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L’Appunto di Gustavo Ghidini. Marchio “rinomato”: punti fermi

L’Appunto

una rubrica a cura di

Gustavo Ghidini

 

L’Appunto è una rubrica mensile, una finestra di approfondimento per il giurista moderno che affronta le sfide e gli inevitabili interessi in gioco posti in essere da una realtà socio-economica e culturale sempre più complessa, espressiva e poliedrica.

La rubrica è curata dall’Avv. Prof. Gustavo Ghidini, Professore Emerito nell’Università degli Studi di Milano, Senior Professor di Diritto industriale e delle Comunicazioni nell’Università Luiss Guido Carli. Direttore dell’Osservatorio di Proprietà Intellettuale, Concorrenza e Comunicazioni dell’Università LUISS Guido Carli. Fondatore e Condirettore della Rivista “Concorrenza e Mercato” (Giuffré); Condirettore della Rivista “Annali italiani del diritto d’autore, della cultura e dello spettacolo (AIDA)” Giuffrè. Membro dell’Editorial Board del “Queen Mary Journal of Intellectual Property” del Queen Mary Intellectual Property Research Institute, University of London e membro del Comitato Scientifico della “Rivista italiana di antitrust“.

 

Avv. Prof. Gustavo Ghidini

 

 

Marchio “rinomato”: punti fermi

 

‘Fermi’ per chi scrive, ovviamente: e con la onnipresente riserva del dubbio. Li propongo ai lettori di DIMT limitandomi ai profili e argomenti che considero di prioritario rilievo (per una più estesa lettura rinvio a un saggio scritto or sono tre anni con Giovanni Cavani, per la Rivista di diritto industriale).

Lo stimolo a formulare queste note nasce da mie forti  perplessità suscitate da alcuni scritti e decisioni, che da anni si succedono, sulla portata della tutela dei marchi ‘dotati di rinomanza’ (d’ora in poi’ rinomati’). Scritti e decisioni che non sembrano nascere e procedere, come rigore scientifico vorrebbe, in un’ottica di sistema, e in una prospettiva giuspolitica, e di analisi economica, di ampio orizzonte.

 

 

Procediamo con ordine.

  1. Il primo, primissimo punto fermo, troppo spesso ‘ignorato’, è che tutti i  diritti di proprietà intellettuale (DPI) rappresentano eccezioni a un principio di generale libertà di intrapresa in un assetto di mercato  costituzionalmente ispirato (per quanto riguarda la specifica materia) alla ‘libertà eguale’ di esercitare attività economiche (concorrenza: rifrazione pluralistica della libertà di intrapresa, art: 41.1 e 3), di informare ed essere informati, alla salvaguardia dell’utilità sociale e dei fondamentali ‘diritti umani’ di cui all’art.41.2 Cost.: [NB:salvaguardia ‘opponibile’ anche alla libertà di espressione: si pensi solo al contrasto alle fake news]). Eccezionalità, dunque, dei DPI: isole in un mare di libertà, è stato ben detto. Una eccezionalità confermata, i.a., anche dalla previsione costituzionale statunitense, là dove  sancisce la limitatezza temporale dell’attribuzione di privati  su ‘science and the useful arts’( Art. 1.8.8).

 

  1. Qual è il fondamento di dette eccezioni? Per un verso (brevetti per invenzione, diritto d’autore, e paradigmi ‘ibridi’), esse sono  motivate da esigenze di protezione, contro il rischio di  free riding ‘lucrativo’, di nuovi e meritevoli risultati di attività creativa nel campo tecnologico (opere di fruizione utilitaria) o in quello ‘culturale’(opere di fruizione intellettuale). Per altro verso (marchio e altri segni distintivi), emerge la necessità di  proteggere -contro lo stesso tipo di rischio- ‘segni’ idonei a trasmettere al mercato (consumatori, intermediari) una veridica informazione circa la effettiva provenienza imprenditoriale (individuale o di ‘gruppo’) dei beni e servizi offerti – tipicamente, ricordiamo, in regime di concorrenza.  (NB: per brevetti e copyright ho detto ‘esigenze’, per il marchio ‘necessità’. Invero, tutela brevettuale e di copyright non sono necessarie per produrre e porre in commercio nuovi prodotti dell’ingegno umano; non così per la tutela di marchio, necessaria per evitare confusioni sul mercato, a danno dei consumatori e dei concorrenti onesti. In questo senso, il marchio è l’unico DPI ‘indispensabile’ in regime, appunto di libera concorrenza). Il diritto consente dunque l’ ‘appropriazione’ di elementi del patrimonio semantico (non illimitato, specie rispetto al linguaggio corrente: “nel commercio” : art 13.4. CPI ) in ragione appunto della necessità di informare i soggetti del mercato (consumatori, rivenditori) della esistenza e della ‘identità aziendale’ di beni e servi offerti. In tal modo si  consente quella ‘trasparenza del mercato’ che è anche  postulato di una concorrenza ‘socialmente utile’ (art 41. 2  cit.t). Si giustifica così —nei limiti appunto di tale necessità— la deroga all’”imperativo di disponibilità” degli elementi di quel patrimonio: principio generale di riconoscimento  internazionale, come espresso anche dalle note locuzioni Freihaltebeduerfnis, o The need to keep free. Quella giustificazione fonda il tradizionale, storico limite  della deroga: il rischio di confusione, comunque declinato (anche ‘per associazione’: da intendersi come ‘sviata’ riconduzione ad una strategicamente unitaria realtà imprenditoriale, pur se articolata in entità [societarie] giuridicamente autonome.

 

  1. La ‘rivoluzione’ della normativa comunitaria che dalla fine degli anni ’80 del secolo scorso portò, sotto la pressione delle ‘imprese di marca’ internazionalmente più affermate, a valorizzare il marchio anche come strumento di attrazione della clientela (di pubblicità, in ultima analisi) allargò quel limite, ammettendo -a condizioni precise, su cui ci intratterremo fra breve- che un marchio ‘rinomato’ possa essere protetto anche extra moenia, ossia anche contro l’uso di  segni uguali o simili praticato senza autorizzazione da terzi in settori ‘non affini’ a quello di registrazione e/o uso del titolare. E  dunque, anche oltre il pericolo di confusione.

 

  1. Siamo in presenza, a veder bene, di una deroga alla deroga—eccezione alla eccezione. E quindi da ammettere negli stretti, e strettamente interpretati,  limiti normativi in cui essa è ammessa. I limiti fissati, disgiuntivamente, dalla norma italiana, 1. c)  CPI: “Il titolare ha il diritto di vietare ai terzi, salvo proprio consenso,  di usare nell’attività economica c) un segno uguale o simile al marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, se il marchio registrato goda  nello stato di rinomanza e se l’uso del segno, anche a fini diversi da quello di contradduistinguere i prodotti e servizi, senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio o reca pregiudizio agli stessi” (corsivo aggiunto).

 

  1. Si tratta di condizioni che, in primis, dovrebbero scoraggiare ogni tentazione ad qualificare tout court la ricorrenza di una somiglianza di segni adottati extramoenia  come violazione della disciplina protettiva del marchio rinomato. Tentazione cui sembrano spesso cedere, nei fatti,  scrittori e giudici sedotti da una   ‘dottrina’, scientificamente  frusta, ma in  gran voga, che afferma un divieto generale di ‘parassitismo’: a prescindere dalla ricorrenza di  contraffazioni o atti di concorrenza sleale ex art 2598 nn. 1 e 2 cod civ. (laddove l’ulteriore richiamo alla ‘ scorrettezza professionale’, n.3 art.cit.,  operato da valenti giuristi ‘antiparassitari’ rappresenta una evidente quanto comoda petizione di principio).

 

  1. Così pure va respinta la  tentazione ad interpretare in blocco quelle condizioni in chiave di potenzialità, anziché  di attualità di effetti negativi per i titolari dei segni rinomati.  Tentazione  contrastata, manifestamente, dalla stessa lettera della legge, la quale  si esprime  in chiave di potenzialità  solo per quanto riguarda la non registrabilità (art 12) del segno del terzo,  ma non la inibizione a costui dell’uso del segno medesimo (art 20).

