogative l’esercizio della funzione giurisdizionale”. Si è così rinviata alla fase esecutiva un coordinamento che una buona tecnica legislativa avrebbe dovuto prevedere già in sede di formulazione della nuova legge.
[25] Artt. 2621 e 2622, come innovati dal d. lgs. 11 aprile 2002, n.61.
[26] Sez. V, 16 giugno 2015, n.33774, Crespi, rv.264868 (emanata subito dopo l’entrata in vigore della legge 27 maggio 2015, n. 69), in Riv. it. dir. proc. pen., 2015, p.1486 e 8 gennaio 2016, n.6916, Banca popolare dell’Alto Adige, rv.265492, in Dir. pen. contemporaneo., 27 giugno 2016.
[27] Sez. V, 12 novembre 2015 n.890, Giovagnoli, rv.265492, in Cass. pen., 2016, p.1417.
[28] La stessa tesi è stata seguita anche da una quarta sentenza della Sez. quinta, depositata il 30 marzo 2016 in epoca successiva alla rimessione della questione alle Sez. un. (n.12793, Beccari e altri).
[29] V., per esempio, i criteri di valutazione dettati dall’art.2426 c.c..
[30] Sez. un., 31 marzo 2016, n.22474, Passarelli, rv.266803, in Cass. pen., 2016, p.2784.
[31] La distribuzione delle materie di diritto sostanziale all’interno delle diverse sezioni della Cassazione mira a rendere possibile la prevenzione o, almeno, la riduzione del contrasto interpretativo attraverso strumenti organizzativi il cui funzionamento dovrebbe essere agevolato dalla sensibilità istituzionale dei magistrati addetti alla sezione (le questioni di diritto processuale possono, però, presentarsi in ogni ricorso per cassazione, onde esse vengono affrontate da tutte le sezioni; sulle stesse, perciò, non può incidere l’organizzazione della singola sezione).
[32] Legalità tra law in the books e law in action, in Cassazione e legalità penale a cura di A. Cadoppi, Roma, 2017, p.64-65. L’episodio consente al Palazzo di notare “come questo regresso dell’ars legiferandi sia molto probabilmente una delle cause che hanno spinto tutti, Corte costituzionale, Corti europee e dottrina, a intensificare il proprio interesse per l’ars interpretandi alla ricerca di una sorta di necessario surrogato capace di consentire un recupero proprio di quella legalità effettuale che si vuole così tanto compromessa”.
[33] Le parole trascritte nel testo sono tratte dal § 8 dei motivi della sentenza delle Sez. un., dedicato ai criteri seguiti nella interpretazione della nuova legge.
[34] La legge ha introdotto, nel c.p., gli artt. 168 bis-quater, e, nel c.p.p., gli artt. 464 bis-novies.
[35] Le due sentenze sono pubblicate in Cass. pen., 2016, rispettivamente, p. 4371 e 4344.
[36] La legge ha introdotto l’art.131 bis c.p. ed ha modificato alcune disposizioni del c.p.p..
[37] Due sentenze del 25 febbraio 2016, n.13681, Tushaj, rv.266589, e n.13682, Coccimiglio, rv.266595 (in Cass. pen., 2016, p.2375 e 2388). La terza sentenza è del 22 giugno 2017, n.53683, Perini. Quest’ultima, in particolare, ha risolto un contrasto interno alla Corte affermando la non applicabilità del nuovo istituto nei procedimenti davanti al giudice di pace (ove già è previsto l’istituto disciplinato dall’art.34 della legge n.274/2000). Nella sentenza si rileva il silenzio del legislatore delegato, che non ha accolto il suggerimento (della Commissione giustizia della Camera) di prevedere un coordinamento tra il nuovo istituto del codice penale e la disciplina del giudice di pace (§ 2 parte finale della motivazione in diritto).
[38] La sostituzione del reato con l’illecito civile è stata disposta, per esempio, per il reato di ingiuria, per il falso in scrittura privata (nelle sole ipotesi previste dagli artt.485 e 486 c.p.), per il danneggiamento non aggravato.
