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Visita fiscale e privacy: divieto di rivelare la malattia

Cass. civ. Sez. III, Ord. 31-01-2018, n. 2367, (ud. 05-12-2017)

 LA MASSIMA

La riservatezza imposta nella refertazione del medico fiscale esige che non debba essere annotata sulla copia per il datore di lavoro la diagnosi del paziente. L’interpretazione delle norme preposte alla tutela della riservatezza, con particolare riferimento ai dati sensibili quali certamente sono quelli concernenti le condizioni di salute del dipendente malato, induce a ritenere che il datore di lavoro debba essere a conoscenza soltanto della conferma della prognosi da parte del medico fiscale e che, dunque, qualsiasi indicazione – anche concernente le visite specialistiche prescritte – dalla quale possa essere desunta la diagnosi, debba ritenersi contrastante con la normativa sulla tutela della privacy. (Nella specie, tuttavia, il pregiudizio lamentato dal dipendente non è ascrivibile alla annotazione effettuata dal medico fiscale, ma deve essere collegato, sulla base della stessa prospettazione del ricorrente, alla avvenuta divulgazione della richiesta di una visita collegiale psichiatrica da parte del Provveditorato al quale il preside della scuola aveva trasmesso il referto ricevuto).

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22744-2014 proposto da:

P.S., domiciliato ex lege in ROMA, domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato D.S.A.M. giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente – contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE CASERTA, in persona del direttore generale e legale rappresentante pro tempore Dr. M.P., domiciliata ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO TUCCILLO giusta procura speciale a margine del controricorso;

PE.MA., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato VINCENZO BIZZARRO giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

L’ASSITALIA LE ASSICURAZIONI D’ITALIA SPA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3490/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 08/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/12/2017 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha chiesto che il ricorso proposto da P.S. sia respinto, con conseguente conferma della gravata sentenza della Corte d’Appello di Napoli.

Svolgimento del processo

P.S. ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello di Napoli n. 3490/13 pubblicata in data 8.10.2013 con la quale era stato confermato il rigetto della domanda di risarcimento danni avanzata dinanzi al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei confronti di Pe.Ma., medico fiscale, ritenuto da lui responsabile dei danni subiti e conseguenti nell’invio al preside del locale Liceo Giannasio Statale “(OMISSIS)” presso il quale insegnava materie letterarie (e dal quale si era assentato per malattia per 21 giorni) della copia del referto medico destinata al datore di lavoro in cui era stato riportata che il docente era “in attesa di consulenza psichiatrica”.

Il ricorso è fondato su cinque motivi.

La Asl di Caserta e Pe.Ma. si sono difesi con controricorso.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte ex art. 380bis c.p.c., comma 1.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deducendo, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 5 e del D.M. 15 luglio 1986, censura la sentenza impugnata ritenendo che il giudice d’appello si era limitato ad escludere la violazione delle norme richiamate in quanto nel referto trasmesso alla direzione della scuola non vi era stata l’indicazione della diagnosi ma unicamente la prescrizione di una visita specialistica: al riguardo, si duole del fatto che la Corte aveva omesso di considerare che l’accertamento sanitario prescritto era fortemente indicativo della natura (psichiatrica) della malattia ipotizzata e doveva farsi, dunque, rientrare nella categoria di informazioni per le quali era preclusa qualsiasi forma di divulgazione.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nella statuita assenza di nesso etiologico fra la condotta del medico fiscale ed il comportamento diffidente e persecutorio posto in essere dai familiari e dai colleghi a seguito della richiesta di verifica del suo stato mentale: lamenta, al riguardo, che in relazione a ciò doveva essere riscontrata una macroscopica carenza di motivazione della sentenza impugnata che aveva trascurato di valutare la ratio della L. n. 300 del 1970, art. 5 in combinato disposto con il D.M. 15 luglio 1986, art. 6.

Con il terzo motivo, deducendo la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3 con riferimento alla L. n. 675 del 1996 e del D.Lgs. n. 196 del 2003, il P. lamenta l’inosservanza della normativa sulla privacy in ragione del fatto che non vi era alcuna ragione, collegata ad un interesse pubblico, che legittimasse la diffusione della notizia concernente la prescritta consulenza psichiatrica: asseriva che da tale violazione, contrariamente a quanto statuito dalla Corte di merito, era a lui derivato in via diretta un grave pregiudizio riconducibile alla stessa condotta del Pe., in relazione al quale egli non doveva assolvere alcun onere probatorio, essendo il danno “in re ipsa”.

Con il quarto ed il quinto motivo, deducendo violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il P. lamenta che il giudice di appello: a) non aveva affatto esaminato le norme di legge che tutelano la privacy con ciò incorrendo nel vizio di omessa motivazione; b) aveva travisato i fatti, ritenendo che nessun comportamento illecito potesse essere ascritto al Pe. (che si era limitato a prescrivere una visita presso un collegio psichiatrico della ASL), non considerando che tale annotazione, venuta a conoscenza delle autorità scolastiche, le aveva indotte a richiedere un accertamento medico collegiale psichiatrico dal quale era derivato il suo totale isolamento all’interno della comunità scolastica e parentale.

Il primo ed il terzo motivo devono essere esaminati congiuntamente in quanto entrambi fondati sulla denunciata violazione di legge, con riferimento all’art. 5 dello Statuto dei lavoratori, al D.M. 15 luglio 1986 sulle modalità di svolgimento dell’attività del medico fiscale, alla L. n. 675 del 1996 ed al successivo D.Lgs. n. 196 del 2003.