 

  1. Infine, e fattor comune rispetto a tutte le predette condizioni, va sottolineato un—il— punto cardine della interpretazione della disciplina. E cioè che   l’accertamento—il ‘riscontro’—della ricorrenza di quelle (disgiunte) condizioni  va condotto alla luce, e nel rispetto, della  verifica di un   presupposto ad esse comune.  Quello, in sintesi, secondo cui , “tenuto conto di tutte le circostanze”del caso, “ compreso il grado di  notorietà del marchio e il grado di somiglianza….dei segni coinvolti” ( considerando 8 Reg 207/09 CE e 11 Dir.95/08 CE), l’uso da parte del terzo di un segno uguale o simile in settore non affine possa far ragionevolmente sorgere, nella percezione ( e quindi nell’affidamento) dei consumatori (nonché,   pur in ‘meno facile’grado, gli intermediari professionali)  l’idea di un collegamento mercantile (industriale o commerciale)  fra l’azienda del terzo  e quella del titolare. Una connection,   dice l’art 16.3 TRIPs, “between those goods and the owner of the registered famous mark’. Connessione  dunque—si badi bene– non ‘da marchio a marchio’, bensì tra i beni marcati (dal terzo) al titolare (del segno rinomato) cioè alla  impresa di quest’ultimo.

 

  1. La norma dell’art 201, c) — interpretata anche in armonia con quella dei  TRIPs —  sembra  dunque indicare che detta ‘associazione’ rimandi alla evocazione (non di una mera coincidenza o somiglianza iconica, bensì) di un legame tra imprese. Legame variamente percepibile  nel senso vuoi di un decentramento ‘verticale’ , in  nuovi settori , dell’ attività del titolare (come ad esempio,nel merchandising), vuoi  di rapporti ‘orizzontali’, quali sponsorizazione, co-branding, joint venture etc). Un nesso, insomma, che  (ragionevolmente) suggerisca che l’uso del terzo avvenga sotto una qualche forma di patronage del titolare: il quale  così  appaia  ‘mettere  la faccia’ nell’attività svolta dal terzo utente -pur extra moenia– di un   marchio simile o  identico a quello rinomato. L’affermazione comporta  a contrariis, come accennato,  che a realizzare quella ragionevole  impressione di nesso mercantile fra terzo e titolare sia sufficiente una  ‘assonanza semantica’ (‘formale’), produttrice di un  mero riflesso mnemonico. Riflesso per il quale, ad esempio, l’adozione dell’aquila stilizzata da parte di Armani per marcare  capi di abbigliamento può richiamare  alla mente il marchio delle Aston Martin.

 

  1. L’affermazione di questo presupposto corrisponde a un dato difficilmente oppugnabile di evidenza empirica apprezzata secondo  buon senso. La quale  suggerisce   che ciascuna e tutte   le specifiche condizioni poste dalla normativa (pregiudizio del titolare; indebito vantaggio del terzo) possono realizzarsi solo, appunto, ove possa ragionevolmente prospettarsi quella apparenza di  business connection  fra l’impresa del terzo e quella del titolare. Sembra invero poco sensato ritenere che una mera evocazione iconica sia di per sé idonea ad indurre – in consumatori ragionevolmente avveduti – vuoi pregiudizi alla reputazione o al carattere distintivo del marchio rinomato (tarnishing e dilution by blurring). È ben difficile ipotizzare, infatti,  che i delusi della qualità di un prosciutto marcato ‘Ferrari’, pur con grafia analoga a quella usata nel marchio della casa di Maranello, riversino, mossi da quel semplice dèja vu, un’ombra negativa sulla reputazione delle celebri vetture. Lo stesso, in sostanza, dicasi per la ‘diluizione’ del carattere distintivo (e qui pur a prescindere dalla considerazione che un vero rischio di dilution by blurring è ragionevolmente improbabile in assenza di una significativa pluralità di altrui ‘appropriazioni’). Si potrebbe anzi osservare che proprio la evocazione del segno rinomato ‘ripete’ e dunque ribadisce ‘il richiamo distintivo’ del medesimo. Valga qui, inoltre, una considerazione ( che potrebbe ripetersi anche a proposito del rischio di confusione fra marchi notori e marchi di terzi in settori affini).  E cioè che il marchio, quanto più famoso, tanto più è ‘conosciuto esattamente’, fin nei particolari; per ciò stesso è quindi più  ‘autoimmune’  rispetto  al rischio di associazioni sostanziali   ipoteticamente derivanti da (mere) somiglianze semantiche. Ad esempio, i giovani cultori (di culto si tratta) di scarpe sportive di tendenza sanno benissimo che due o quattro strisce laterali non corrispondono ai modelli Adidas. Così come chiunque distingue senza alcun dubbio il cavallino della Ferrari da quello della Mustang; e  via dicendo. Questi  rilievi sembrano tanto più convincenti ipotizzando che la coincidenza/somiglianza iconica avvenga fra marchi entrambi rinomati adottati in settori diversi. Se fosse sufficiente una  mera evocazione  iconica/semantica(evocazione che si verifica pressoché sempre, ove un marchio assomigli fortemente ad un altro rinomato: chi non penserebbe ’automaticamente’ alla grande banca vedendo in profumeria una schiuma  da barba marcata’ Intesa’?) , l’impresa che per prima avesse adottato il marchio famoso dovrebbe essere ancor più danneggiata dalla successiva adozione di un marchio eguale o simile da parte di altra famosa impresa operante in un settore ‘non affine’. Una new entry celebre appare ben più ‘pericolosa’ di un Signor Rossi. Ma la realtà smentisce, qui, l’apparenza: richiamando un esempio di poc’anzi, nulla indica che l’aquila stilizzata dei capi di  Armani abbia offuscato l’immagine delle Aston Martin.