[39] I due decreti legislativi n.7 e 8 del 15 gennaio 2016 costituiscono esercizio della delega al Governo disposta dall’art.2 della legge 28 aprile 2014 n.67.
[40] Secondo l’art.9, comma 3, parte finale del d. lgs. n.8 del 2016, concernente la depenalizzazione, “quando è stata pronunciata sentenza di condanna, il giudice dell’impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è previsto dalla legge come reato, decide sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili”.
[41] Per la documentazione sulle numerose sentenze delle sezioni semplici che si sono pronunziate sulla questione si rinvia alla decisione delle Sezioni unite di seguito indicata (§ 3-4).
[42] In Cass. pen., 2017, p.986.
[43] Effetto della interpretazione delle Sez. un. è l’onere della persona offesa (costituitasi parte civile nel processo penale e che ha ottenuto in primo grado o in appello una condanna risarcitoria impugnata dall’imputato) di agire ex novo nella sede civile per il risarcimento del danno (oltre l’eventuale irrogazione della sanzione pecuniaria civile a favore della cassa delle ammende, conseguenza del nuovo illecito civile applicabile retroattivamente anche nei processi in corso per il disposto dell’art.12, comma 1, del d. lgs. n.7).
[44] Al legislatore si potrebbe rimproverare soltanto di non avere adeguato le disposizioni rimaste immutate all’evoluzione della società. Ma si tratta di eventualità non costituente la regola nei casi di seguito indicati.
[45] La prima sentenza è pubblicata in Foro it., 2015, I, c.588.
[46] Così l’abrogato art.797, n.7 c.p.c.. V. ora l’art.64, lett. g, della legge 31 maggio 1995, n.218, che indica semplicemente “l’ordine pubblico”.
[47] Nella massima ufficiale delle sentenze si fa riferimento ai “principi supremi di sovranità e di laicità dello Stato, già affermati dalla Corte cost. con le sentenze n.18/82 e 203/89”.
[48] Va rilevato che lo stesso art.123, secondo comma, impedisce la proposizione dell’azione di simulazione anche per il semplice decorso di un anno dalla celebrazione del matrimonio. Secondo le Sez. un. del 1988 le norme contenute in detto comma, pur avendo carattere imperativo, non sono espressione di principi e regole fondamentali con le quali la Costituzione e le leggi dello Stato delineano l’istituto del matrimonio.
[49] La durata almeno triennale è desunta, in via analogica, dall’art.6 della legge 4 maggio 1983 n.184, secondo cui “l’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni”. Tale durata, secondo la sentenza, esprime la stabilità e continuità del rapporto matrimoniale (§ 3.7.3).
[50] La valutazione delle due sentenze delle Sez. un., molto lunghe ed argomentate, richiederebbe una analisi ben più approfondita, non pertinente a questa sede. Per una critica radicale delle sentenze v. E. Giacobbe, Le sezioni unite tra nomofilachia e “nomofantasia”, in Dir. famiglia, 2014, p.1416.
[51] Così N. Lipari, Il diritto civile tra legge e giudizio, Milano, 2017, p.165.
[52] Questa funzione, rivolta al futuro, è stata valorizzata dal legislatore recente, che ha previsto la possibilità per la Cassazione di decidere le questioni poste con il ricorso anche quando l’impugnazione sia dichiarata inammissibile, onde la pronunzia della Corte è destinata a non avere alcun effetto sulla decisione del caso concreto oggetto della decisione: v., nei giudizi civili, l’art.363, comma terzo, c.p.c. (come sostituito dal d. lgs. 2 febbraio 2006, n.40) e, nei giudizi penali, l’ art.628, comma 1 ter, c.p.p. (introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n.103).
[53] § 9 della sentenza delle Sez. un. 20 luglio 1988, n.4700, in Foro it.,1989, I, c.439.
[54] In Foro it., 2013, I, c.1238
[55] La prima delle due sentenze è pubblicata in Foro it., 2015, I, c.862.
