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Social network, formazione del consenso e istituzioni politiche, le riflessioni del Prof. Beniamino Caravita di Toritto

di Eduardo Meligrana
 
I cambiamenti introdotti dalle piattaforme di condivisione, nel processo di formazione delle opinioni degli utenti/elettori, hanno radicalmente mutato i connotati della comunicazione politica. Lo squilibrio tra le regole previste per tv, radio e stampa e il vuoto regolamentare su web e social diventa sempre più stridente.
 
Se nella tv i politici hanno tempi contingentati, nel web e nei social hanno piena libertà di promuovere la propria immagine senza limite e senza dover rispettare alcun obbligo di trasparenza. Basti osservare come sono sponsorizzate le pagine o moltiplicate le interazioni attraverso profili fake e bot. Nell’assenza di regole del “far web”, le piattaforme di condivisione decidono, in totale autonomia, come indicizzare i contenuti diffusi, spesso favorendo il soggetto economicamente più forte.
 
Quali cambiamenti sono in corso e quali le misure per governare una società che cambia? Lo abbiamo chiesto al Prof. Beniamo Caravita di Toritto, ordinario di Diritto Pubblico Professore Ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico nella Facoltà di Scienze Politiche, Sociologia e Comunicazione dell’Università “Sapienza” di Roma, vice Presidente dell’Associazione Italiana dei Costituzionalisti (AIC), Direttore responsabile della Rivista telematica “federalismi.it” che di recente ha promosso un importante convegno sul tema.
 
 
 

Prof. Caravita, nei giorni scorsi si è svolto il convegno all’Università Sapienza di Roma dal titolo: “Social Network, formazione del consenso e istituzioni politiche, quale regolamentazione possibile?”. Quale il contesto delineato dai lavori?

Negli ultimi anni la cultura politica del mondo occidentale democratico è stata clamorosamente travolta dall’avvento dei social network: la possibilità di far circolare gratuitamente  informazioni senza la mediazione dei tradizionali operatori della comunicazione ha totalmente cambiato le carte in tavola nel dibattito politico. 

E gli attori politici e culturali tradizionali non si sono accorti che, nell’apparente vuoto sociale di una comunicazione pubblica disintermediata, si inserivano nuovi operatori in grado di creare meccanismi di consenso nei social e attraverso di essi, sfruttando maglie e connessioni che solo qualche anno fa sembravano innocue, veicolando messaggi semplici, schematici, di immediata comprensione, a prescindere dalla loro fondatezza. 

Qui nascono i fantomatici algoritmi, che si sono rivelati in grado di diffondere informazioni, false o vere che fossero, e hanno permesso di orientare l’opinione pubblica di massa, di creare egemonia e, alla fine, di far vincere le elezioni, cioè il vecchio, tradizionale e ineliminabile strumento della democrazia rappresentativa, a chi in realtà questo strumento cercava e cerca tuttora di aggirare. 

Anche in Italia il referendum costituzionale del dicembre 2016 e ancora più le elezioni del marzo 2018, al cui esito – come nel 1994  si è formato un governo basato sull’alleanza tra un partito che ha vinto al Nord e uno che ha vinto al Sud – ha  visto lo sconvolgente impatto dei social network sui meccanismi di formazione del consenso politico. Viviamo ormai in una bolla informativa. Facebook ha in Italia 31 milioni di utenti. I dati su Whatsapp sono segreti, ma si può immaginare ogni utente telefonico abbia un’utenza Whatsapp. 

Instagram, Telegram, Messenger sono mezzi di comunicazione continuamente usati, che hanno inciso drammaticamente sulle ultime campagne politiche, in Italia e nel mondo. È facile prevedere che lo stesso succederà nella prossima campagna per le elezioni europee. Indietro non si torna. Si possono stringere le regole, fissare paletti più severi per il rispetto della privacy, impedire la circolazione incontrollata delle informazioni personali, responsabilizzare gli operatori dei social network.

Ma la strada per la creazione del consenso, presupposto non aggirabile per il funzionamento degli ordinamenti democratici, non tornerà più ai comizi in piazza del dopoguerra, ma nemmeno alla carta stampata o alle televisioni tradizionali. Certo, la presenza sul territorio o sui giornali o sugli schermi televisivi non potrà essere abbandonata, ma da lì non passerà più la formazione delle opinioni pubbliche.

Nel 1994 sulla televisione fu abbastanza facile intervenire: affianco a previsioni qualitative, si imposero standard quantitativi, si impose la par condicio e si adottarono meccanismi importanti di controllo della presenza dei politici sugli schermi.  

L’art. 7 del Testo Unico dei servizi media è molto chiaro. Recita la disposizione che “la disciplina dell’informazione radiotelevisiva, comunque, garantisce: a) la presentazione veritiera dei fatti e degli avvenimenti, in modo tale da favorire la libera formazione delle opinioni; b) la trasmissione quotidiana di telegiornali o giornali radio da parte dei soggetti abilitati a fornire contenuti in ambito nazionale o locale su frequenze terrestri; c) l’accesso di tutti i soggetti politici alle trasmissioni di informazione e di propaganda elettorale e politica in condizioni di parità di trattamento e di imparzialità, nelle forme e secondo le modalità indicate dalla legge; d) la trasmissione dei comunicati e delle dichiarazioni ufficiali degli organi costituzionali indicati dalla legge; e) l’assoluto divieto di utilizzare metodologie e tecniche capaci di manipolare in maniera non riconoscibile allo spettatore il contenuto delle informazioni”. 