 

  1. Considerazioni del tutto analoghe si propongono in ordine all’altra condizione della tutela extra moenia: la realizzazione, da parte del terzo di un “indebito vantaggio”. Condizione, anzi, affermata per prima dalla norma (e si noti : la sola posta dall’art 16.3 cit.  dei TRIPs ).  Sembra invero azzardato ipotizzare che un consumatore normalmente avveduto si faccia influenzare, nella decisione di acquisto di un appartamento in un residence dal fatto che il nome del residence (richiamo uno storico caso) evochi  quello di un famoso champagne…. E qui –  proprio con particolare evidenza a proposito di siffatto ‘vantaggio’ – l’ esigenza di (una ragionevole apparenza di) un collegamento sostanziale, ‘di mercato’, tra i titolari dei marchi in conflitto è confortata dalla saldatura fra il dato normativo testuale e una ulteriore,  ben difficilmente . contestabile, evidenza empirica. Invero, la stessa statuizione legislativa della predetta condizione risulterebbe sostanzialmente superflua: posto che la fama del marchio convoglia di per sé una suggestione ‘empatica’. Approfondendo ancora  un poco , sembra legittimo chiedersi se, in ultima analisi, la condizione dell’ ‘indebito vantaggio del terzo, non debba anch’essa ricondursi a un pregiudizio del titolare: in termini, tipicamente, di perdita di chances di espansione diretta o tramite licenziatari nel/i settore/i, appunto, ‘non affine/i’. L’ipotesi interpretativa è confortata dal testo della norma del TRIPs (art.16.3) secondo la quale, come ricordato, l’uso per prodotti ‘not similar’ è illecito se, nel suggerire la ‘connection’, ha l’effetto di “prejudice same owner’s interests”. Ed è altresì confortata, nell’ordinamento italiano, dal richiamo ai principi generali in tema di ingiustificato arricchimento: i quali ,come noto, condizionano la tutela indennitaria all’esistenza di una “correlativa diminuzione patrimoniale” (art. 2041 Cod. Civ.). In ogni caso — qualunque dei due concetti di ‘nesso’ si accolga ( meramente iconico ovvero sostanziale/ mercantile), per  ridurre il rischio di ostacolare la libertà di comunicazione commerciale dei terzi, il rigore con cui si dovranno verificare le condizioni  di legge per la tutela extra moenia del marchio rinomato, deve investire, in senso garantista della libertà di concorrenza, il regime dell’onere della prova delle predette condizioni. E quindi si deve porre a carico del titolare l’onere di una prova diretta, e di concreto oggettivo ‘contenuto’  economico, dell’indebito vantaggio del terzo ovvero  del pregiudizio del titolare. Così pure a carico del titolare deve porsi la dimostrazione, almeno prima facie,  dello specifico carattere «indebito» di detto  vantaggio. In tal modo, verrebbe attenuata l’intensità del potenziale leverage del ‘potere di mercato’ connesso alla tutela marchio rinomato in mercati distinti: quelli  appunto  di prodotti o servizi «non affini».