[56] La rilevabilità ex officio è stata affermata anche per le nullità di protezione (il contrario era stato asserito dalla precedente sentenza Sez. un. n.14828/2012, citata). Si prescinde da questa parte della sentenza perché sul contrasto interpretativo assume rilievo il diritto dell’Unione europea (autonoma causa di tensioni giurisprudenziali che nella presente relazione non si prende in considerazione).
[57] Secondo le dette sentenze, nelle azioni di impugnativa negoziale l’oggetto del giudizio non è il diritto potestativo fondato sul singolo motivo fatto valere con la domanda, ma è l’intero fatto-negozio e, conseguentemente, il rapporto giuridico da esso derivante. L’accertamento giudiziale sull’impugnativa contrattuale si estende, perciò, all’intero contratto, a prescindere dal vizio dedotto dalle parti processuali.
[58] Le espressioni riportate nel testo si leggono nel § 4.3 della sentenza n.26242/14 e, l’ultima, nel § 4.4.1.
[59] Sugli inconvenienti derivanti dall’esercizio dei poteri officiosi nel processo civile v., di recente, Giuliano Scarselli, L’arte di respingere le domande tra serio e faceto, in Questione giustizia (rivista on line), 4 ottobre 2017, § 5-6.
[60] Può indicarsi, a titolo esemplificativo, il dibattito dottrinale sulla interpretazione degli artt.506-507 c.p.p., relativi ai poteri del giudice nella istruzione dibattimentale.
[61] Infatti il ricorso è stato rimesso dalla sezione semplice della Corte prospettando (non un contrasto già emerso, ma) “una questione di massima di particolare importanza” (la tesi seguita dalle Sez. un. era stata prospettata da qualche voce della dottrina).
[62] Sez. un., 3 giugno 2015, n.11377, in Foro it., 2015, I, c.3585. È significativo il titolo della nota di commento di A. Palmieri, Rilevabilità di ufficio dell’inefficacia del contratto concluso dal “falsus procurator”: ennesima epifania dell’interventismo giudiziale nelle dinamiche negoziali, ivi, c. 3598. Si prescinde dalla esposizione delle ragioni tecniche esposte con molta chiarezza nella motivazione della sentenza, perché rileva soltanto, ai fini della presente indagine, la considerazione che oggetto della interpretazione delle Sez. un. sono le medesime disposizioni legislative che erano state interpretate in senso opposto dalla precedente pacifica giurisprudenza di legittimità.
[63] In Cass. pen., 2015, p.41.
[64] Così espressamente la sentenza delle Sez. un., § 9.2, ultimo periodo.
[65] Il quarto comma dell’art.30, dedicato agli effetti della sola incostituzionalità delle norme penali, fa seguito al precedente comma, che invece si riferisce agli effetti di tutte le sentenze di incostituzionalità: “Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”.
[66] § 9.2 della motivazione della sentenza. L’orientamento delle Sez. un. è stato seguito da altre sentenze dello stesso consesso: v., tra le altre, 26 febbraio 2015, n.33040, Jazouli, e n.37107, Marcon, in Cass. pen., 2015, rispettivamente, p.4317 e 4337.
[67] M. Gambardella, Norme incostituzionali e giudicato penale: quando la bilancia pende tutta da una parte, in Cass. pen., 2015, p.82 ss. Lo stesso autore, peraltro, ha ritenuto che fosse “irragionevole” una disciplina che dava prevalenza al “principio di stabilità dei rapporti giuridici esauriti” rispetto al “diritto fondamentale della libertà personale (inciso dal quantum di pena relativo alla norma penale non incriminatrice incostituzionale)”. Ma, secondo l’autore, il superamento della ravvisata irragionevolezza avrebbe richiesto l’intervento della Corte costituzionale, che avrebbe dovuto ampliare il disposto dell’art.673 c.p.p., ora riferito, come si è detto, agli effetti della incostituzionalità delle sole norme incriminatrici.
[68] In Cass. pen., 2015, p.1807.
[69] La definizione delle giurisprudenze in contrasto come maggioritaria o minoritaria non si trova nella sentenza delle sez. un., ma è frutto della valutazione del numero (e, per quanto riguarda il dato temporale, della data) dei precedenti citati nella stessa sentenza (§ 3-4 della parte in diritto).
