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Obsolescenza programmata, verso la scomparsa dei diritti di proprietà?L’analisi del Prof. Giorgio Resta

di Eduardo Meligrana – Victor Lebow, analista del mercato americano nel 1950 affermava: “La nostra economia, immensamente produttiva, esige che facciamo del consumo il nostro stile di vita. Abbiamo bisogno che i nostri oggetti si logorino, si brucino, e siano sostituiti e gettati a ritmo sempre più rapido”. Ne parlò qualche anno più tardi, ne 1957, Vance Packard nel suo celeberrimo The hidden persuaders.  Secondo alcuni il primo esperimento  è databile nel 1924 quando venne costituito il Cartello Phoebus con il quale i maggiori produttori al mondo di lampadine elettriche si accordarono al fine di accorciare la vita delle lampadine stesse, in modo da incrementare la produzione del bene. Si tratta dell’obsolescenza programmata. Diritto Mercato Tecnologia ha chiesto al Prof. Giorgio Resta, giurista, Ordinario di Diritto privato comparato presso il Dipartimento di Giurisprudenza, Università di Roma Tre, di chiarire il fenomeno dell’obsolescenza programmata e le ricadute e gli interrogativi di carattere giuridico, economico, sociale e ambientale che essa pone.

Prof. Resta, in cosa consiste l’obsolescenza programmata e quali sono le principali ricadute di carattere giuridico che pone?

L’obsolescenza programmata consiste in una tecnica di produzione e assemblaggio delle merci preordinata a ridurre, o circoscrivere entro specifici limiti, lo spazio temporale d’uso del prodotto.

Ciò può avvenire, ad esempio, attraverso l’impiego di una componentistica che assicuri un fisiologico deperimento del prodotto (si pensi alle batterie dei cellulari, ma un altro caso famoso è quello delle lampadine), attraverso tecniche di assemblaggio che riducano le possibilità di riparazione del bene, ma anche attraverso l’uso di software che permettano l’etero-determinazione della funzionalità del prodotto (banalmente, l’impossibilità di ottenere un update dei software che consentono il funzionamento dei pc spinge il consumatore all’acquisto di una nuova macchina).

In sostanza, si tratta di una strategia produttiva e in parte di marketing che orienta il comportamento dei consumatori, riducendo artificialmente la vita dei prodotti e creando un incentivo esterno all’acquisto di beni sempre rinnovati.

In un certo senso, si tratta di un vero e proprio doping cui ricorre il sistema di mercato capitalistico per gonfiare le dinamiche di produzione e scambio, e dunque assicurare l’accumulazione dei profitti anche nelle fasi recessive.  Le ricadute giuridiche di tale fenomeno sono molteplici.

In primo luogo, a livello “macro”, la ricaduta sull’ambiente: l’immissione di sempre nuovi prodotti sul mercato e la riduzione del tasso di riuso, crea un significativo problema di smaltimento dei rifiuti industriali, che in certi casi (si pensi al silicio o altri metalli usati per la produzione elettronica) sono particolarmente pericolosi. Di riflesso, un sistema giuridico che intenda supportare un modello di economia circolare (e di crescita sostenibile) deve porsi il problema del contrasto all’obsolescenza programmata come strategia di limitazione ex ante della massa di rifiuti immessi nell’ambiente. Non a caso nell’ultimo pacchetto comunitario si parla anche di questo tema.

In secondo luogo, sussiste un immediato problema di tutela del consumatore. Un bene artificialmente programmato per durare di meno può ritenersi davvero conforme alle aspettative del consumatore? Il tema delle garanzie post-vendita è dunque al centro delle iniziative comunitarie in materia.

Infine, sussiste un non banale problema concorrenziale, soprattutto quando l’obsolescenza programmata si inserisce nella data economy: basti pensare all’esempio dei telefoni cellulari e dei pc, per comprendere il senso delle azioni anche penali promosse in Francia nelle ipotesi di obsolescenza programmata.   

“Obsolescenza programmata e Internet of Things, si va verso la scomparsa dei diritti di proprietà?” E’ il titolo di convegno promosso a Roma Tre. Qual è la prospettiva che abbiamo di fronte?

Molto semplicemente rischiamo di andare verso una nuova forma di feudalesimo digitale. Come nel Medio Evo, anche oggi la ‘datificazione’ delle macchine implica, tra le altre cose, un modello di scambio in base al quale il consumatore finale non acquista più il bene, ma semplicemente ottiene una licenza d’uso.

Al termine del rapporto, nulla rimane nel patrimonio del licenziatario, e le stesse possibilità di rivendita nel mercato ‘second-hand’ sono drasticamente ridotte. Il rapporto è negozialmente ‘programmato’ per avere natura personale, non essere trasferibile e avere una durata limitata nel tempo.

Per questo si è parlato da parte di vari autori di “end of property”, certo enfatizzando i termini del discorso, ma cogliendo un elemento di verità. Quando poi l’oggetto del contratto sono dati e non beni tangibili, tutto ciò diviene ancora più evidente.

Si pensi soltanto al tema della sorte delle informazioni e dei contenuti creati dal prosumer durante l’uso dei social network. Cosa ne è al momento della morte? Le piattaforme hanno un immediato interesse a mantenere il controllo di tale miniera digitale, mentre le persone e i loro congiunti hanno un’esigenza spesso di natura personale ad ottenere la cancellazione o la retroversione di tali dati.

Ebbene, la regola contrattuale vuole imporre una sorta di ‘scomparsa dei diritti di proprietà’, prevedendo appunto l’intrasferibilità e l’intrasmissibilità mortis causa di tali contenuti, mentre la regola giuridica impone il ricorso a un meccanismo più equilibrato di composizione degli interessi.

Mi pare un segnale importante quello reso dal Bundesgerichtshof tedesco nella recente Facebook Urteil, quando ha applicato la disciplina successoria e la normativa consumeristica per sindacare il contenuto delle clausole standardizzate che impedivano il trasferimento agli eredi dell’account Facebook al momento della morte.

Il signifcato di questa pronunzia non può essere sottovalutato.

Come nel passaggio dal Medioevo all’era moderna, anche oggi il diritto privato deve aggiornarsi e trasformarsi per assicurare la persistenza di condizioni di libertà ed uguaglianza in un contesto tecnologico che promette mirabili progressi, ma spesso a dispetto dei diritti dei più deboli, per condizioni economiche, potere negoziale o semplicemente istruzione digitale.

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