 

  1. Un ulteriore significativo e pur indiretto conforto, d’ordine logico e sistematico, alla posizione qui sostenuta  viene dalla  Convenzione di Unione  di Parigi, il cui art. 6 ter, 1c) vieta l’uso di segni di istituzioni pubbliche e simili ove l’uso sia  ”di tale natura da suggerire, nell’apprezzamento del pubblico un nesso tra l’organizzazione in questione e  gli stemmi , bandiere, emblemi, sigle o denominazioni e se questo uso (…) sia verosimilmente tale da trarre in inganno il pubblico sull’esistenza di un nesso tra l’utente e l’organizzazione”.  (corsivi miei). Ora, si consideri (i) che i segni di istituzioni pubbliche sono di per se, e ovviamente, ‘dotati di rinomanza’; (ii) che la loro stessa riferibilità istituzionale evoca – come conferma la citata norma – una particolare esigenza di protezione. Dunque, se la protezione di tali segni di speciale importanza richiede l’accertamento della ragionevole percezione di un legame sostanziale con l’istituzione titolare, con quale giustificazione un segno commerciale privato potrebbe beneficiare di un più alto grado di protezione, sulla base di una mera coincidenza / similarità iconica?!

 

  1. Non basta: ché il rifiuto della linea interpretativa qui sostenuta comporterebbe un’ulteriore, e  paradossale, contraddizione sistematica: di proteggere la reputazione del marchio più intensamente di quella della persona umana (e giuridica). Discriminazione assurda, e ovviamente contrastante con il principio costituzionale di eguaglianza giuridica. Basti riflettere su un dato incontrovertibile: un famoso sportivo o una associazione culturale possono vietare l’uso del proprio nome, evocativo della loro reputazione, qualora la relativa menzione possa indurre il pubblico a ritenere che essi siano (in senso ampio) gli sponsor di questo o quel prodotto o iniziativa. Nessun illecito è invece configurabile, quindi nessun potere di interdizione, ove il contesto del richiamo al nome faccia ragionevolmente pensare ad una fortuita coincidenza od ad una mera omonimia. Coincidenza ed omonimia che non integrano alcuna ‘falsa rappresentazione’ della loro personalità: proprio perché questa non viene ‘coinvolta’ — chiamata in causa – agli occhi del pubblico. Per quale ragione, allora, e con quale coerenza, accordare a marchi di prodotti industriali una tutela più intensa di quella riconosciuta alla persona umana?!

 

  1. Di più. Oltre i confini, pur obbligati, della coerenza logica e sistematica, consideriamo che il rifiuto del presupposto della apparenza di un nesso sostanziale, d’ordine commerciale, come distinto dal  mero riflesso iconico, comporta il rischio di effetti negativi per la libertà di concorrenza  sub  specie di libertà di comunicazione commerciale che, in materia di marchi, è presidiata dal  già ricordato  ‘imperativo di disponibilità’. Invero, se pur in assenza di quell’apparenza di rapporti fra imprese, e dunque in effettiva assenza di pregiudizi e indebiti vantaggi,  si mantenesse fermo il potere interdittivo del titolare anche in settori ‘non affini’ a quello/i di registrazione, si produrrebbe un effetto di ‘leva’ di natura  monopolistica attraverso il  mantenimento  in vita di  una registrazione in un certo settore nonostante l’assenza di un uso effettivo del segno, e quindi in sostanza ad impedirne ai terzi l’adozione  grazie anche al correlato potere di invalidazione per entrare in quel settore. Il che si tradurrebbe immediatamente in una restrizione (non giustificata da alcun attuale effettivo legittimo interesse del titolare del marchio rinomato) della libertà di iniziativa economica dei terzi. Non si dimentichi infatti  che la portata della libertà di scelta di un segno distintivo (ovviamente, in assenza di confusioni)[1] incide sul grado di libertà di accesso a un determinato mercato[2]. In conclusione, l’estendere la protezione esclusiva extra moenia dei marchi rinomati oltre il confine di una ragionevole apparenza di rapporti mercantili fra le imprese coinvolte, aprirebbe un vaso di Pandora di effetti anti-competitivi — segnatamente in termini di ‘preemption’ – di portata indeterminata. Ogni  qual volta  una coincidenza o somiglianza iconica stimolasse la mera evocazione mnemonica del marchio rinomato, il titolare verrebbe a disporre del potere di impedire l’uso di nomi, forme, cromatismi etc., anche in ‘lontani’ settori nei quali il titolare stesso non si stia nemmeno preparando ad entrare, né sia comunque credibilmente ipotizzabile (da parte del consumatore) un suo ingresso.

 

     Gustavo Ghidini

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