[70] Il caso concreto è così descritto nella esposizione in fatto della sentenza delle Sez. un. (§1): i due imputati, “entrambi confessi,…avevano occultato la refurtiva, celandola dentro una borsa e sotto gli indumenti; avevano, quindi, superato la cassa, senza pagare la merce nascosta, ma esibendo altro prodotto (regolarmente pagato), ed erano usciti dal centro commerciale. All’esterno del fabbricato l’addetto alla sicurezza,….il quale si era avveduto in precedenza della azione furtiva, era alfine intervenuto, promovendo l’intervento della polizia giudiziaria”. Va, però, tenuto presente che la sentenza prescinde dall’esame del caso concreto e decide la questione posta in linea generale ed astratta.
[71] In Cass. pen., 2014, p.802.
[72] Le parole virgolettate sono tratte dal principio di diritto affermato dalla sentenza delle Sez. un. (§ 7).
[73] § 2 della motivazione in diritto.
[74] Così la massima ufficiale della sentenza. Dalla sentenza si desume anche il singolo episodio giudicato: “all’interno di un esercizio commerciale veniva asportato un computer portatile, prelevato dal bancone in un momento di distrazione della titolare e dei clienti presenti. All’individuazione del responsabile …si perveniva mediante la visione delle immagini registrate dall’impianto di videosorveglianza, installato nell’esercizio, che avevano filmato costui nell’atto di scollegare i cavi di alimentazione del dispositivo, collocarlo in una borsa ed allontanarsi dal locale, il tutto con gesti rapidi e circospetti”.
[75] V., tra gli altri annotatori, relativamente alla sentenza n.52117/2014 (citata nel testo sub a), M. C. Amoroso, in Cass. pen., 2015, p.1168; A. Fanelli, in Foro it., 2015, II, c.177; in ordine alla sentenza n.40354/2013 (nel testo sub b), R.Cappitelli, in Cass. pen., 2014, p.2927; S. Vitelli, in Dir. pen. e processo, 2014, p.186.
[76] § 6 della sentenza citata.
[77] V., in particolare, la sentenza della Prima sezione civile della Cassazione, 30 settembre 2016, n.19599, in Foro it., I, 2016, c.3329, secondo cui non contrasta con l’ordine pubblico la trascrizione in Italia dell’atto di nascita spagnolo nel quale risulti la nascita di un figlio da due donne, una (spagnola) che l’ha partorito e l’altra (italiana) che ha donato l’ovulo. Sulla necessità, però, di mantenere il limite della delibazione costituito dalla Costituzione e dalle “tradizioni giuridiche con le loro diversità” v. Sez. un., 5 luglio 2017, n.16601, in Foro it., 2017, I, c.2613, § 6 (sui c.d. danni punitivi).
[78] Per un esame approfondito degli orientamenti della Corte costituzionale e per una valutazione critica degli “eccessi della interpretazione conforme alla Costituzione” v. M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, in Enc. dir.. Annali, IX, Milano, 2016, p.471.
[79] Per la giurisprudenza civile v. Corte cost., 12 marzo 2007, n.77, in Foro it., 2007, I, c.1009, la quale ha ritenuto non conseguibile in via interpretativa il risultato perseguito da Sez. un. civ., 22 febbraio 2007, n.4109, ibidem (in tema di translatio iudicii nei rapporti tra giudice ordinario e giudice speciale), pur pervenendo, attraverso una dichiarazione di illegittimità costituzionale, ad un obiettivo che va nella medesima direzione di conservazione degli effetti prodotti dalla domanda proposta a giudice poi ritenuto privo di giurisdizione. Per la giurisprudenza penale v. Corte cost., 23 luglio 2013, n.232, in Cass. pen., 2013, p.4330 (in relazione alle misure cautelari previste dall’art.273, comma 3, c.p.p. per il delitto di violenza sessuale di gruppo), la quale ha escluso “la praticabilità di una interpretazione costituzionalmente orientata” della citata disposizione normativa (§ 3), che era stata invece operata, in un altro caso concreto, dalla sentenza della sezione Terza della Cassazione, 20 gennaio 2012, n.4377, in Cass. pen., 2012, p.918. La Cassazione penale in via interpretativa, era pervenuta allo stesso risultato conseguito dalla Corte cost. attraverso la citata sentenza di incostituzionalità parziale (la pronunzia della Cassazione è citata nella parte in fatto della sentenza della Corte cost.).
