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L’atleta paralimpica Marieke Vervoort è morta per eutanasia: perché è importante investire nelle terapie del dolore

Marieke Vervoort, atleta paralimpica belga vincitrice anche di una medaglia d’oro ai Giochi di Londra 2012, è morta martedì scorso facendo ricorso all’eutanasia, legale in Belgio. Vervoort soffriva di una malattia muscolare degenerativa che, come lei stessa aveva più volte raccontato, le provocava dolori molto forti e la costringeva ad assumere alte dosi di antidolorifici.

Dal 2003 al 2018 i casi di eutanasia in Belgio sono passati da 235 a 2350, come ha ricordato Radio InBlu nella puntata di ieri mattina. A quella puntata era ospite anche Alberto Gambino, direttore scientifico di Diritto Mercato Tecnologia.

“Le leggi hanno un impatto culturale, sociale”, ha detto Gambino a Radio InBlu. “Questi temi estremi partono normalmente da vicende di suicidio assistito per poi diventare veri e propri protocolli sanitari. E cioè si parte da casi anche per certi versi ‘non giudicabili’, che però poi diventano prassi sanitarie”.

“E quindi i pazienti, nel momento del dolore, vengono messi davanti ad una pluralità di possibilità, tra cui non solo le cure palliative, il lenimento del dolore o la terapia del dolore, ma anche la possibilità di farsi iniettare un farmaco letale. Magari per sconforto, magari per difficoltà enormi, o magari – e questo è il tema più drammatico – per motivi di abbandono, di fragilità, di solitudine, scelgono l’altra via. Di qui questi dati allarmanti nei tre famosi paesi europei che hanno l’eutanasia”, continua Gambino.

“Il tema di fondo è avere una legislazione, invece, che punti molto sulle terapie del dolore”.

Di seguito, l’intervista completa al professor Alberto Gambino.

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