I motivi contengono rilievi fondati sulla complessiva censurabilità della condotta del Pe. che, in se, sarebbe stata foriera di danni morali al ricorrente: con il primo motivo, infatti, il P. lamenta che la Corte avrebbe erroneamente interpretato la L. n. 300 del 1970, art. 5 ed il D.M. 15 luglio 1986 ritenendo legittima e comunque irrilevante l’annotazione sul referto medico della circostanza che il Pe. era in attesa di una consulenza psichiatrica; con il terzo motivo si duole del fatto che la Corte aveva erroneamente escluso che la condotta del medico fiscale, illegittima, avesse arrecato una lesione dell’immagine del docente nonostante le ripercussioni esistenziali descritte e consistenti nell’allontanamento e nella diffidenza maturata nei suoi confronti dagli amici, dai parenti e dai colleghi.

Preliminarmente deve respingersi l’eccezione di inammissibilità del motivo per tardività sollevata dalla ASL intimata, in quanto la questione relativa alla violazione della privacy è stata espressamente affrontata nella sentenza impugnata, ragione per cui l’argomento non può ritenersi nuovo.

Tuttavia, la prima censura – che contiene un rilievo fondato – non è utile all’accoglimento del ricorso ed impone anche la reiezione dell’altro motivo in esame.

E’ ben vero che la riservatezza imposta nella refertazione del medico fiscale esige che non debba essere annotata sulla copia per il datore di lavoro la diagnosi del paziente: il D.M. 15 luglio 1986, art. 6 prevede infatti che “al termine della visita, il medico consegna al lavoratore copia del referto di controllo, ed entro il giorno successivo, trasmette alla sede dell’Istituto nazionale della previdenza sociale le altre tre copie destinate rispettivamente, la prima, senza indicazioni diagnostiche, al datore di lavoro o all’Istituto previdenziale che ha richiesto la visita, la seconda agli atti dell’Istituto nazionale della previdenza sociale, la terza per la liquidazione delle spettanze al medico e per assicurare un flusso periodico di informazioni sullo sviluppo del servizio e sulle relative risultanze”.

Ed è altresì vero che l’interpretazione delle norme preposte alla tutela della riservatezza, con particolare riferimento ai dati sensibili quali certamente sono quelli concernenti le condizioni di salute del dipendente malato, induce a ritenere che il datore di lavoro debba essere a conoscenza soltanto della conferma della prognosi da parte del medico fiscale; e che, dunque, qualsiasi indicazione – anche concernente le visite specialistiche prescritte – dalla quale possa essere desunta la diagnosi, debba ritenersi contrastante con la normativa sulla tutela della privacy, sia pur genericamente richiamata dal P..

Tuttavia, e si passa con ciò ad esaminare il terzo motivo, il fatto dal quale sarebbe derivato il pregiudizio dedotto dal ricorrente (e cioè l’isolamento dipendente dal comportamento diffidente e persecutorio manifestato dai colleghi e dai parenti venuti a conoscenza dell’accertamento psichiatrico cui era stato sottoposto ed il danno non patrimoniale a ciò conseguente) non è ascrivibile alla annotazione effettuata dal medico fiscale, ma deve essere collegato, sulla base della stessa prospettazione del ricorrente, alla avvenuta divulgazione della richiesta di una visita collegiale psichiatrica da parte del Provveditorato al quale il preside della scuola aveva trasmesso il referto ricevuto.

La divulgazione delle informazioni sensibili dalla quale sarebbe derivato il danno dedotto non è, quindi, riconducibile alla condotta del Pe. che si è limitato a trasmettere alla scuola presso la quale il P. lavorava la copia del referto di competenza del datore di lavoro, sia pur corredato dalla annotazione contestata, ma alla diffusione della notizia dell’accertamento che l’amministrazione scolastica aveva ritenuto necessario espletare e dal comportamento della cerchia amicale e parentale che avrebbe deciso di allontanarsi da ricorrente: e, al riguardo, va precisato che nel caso in esame la generica enunciazione della sussistenza di un danno in re ipsa (pag. 14 ricorso) non risulta fondata su una allegazione sufficientemente supportata, tale da consentire l’individuazione del pregiudizio subito e la conseguente quantificazione del danno.

Poichè la Corte d’appello è giunta a conseguenze coerenti con i principi sopra affermati, i due motivi devono essere respinti.

Le censure prospettate con il secondo e quarto motivo sono inammissibili.

Con il secondo motivo, il ricorrente censura l’interpretazione data dalla Corte all’intera vicenda ma non individua il fatto non esaminato: chiede, inoltre, una rivisitazione della controversia nel merito preclusa al giudice di legittimità, dolendosi espressamente “di una macroscopica carenza di motivazione”; il quarto motivo non si riferisce ad un fatto storico ma all’omesso esame di LICI norma di legge che, oltre tutto, la Corte risulta aver considerato.

Il quinto motivo deve ritenersi assorbito, in ragione di quanto già argomentato sulla prima e la terza censura.

In conclusione il ricorso deve essere respinto sia pur con la diversa motivazione sopra sviluppata ex art. 384 c.p.c., u.c..

Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, con distrazione in favore dell’avv.to antistatario.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente a rifondere a ciascun intimato le spese del grado di legittimità che liquida in Euro 2600,00 per compensi oltre accessori di legge, con distrazione in favore dell’avv.to antistatario.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Si dispone l’oscuramento dei dati personali.

Così deciso in Roma, il 5 dicembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2018

 

Consulta: www.privacy.it 

(vedi www.laleggepertutti.it)

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