La Corte cost. ha recentemente ristretto il dovere del giudice a quo di tentare una previa interpretazione conforme a Costituzione (della norma sospettata di illegittimità) come presupposto di ammissibilità della questione di costituzionalità: v. M. Bignami, Profili di ammissibilità delle questioni incidentali di costituzionalità (rilevanza, incidentalità, interpretazione conforme), § 4, in Questione giustizia, 2017.
[80] Si è condivisibilmente rilevato che “l’attività interpretativa, e specialmente quella svolta dalle corti,….è condizionata da presupposti etico-politici raramente dichiarati anche se spesso ben visibili” (R. Pardolesi – G. Pino, Post-diritto e giudice legislatore, cit., c.118.
[81] V., al riguardo, il volume curato dall’Ufficio del Massimario della Cassazione, Corte di cassazione e Corti europee, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2014, che contiene una rassegna, “tendenzialmente completa”, della “incidenza delle pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte dei diritti dell’uomo sulla giurisprudenza “della Cassazione (così l’Introduzione). Successivamente a questa pubblicazione vi è stato, nella materia penale, il c.d. caso Taricco. A seguito della sentenza della Corte di giustizia dell’8 settembre 2015, causa C-105/14, si sono posti difficili problemi interpretativi relativi alla disciplina della prescrizione dei reati in materia di Iva, risolti in modo contrastante dalla stessa sezione Terza della Cassazione, fino alla rimessione della questione alla Corte costituzionale, che, con l’ordinanza n.24 del 2017, ha sollevato una nuova pregiudiziale comunitaria, chiedendo una seconda decisione della Corte europea, emanata il 5 dicembre 2017. Sulla prima sentenza della Corte di giustizia v. A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli, 2017; sulla successiva ordinanza della Corte cost. n.24/17 v. A. Bernardi e C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti, Napoli, 2017; sulla seconda, recentissima, sentenza della Corte di giustizia si consenta il rinvio a E. Lupo, La sentenza europea c.d. Taricco-bis: risolti i problemi per il passato, rimangono aperti i problemi per il futuro, in Diritto penale contemporaneo (rivista on line), 22 dicembre 2017.
[82] A. Barak, La discrezionalità del giudice, Milano, 1995; La natura della discrezionalità giudiziaria e il suo significato per l’amministrazione della giustizia, in Politica del diritto, 2003, p.3. All’inizio di quest’ultimo scritto è la definizione di discrezionalità giudiziaria riportata nel testo. La frase sulla esistenza della discrezionalità in tutti i sistemi giuridici è tratta dal primo scritto (p.5), ove è anche la distinzione tra “soluzione legittima e soluzione appropriata” (p.6), che è quella derivante dall’esercizio della scelta discrezionale tra le più soluzioni legittime. L’autore limita la discrezionalità ai “casi difficili”.
[83] V. anche P. Grossi, La invenzione del diritto: a proposito della funzione dei giudici, in Riv. trim dir. proc. civ., 2017, p.831 ss. e in L’invenzione del diritto, Laterza, 2017, p.114 (in particolare, il § 10).
[84] V. retro, la nota 4.
[85] Il tema dei limiti (procedurali e sostanziali) è approfondito da A. Barak nei due scritti citati: La discrezionalità del giudice (nella parte II); La natura della discrezionalità giudiziaria (§ 4-6). Sui “confini della interpretazione” v., di recente, M. Luciani, Interpretazione conforme a Costituzione, cit., p.426, sia pure sulla base di una concezione della interpretazione giuridica che è critica verso la tesi della discrezionalità dell’interprete. Questo autore ammette che “gli enunciati normativi si prestino alla pluralità delle interpretazioni”, respingendo quindi “l’idea dell’unico significato del testo”; ma ritiene che vi sia una interpretazione “più corretta delle altre, che è la sola….che sia legittimo seguire” (p.438). La tesi della discrezionalità ritiene, invece, che le più interpretazioni consentite dall’enunciato legislativo e dagli altri argomenti interpretativi siano tutte legittime, e che la scelta, in un ambito che è stato delimitato con una attività di tipo cognitivo, sia, almeno nei casi difficili, di natura volitiva e decisionale della soluzione ritenuta “appropriata” (secondo il linguaggio di Barak).
[86] Ma non nella dottrina, come si è visto retro, nel §1. Per la giurisprudenza v., per es., Sez. un. civ., 11 luglio 2011, n.15144 (in Foro it., 2011, I, c.3343), che pure, in presenza di un overruling in materia processuale, ha tutelato l’affidamento della parte colpita da decadenza o da preclusione per avere seguito il consolidato orientamento precedente.
[87]I limiti sono, ovviamente, più rigidi nella materia penale. Per l’interpretazione estensiva di detta materia adottata dalla Corte dei diritti dell’uomo nell’interpretazione della Cedu v. V. Zagrebelsky, R. Chenal, L. Tomasi, Manuale dei diritti fondamentali in Europa, Bologna, 2016, p.229 s..
[88] V. retro, nota 2.
[89]Frosini, La lettera e lo spirito della legge, cit., p.4. L’autore rileva anche “il contrasto fra la lettera della legge, che sta ferma nel tempo e che perciò invecchia, e lo spirito dell’interprete che la rinnova” (p.14). Ma già allora M. Ainis, Le parole e il tempo della legge, Torino, 1996, p.10, opponeva al Frosini considerazioni “sul primato dell’interpretazione letterale, nonché sul suo riconoscimento implicito nella vigente Costituzione dello Stato”.
[90] V., oltre al numero monografico di Questione giustizia (cit. retro, nota 5), il dibattito su “Giudici e legislatori”, pubblicato su Diritto pubblico, 2016, n.2. In quest’ultima sede G. U. Rescigno prospetta il pericolo dell’arbitrio, “per cui, in nome dell’interpretazione, qualunque soluzione diventa giustificabile, purché sostenuta in modo sufficiente e accolta da chi può decidere. La conseguenza è che non è più il parlamento, e cioè la rappresentanza del popolo, a modificare le leggi, ma il decisionismo dei giudici” (p.495). Ricordo ancora la frase, più volte sentita da qualche componente di collegi giudicanti di legittimità, e pronunziata in risposta alla prospettazione di una tesi interpretativa alla quale si opponeva di fuoriuscire dall’ambito di discrezionalità dell’interprete e quindi di non potere essere correttamente motivabile, secondo cui “tutto si può motivare” (affermazione da me respinta, allora ed ora).
[91] Si prescinde qui dai problemi che, sulla interpretazione letterale, creano le difficoltà del linguaggio. Sulla tematica, v., in generale, i lavori del recente seminario su “L’involuzione del linguaggio giuridico”, tenutosi a Bologna il 16 dicembre 2016, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p.393 ss.. Nelle Considerazioni introduttive del seminario, però, N. Lipari rileva che nella situazione attuale del diritto “vi è anche un profilo evolutivo”.
[92] La frase di Carnelutti è citata da N. Irti, ‘I cancelli delle parole’ (espressione dello stesso Carnelutti), in Un diritto incalcolabile, Torino, 2016, p.83.
[93] È utile ricordare il principio espresso dalla Corte cost., secondo cui “l’univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale” (Corte cost., sentenze n.232/2013, già citata retro, nella nota 79, e n.78/2012). Va, però, tenuto presente che “l’univoco tenore” della disposizione normativa può anche essere il punto di arrivo, e non di partenza, della operazione interpretativa.
(via www.iustitiaugci.org)
Abstract
(Pubblichiamo il testo integrale della relazione tenuta dal Presidente Ernesto Lupo, in occasione del LXVII Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani svoltosi a Roma il 9 e 10 dicembre 2017, ed intitolato: “Lo spirito e la lettera della legge, oggi”.