Massimo Proto, Ordinario di Diritto privato, è di ruolo presso l’Università degli Studi Link…
Strategia Italiana per l’IA e nuove soluzioni giuridiche nell’era digitale. Intervista all’Avv. Stefano Previti
In occasione della pubblicazione da parte del MISE della Strategia Italiana per l’IA, la redazione di DIMT ha intervistato l’Avv. Stefano Previti , titolare presso lo Studio Previti, specialista in diritto civile e commerciale, diritto della proprietà intellettuale, diritto delle comunicazioni e di diritto societario, membro di UIA (Union Internacional des Avocats) e “ranked” da Chambers Europe nel settore Intellectual Property: copyrights.
Le domande aperte dalla robotica e dalla IA sono, secondo Lei, affrontate adeguatamente dalle nuove norme e strumenti di regolamentazione europea e nazionale (ad esempio la Strategia Italiana per l’IA del MISE)? Questi sono strumenti che possono dare una sufficiente tutela dalle tecnologie disruptive, a Suo parere?
A mio avviso no, dato che le domande sono tante e le implicazioni potenziali delicatissime. Attualmente, non esiste alcuna normativa puntuale ed esaustiva che regoli l’uso dell’I.A. né, tantomeno, che inquadri sistematicamente le declinazioni di responsabilità che potrebbero discendere dal suo utilizzo.
Sinora in questa materia, nonostante un ampio e vivace dibattito internazionale, si sono succeduti soltanto interventi di soft law (tra i quali la Strategia Italiana per l’IA del MISE).
Bisogna, però, tenere presente che tali interventi, per loro natura, danno indicazioni e principi di carattere etico ma non introducono norme dotate di efficacia vincolante diretta.
Ne deriva una evidente lacuna normativa in ogni direzione e su ogni livello di tutela: infatti, nonostante le buone intenzioni sottostanti l’emanazione di White paper, Raccomandazioni e Strategie, l’unico risultato reale che siffatti strumenti possono portare, si sostanzia in una serie di auspici e raccomandazioni rivolti ai legislatori a che vengano al più presto adottati adeguati strumenti normativi.
Credo che i tempi siano decisamente maturi per intervenire, anzi probabilmente siamo già in ritardo, data la supersonica velocità di evoluzione della tecnologia. I problemi sono potenzialmente enormi e gli strumenti a disposizione per risolverli non sufficienti, in quanto pensati per realtà diverse. Mi riferisco ad esempio alle norme sulla responsabilità del produttore o al codice del consumo, che in mancanza di norme più specifiche possono essere un riferimento, ma non sempre è così agevole conciliarle con la peculiarità di programmi e robot intelligenti, cioè entità dotate di caratteristiche che le pongono al confine tra essere oggetti o soggetti.
Nel suo recente lavoro, il volume da Lei curato ” Il diritto di internet nell’era digitale“, viene affrontato un argomento di stretta attualità: il diritto all’oblio nelle sue diverse accezioni. Ciò riguarda anche il rapporto tra il diritto alla riservatezza della persona e le nuove tecnologie, i social in particolare. Può dirci come, secondo Lei, è possibile garantirne la tutela, data la crescente pervasività della tecnologia? E come, nei casi di cronaca, garantire il diritto all’oblio nel delicato bilanciamento con il diritto all’informazione nella giurisprudenza italiana?
Sotto l’espressione diritto all’oblio spesso rientrano diritti diversi, o aspetti diversi del medesimo diritto. Esso è tradizionalmente volto proprio a tutelare la riservatezza, nell’accezione di vero e proprio diritto ad essere dimenticati. Basti pensare all’articolo di giornale su un vecchio caso giudiziario, in passato legittimamente diffuso; se non c’è un interesse attuale alla pubblicazione, prevale l’interesse del soggetto coinvolto in quell’episodio, trascorso un certo lasso di tempo, a non essere ulteriormente portato alla ribalta.
Ma la riservatezza, nell’evoluzione normativa, permette oggi di declinare il diritto all’oblio anche come tutela del dato personale, grazie al regolamento UE n. 679/2016 (GDPR), che consente all’interessato di chiedere al titolare del trattamento di cancellare il suo dato personale se sono venute meno le finalità per le quali il dato era stato divulgato e se la divulgazione non è autorizzata.
Infine, il diritto all’oblio riguarda anche la tutela dell’identità personale: si pensi alle notizie che riportano fatti non più corrispondenti alla realtà attuale. In tal caso, si ha diritto a chiedere che la notizia sia attualizzata. Quest’ultimo profilo, in particolare, è strettamente collegato all’uso di internet e al fenomeno della permanente reperibilità delle notizie in rete, facendo sorgere l’esigenza di collocare la pubblicazione, avvenuta legittimamente anni prima, nel contesto attuale, rimuovendola o aggiornandola.
Il bilanciamento tra gli interessi contrapposti – diritto all’oblio e diritto all’informazione ed alla libertà di espressione – costituisce quindi la chiave per la soluzione al problema ed ha da sempre interessato la giurisprudenza. Da ultimo, con la sentenza n. 19681 del 2019, le Sezioni unite della Cassazione civile hanno ben riassunto lo “stato dell’arte” in tema di diritto all’oblio, fornendo gli strumenti utili per poter operare il bilanciamento tra diritto di cronaca e quello all’oblio.
