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Fake news tra “paradosso del mentitore” e “whatever it takes”

di

Gianfrancesco Rizzuti*

1.150.000.000 di risultati: in una ideale top ten mondiale di risultati di ricerca su Google sarebbe di certo ben piazzata. Per dare un’idea, “Brexit” ne ha un terzo. E’ madame (o mister) fake news. Il timore che l’inquinamento da “bufala” possa alterare i risultati delle prossime elezioni europee fa tornare di attualità, più di quanto già non lo sia, il dibattito sulla post-verità. Si tratta di un tema che incrocia diritto, etica, politica, economia. E che va analizzato nelle dimensioni dell’offerta (di chi fornisce informazione), della domanda (di chi è il destinatario dell’informazione) e di chi è chiamato ad incrociarle (le piattaforme di distribuzione) e regolarle (le autorità).  

Come sanno i lettori di questa rubrica, la diffusione di notizie false è vecchia come il mondo. Per restare in quello moderno dei melomani, basta canticchiare Rossini e il suo Barbiere di Siviglia, con la celebre aria di Basilio, “la calunnia è un venticello”. Naturalmente la calunnia, anzi, nel nostro caso la “diffamazione”, è un reato, ma la protezione di cui (fortunatamente) gode la libertà di manifestazione del pensiero, a cominciare dalla previsione della costituzione italiana, mette una camicia di forza all’informazione (anche quella malevola) solo in presenza della lesione di diritti o valori costituzionalmente rilevanti, tra cui l’onore, la reputazione e la riservatezza della persona, l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato.

Tuttavia, rispetto al Barbiere di Siviglia e alla maggioranza delle Costituzioni, occorre tener conto delle grandi novità tecnologiche e soprattutto – negli ultimi anni – dei social media. Cosa che ha modificato quantità e qualità dell’informazione. Miliardi sono gli utilizzatori di Facebook e Whatsapp, centinaia di milioni quelli di Twitter. A livello globale, una significativa porzione di cittadini si informa e si fa un’opinione sui social. Ma questi sono terreni fertilissimi per la disseminazione e la raccolta di notizie false. Perché? Perché le barriere all’ingresso nell’industria dei media si sono praticamente azzerate con internet; perché l’elettorato si è molto polarizzato rinchiudendosi (e buttando le chiavi) nelle “echo chambers” di gruppi social con idee e pre-giudizi omogenei; perché sui social network la distinzione tra informazione, propaganda e pubblicità sfuma fino a scomparire;  perché lo pseudo-anonimato cui la rete induce deresponsabilizza l’autore e il diffusore dell’informazione di partenza, che poi – come nel gioco del telegrafo senza fili – si distorce spesso volutamente. Si aggiunga il vistoso e diffuso calo di fiducia (oltre che di lettura e ascolto) nei confronti dei grandi media e il cocktail della fake news è servito, con l’aggravante – certificata da un recente studio del prestigioso MIT realizzato con Twitter – della maggior velocità di propagazione di una informazione falsa rispetto a quella vera: più emozionale, meglio confezionata, percepita come originale. In media, una storia completamente inventata raggiunge i primi 1500 utenti a una velocità sei volte maggiore di quella di una news vera.

Sono utili allora – anche considerando il quadro giuridico comparato – tutte le iniziative proposte, a livello di autoregolamentazione, da parte delle piattaforme con progetti di fact-checking e algoritmi capaci di identificare notizie false e penalizzarle, se non addirittura bloccarle. Così come quegli accordi dei media tradizionali finalizzati a mettere un bollino di qualità sulla propria informazione, come nel caso di “newsbrand” del quale Occhio di riguardo ha già trattato.

In vista delle consultazioni di maggio, La Commissione europea ha adottato un codice di condotta per arginare la diffusione di informazioni non veritiere artatamente costruite e abilmente diffuse. Ad oggi, lo hanno siglato Facebook, Twitter e Google. Ma i risultati non sono ancora quelli attesi, come emerge dall’ultimo rapporto che i colossi del web sono tenuti a pubblicare ogni mese per rendicontare le loro attività.

Significativa anche la recentissima approvazione da parte dell’Europarlamento della direttiva sul c.d. diritto d’autore in rete. Ad un primo esame, la piattaforma diventerebbe responsabile dei contenuti di un articolo, di una pubblicazione che fossero da essa ripresi. Questo si potrebbe tradurre in un contenimento delle fake news.  

Ad avviso di chi scrive, comunque, non esiste un unico antidoto alla diffusione di “bufale”, soprattutto sulla rete. Serve un insieme di misure di coordinamento, limitazione dell’anonimato, responsabilizzazione di autori e delle piattaforme contenitrici di informazioni e post-verità.

In eco-sistemi liberali, evitando atteggiamenti paternalistici e dirigismi sono importanti la pluralità di fonti omogenee, codici deontologici di autodisciplina, un’educazione alla rete – una cultura – da parte dei fruitori per distinguere informazioni, propaganda, pubblicità, disinformazioni.

Non ultimo, insieme alla deontologia, gioca un ruolo decisivo l’etica individuale, primo argine contro una viralità farlocca che può essere sensibilmente ridotta, anche se non azzerata.

Chi dicesse che è realistico eliminarla cadrebbe nel paradosso del mentitore di Epimenide. “Tutti i Cretesi sono bugiardi”, affermava. Dimenticando di essere cretese anche lui e non sapendo di pronunciare, in un certo senso, una fake news ante litteram. Ma nessun alibi, dobbiamo fare di tutto e impegnarci ad ogni livello per rendere il dibattito sulla rete il più trasparente, aperto e pluralista possibile. Whatever it takes.   

* Il testo è un adattamento dell’intervento tenuto alla Fondazione De Gasperi il 25 marzo 2019

 

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