Ai nuovi social  si possono applicare controlli e regole simili a quelli che valgono per la carta stampata e per la televisione? Quali le linee di intervento per il futuro?

Non tutto può essere trasportato nel mondo dei social, certo. Ma oggi il tema è se si possono  applicare anche ai nuovi social  controlli e regole simili a quelli che valgono per la carta stampata e per la televisione. Sulle nuove piattaforme televisive (Netflix, Dazn, Vodafone Tv) qualche regola di comportamento può essere raccomandata e forse anche imposta, sempre che non vi siano adeguamenti volontari. 

Ad esempio, si potrebbe pensare che se queste piattaforme vogliono trasmettere propaganda politica, nella fase preelettorale debbano esservi offerte paritariamente rivolte a tutte le forze politiche. Qualcosa del genere potrebbe essere pensato anche per gli OTT come YouTube.

Principi di parità di trattamento devono valere anche per Facebook, cui – in ragione del suo ruolo di spazio pubblico – si potrebbe chiedere un maggiore controllo sui contenuti e parità di trattamento nella distribuzione di spazi gratuiti. Più difficile intervenire su mezzi di comunicazione one to one come whatsapp (il tetto all’invio di messaggi a  gruppi di utenti va in questa direzione, ma può essere facilmente aggirato),  telegram e Instagram.

Occorre in verità pensare a una  strategia di intervento intorno a quattro linee principali, che potrebbero sintetizzarsi in questo modo: 

  1. Anche le culture politiche tradizionali devono occupare i social network e familiarizzarsi con il loro uso (che non vuol dire incontrollata diffusione di ogni banale messaggio, bensì comprensione delle regole della comunicazione via social);
  2. È necessario rafforzare i meccanismi, anche autoritativi (Agcom, Garante privacy, Agcm) di controllo dei contenuti e delle fake news;
  3. Vanno fissate, da parte della Agcom, di regole di comportamento, relative almeno alla garanzia di parità di trattamento dei soggetti politici nella acquisizione di spazi;
  4. I contenuti, e le modalità di trasmissione, dei messaggi devono essere adeguati ai nuovi strumenti.

 

La contraddizione, comunque, rimarrà tutta. Come dimostrano plasticamente questi ultimi  mesi, la politica deve comunque sapere che, per parlare massivamente al popolo dei social bisogna sapersi collocare al loro livello di soglia di attenzione, e bisogna disporre di contenuti facilmente veicolabili quasi in forma di pillole, di una forma grafica e estetica accattivante e soprattutto di un leader visibile e riconosciuto.

La ricerca del consenso è connaturale a tutti gli assetti democratici, ma,  nell’esasperazione provocata dai social, competenze, capacità organizzative, responsabilità controllo dei risultati (la cd. accountability) rischiano di passare in secondo piano, ovvero la  loro verifica è possibile solo in tempi medio-lunghi, in realtà incompatibili con il corretto funzionamento del sistema democratico. 

Le conseguenze sono tuttavia molto gravi: da un lato, la continua ricerca di  un  consenso immediato spinge ad azioni di cui non vengono adeguatamente verificate le conseguenze, politiche, istituzionali, economiche, che ne possono derivare; dall’altra, il nostro sistema politico – ma questo vale ormai per molti sistemi europei – continuerà ad essere di fronte ad una esasperata volatilità del consenso, per cui i picchi raggiunti da partiti e movimenti possono dissolversi nel giro di pochi anni, se non mesi, spostandosi massivamente da una parte o dall’altra di un’offerta  politica sempre più instabile e precaria. 

  

 

La video registrazione del convegno ” “Social Network, formazione del consenso e istituzioni politiche, quale regolamentazione possibile?” effettuata da Radio Radicale 

Coordina Beniamino Caravita di Toritto (Professore ordinario di Istituzioni di Diritto pubblico Sapienza, Università di Roma).

Relazioni: Mario Morcellini (Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, AGCOM), Tommaso E.Frosini (Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Torino), Oreste Pollicino (Professore ordinario di Diritto costituzionale Università Bocconi di Milano), Alberto Gambino (Professore ordinario di Diritto privato Università Europea di Roma). 

Sono intervenuti: Beniamino Caravita (ordinario di Istituzioni di Diritto Pubblico all’Università degli Studi La Sapienza di Roma), Mario Morcellini (commissario della Autorità per le Garanzie nelle Comuncazioni (AGCOM)), Eugenio Gaudio (rettore dell’Università degli Studi La Sapienza di Roma), Tommaso Edoardo Frosini (Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico Università degli Studi di Torino), Annamaria Poggi (Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Torino), Oreste Pollicino (Professore ordinario di Diritto costituzionale Università Bocconi di Milano), Alberto Gambino (Professore ordinario di Diritto privato e Pro Rettore Università Europea di Roma), Edoardo Raffiotta, Federica Grandi, Laura Bononcini (responsabile dei Rapporti Istituzionali di Facebook Italia), Andrea De Petris, Francesco Laviola, Paola Marsocci, Francesco Clementi (docente di Diritto Pubblico Comparato alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Perugia).

 

 

 

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