In estrema sintesi, da un lato, si ribadisce la tutela della libera scelta editoriale di ripubblicare/diffondere – anche a distanza di un arco temporale significativo – una notizia già legittimamente pubblicata; dall’altro lato, si precisa che assumendo tale attività carattere prettamente storiografico, deve considerarsi prevalente il diritto dell’interessato al mantenimento dell’anonimato sulla sua identità personale, tutte le volte in cui si tratti di avvenimenti passati che lo feriscano nella dignità e nell’onore e dei quali si sia ormai spenta la memoria collettiva, salvo che non sussista un rinnovato interesse pubblico ai fatti, ovvero il protagonista abbia ricoperto o ricopra una funzione che lo renda pubblicamente noto. Dovendosi a tal fine valutare l’interesse pubblico – concreto ed attuale – a diffondere gli elementi identificativi delle persone che di quei fatti e di quelle vicende furono protagonisti.
Se mi si chiede, poi, quali risvolti tutto ciò può avere nella pratica e nel quotidiano supporto a coloro che si rivolgono al mio studio, al fine di ottenere soluzioni efficaci alle violazioni subite – che sempre di più provengono da internet e dalle nuove tecnologie – posso dire che i grandi social e portali ormai mostrano una certa sensibilità e, se ben sollecitati, si muovono con tempi abbastanza rapidi. Mettono a disposizione dei loro formulari interni dove si possono inserire le segnalazioni e, abbastanza spesso, tutto si risolve in pochi giorni, con la rimozione dei contenuti illeciti. Quando riceviamo una risposta negativa, ricorriamo allora alla diffida formale, indirizzata al gestore del sito. Anche in questo caso i tempi sono brevi, in qualche giorno si può ottenere una risposta. Se, invece, non c’è collaborazione, allora si può agire in giudizio, anche con procedura di urgenza e con tempi che, ovviamente, si allungano. È però importante segnalare che, quando si ha a che fare con siti o blog minori che non rispondono alle nostre richieste e non collaborano, è possibile ottenere un risultato sostanzialmente equivalente alla rimozione del contenuto, ricorrendo alla richiesta di deindicizzazione indirizzata ai principali motori di ricerca.
Nell’attuale orizzonte digitale, vi è l’esigenza di offrire soluzioni giuridiche al nascere e allo svilupparsi di nuove tecnologie. La più recente giurisprudenza affronta specificamente il tema delle fake-news sul web e quello dei canali social quali strumenti privilegiati su cui veicolare informazioni in tempo reale. Secondo Lei, quali sono i limiti degli strumenti normativi esistenti atti a regolare questo fenomeno?
Il web in generale ed, in particolare, il crescente sviluppo dei social ha senza dubbio amplificato il fenomeno delle fake news, offrendo sostanzialmente a chiunque la possibilità di pronunciarsi su ogni argomento, avendo a disposizione una platea di lettori potenzialmente sconfinata e senza necessità di sottoporre il proprio pensiero ad alcun filtro e verifica.
Sotto il profilo dell’interesse pubblico, è chiaro che la massiccia pubblicazione di informazioni inventate, ingannevoli, create per disinformare e rendere virali le bufale attraverso internet (cosiddetto click baiting), rappresenta un pericolo per il corretto esercizio del diritto all’informazione – e non solo – che andrebbe contrastato in maniera più incisiva. Attualmente, troviamo nel codice penale norme che sanzionano specifiche condotte, riconducibili alla diffusione di notizie false, esagerate e tendenziose, in riferimento ai reati di aggiotaggio (a tutela dei mercati), diffamazione (a tutela della reputazione altrui) e nelle ipotesi di turbamento dell’ordine pubblico, abuso della credulità o procurato allarme.
Ma è proprio il dilagare del fenomeno su internet che ha reso inadeguati questi strumenti, per il semplice motivo che, quasi sempre, in rete, l’autore di simili condotte rimane anonimo e la sua identità – presupposto evidentemente basilare per poter punire il colpevole – non può essere scoperta nemmeno dalle forze dell’ordine, senza la collaborazione dei gestori delle grandi piattaforme, attraverso le quali le fake news vengono veicolate e sui quali, nell’attuale quadro normativo, non incombe un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che diffondono o memorizzano.
E’ vero però che è regolata la possibilità di richiedere ed ottenere i dati personali degli utenti che commettono illeciti tramite internet, essendo previsto che il suddetto prestatore di servizi debba fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione del destinatario dei suoi servizi, al fine di individuare e prevenire attività illecite.
Il rifiuto di questi soggetti, spesso motivato – a torto – con esigenze di tutela della privacy dei propri utenti, è a mio avviso ingiustificato, persino in assenza della richiesta dell’autorità, ove ad agire sia un soggetto privato a tutela dei propri diritti e purché il prestatore di servizi sia a conoscenza che tramite la propria piattaforma sono commessi degli illeciti.
Proprio passando dal piano pubblicistico a quello della tutela dei diritti, segnalo infatti che – nonostante l’assenza di una esplicita previsione normativa che agevoli l’identificazione del responsabile della condotta illecita, obbligando i gestori delle piattaforme internet a fornirne i dati identificativi al soggetto leso, ad esempio nella propria reputazione – la giurisprudenza sta colmando la lacuna, sancendo che un simile obbligo a carico dei prestatori vi sia, come sopra accennato, nelle ipotesi in cui questi siano a conoscenza dell’illecito e non vi sia ragione di ostacolare il diritto di difesa del soggetto leso.
Senza considerare che, in ogni caso, è normativamente e pacificamente ammessa la responsabilità anche dei gestori e dei prestatori di servizi internet per gli illeciti commessi tramite i propri sistemi e le proprie piattaforme – in aggiunta a quella dell’utente che ha direttamente e materialmente posto in essere la condotta illecita – sia in via immediata (ove il gestore produca o controlli i contenuti presenti sul sito), sia in via indiretta, dopo che essi siano stati messi a conoscenza dell’illecito e, ciononostante, non siano intervenuti.
In occasione dell’intervista pubblicata, la redazione di DIMT rimanda al volume curato dal Prof. Avv. Stefano Previti: