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Web tax, a che punto siamo in Italia ed Europa. Intervista ad Alessio Persiani

Alessio Persiani è assegnista di ricerca in Diritto tributario e docente presso l’Università Europea di Roma.

Ultimamente, tra l’approvazione della legge in Francia e le minacce di ritorsione da parte degli Stati Uniti, si è ripreso a parlare di tassazione delle grandi aziende tecnologiche (come Google, Amazon e Facebook). Professor Persiani, a che punto siamo con l“web tax” in Italia?
Al momento la situazione è di calma apparente.

La legge di bilancio 2019 ha previsto una web tax italiana con un’impostazione molto vicina a quella della proposta di direttiva di short term della Commissione europea del marzo 2018; proposta fondata sull’adozione di un tributo – la c.d. Digital Services Tax (DST) – che assoggetta ad imposizione i ricavi derivanti dai soli servizi digitali in cui la creazione di valore sia in gran parte riconducibile all’attività degli utenti (c.d. user contribution). Le fondamentali norme di attuazione del tributo italiano avrebbero dovuto essere dettate da un decreto ministeriale da emanarsi entro lo scorso mese di aprile, ciò che, tuttavia, non è avvenuto. Tenuto anche conto della posizione negativa che diversi Stati dell’UE hanno assunto rispetto alla proposta di direttiva sulla DST, non sembra irragionevole ipotizzare che le previsioni legislative della web tax 2019 – al pari, peraltro, di quanto avvenuto con quelle della digital tax 2018 – non saranno attuate e che, quantomeno nel breve termine, le norme rimarranno sulla carta.

La calma potrebbe, però, essere solo apparente. Nelle conclusioni del G7 di Chantilly di pochi giorni fa vi è un riferimento all’elaborazione di nuovi criteri di collegamento per assoggettare a tassazione le imprese che si fondano su modelli di business diversi da quelli tradizionali; elaborazione che sta avvenendo in seno all’OCSE e che dovrebbe vedere la luce nel 2020. Ma l’evento più recente e significativo è certamente l’adozione poche settimane fa di una web tax nazionale da parte del Governo francese. La reazione degli Stati Uniti è stata immediata ed indignata, con il presidente Trump che ha minacciato l’imposizione di dazi doganali sui prodotti francesi.

Non possiamo escludere che nei prossimi mesi – quando, cioè, prenderà corpo il dibattito sulla legge di bilancio 2020 –  anche il nostro Governo possa seguire la strada tracciata dalla Francia ed adottare una (ennesima) web tax nazionale, anche se, personalmente, vedo più probabile che possa prevalere la posizione di coloro che vogliono attendere la conclusione delle analisi dell’OCSE, quantomeno per verificare le linee di indirizzo che darà l’Organizzazione e decidere, sulla base di quelle, se e come muoversi.

C’è armonia, dunque, tra la proposta italiana e quella europea.
Come detto, la web tax italiana è largamente modellata sulla DST proposta dalla Commissione europea, salvo alcuni aspetti relativi al volume di ricavi rilevante ai fini dell’individuazione dei soggetti passivi del tributo e che è giustamente parametrato al territorio nazionale. In questo senso le due proposte sono tra loro armoniche e, almeno sinora, stanno anche condividendo la stessa sorte: entrambe sono rimaste solo sulla carta e non sono operative, seppur per motivi diversi.

Quali sono, secondo lei, i pro e quali i contro della “digital tax” europea?
Concentrando l’attenzione sulla proposta europea di short term, il principale punto di favore della DST europea è che costituisce un primo, lodevole tentativo di individuare, nell’ampia gamma dei servizi prestati dalla imprese dell’economia digitale, quelli connotati da un contributo attivo particolarmente rilevante da parte degli utenti, quei servizi, cioè, in cui la creazione di valore aggiunto è in larga parte riconducibile all’attività degli utenti. È un primo tentativo di far emergere e assoggettare a tassazione la ricchezza che le imprese del digitale ricavano dall’attività dei cc.dd. prosumers, da quei consumatori, cioè, che partecipano attivamente alle diverse fasi del processo produttivo. Questa linea coraggiosa e innovativa è stata coerentemente seguita anche per l’identificazione della territorialità dei servizi (e, dunque, dello Stato UE che avrebbe diritto al relativo gettito del tributo) facendo riferimento all’indirizzo IP del dispositivo da cui l’utente – o, meglio, il prosumer – opera.

I profili che destano perplessità sono diversi e tutti meritevoli di adeguato approfondimento. L’ambito di applicazione rischia di essere da un lato troppo ristretto – escludendosi in toto i ricavi derivanti dal commercio elettronico di beni e servizi e ignorando, quindi, che in taluni casi le piattaforme di commercio elettronico adottano un modello di business che si fonda proprio sull’effetto di rete (penso, ad esempio, al meccanismo delle recensioni degli utenti) – e dall’altro lato troppo ampio, potendo rientrarvi casi in cui la trasmissione di dati avviene per la tutela di principi costituzionali diversi da quelli tributari. Numerose sono state, poi, le critiche rivolte al criterio di territorialità, in ragione della manipolabilità in modo relativamente agevole dell’indirizzo IP.

Ma non possiamo nascondere che il vero nodo cruciale della proposta europea è il suo difficile coordinamento con lo scenario tributario internazionale e, in particolare, con la riforma statunitense del Presidente Trump, che si fonda su meccanismi che mirano ad assicurare un’imposizione minima negli Stati Uniti delle società multinazionali e che, in un certa misura, risultano in contrasto con la tassazione nel market State che è alla base della proposta europea.

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