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È la percezione, bellezza

Il concetto di percezione è protagonista delle nostre vite. Basti pensare alla temperatura percepita, difficile da misurare empiricamente ma al centro della nostra attenzione quotidiana. Nell’economia, è ormai riconosciuto un distacco, un gap, tra l’economia degli indicatori (PIL, occupazione) e l’economia reale, quella che viene vissuta tutti giorni dai cittadini. È infatti difficile per un operaio calcolare il suo benessere in base al PIL, a favore invece di altre grandezze, come lo stipendio che “percepisce” ogni mese. Questo “vissuto” ha un impatto da non sottovalutare: un cittadino comune può farsi guidare nelle scelte di consumi e investimenti dalla cd. economia percepita e non dalla salute del PIL. Ma esiste davvero questa “altra” economia? Attraverso quali canali si è diffusa?

Tutte questioni affrontate nel volume L’Economia Percepita (Donzelli editore, 2019), scritto a quattro mani da chi misura continuamente l’impatto della percezione sui fenomeni economici, Roberto Basso (attuale Consigliere per l’informazione del Ministro dell’Economia) e Dino Pesole (editorialista del Sole 24 Ore). Il volume è stato presentato qualche giorno fa all’Università Europea di Roma dal prof. Giovanni Farese e dal sottoscritto, nell’ambito del corso di Relazioni Pubbliche Economiche e Finanziarie ed è una lettura indispensabile per chi vuole approfondire i rapporti tra informazione e politica, tra ciclo delle notizie (produzione e diffusione) e proliferazione di quelle fake news sulle quali questa rubrica è già intervenuta.

Soffermiamoci sulla prima domanda, se esiste davvero un’altra economia. La risposta è affermativa, esiste un’economia percepita ed esistono indicatori empirici della sua entità. Per esempio, l’Italia è stata a lungo in testa alla classifica del Misperception index della multinazionale Ipsos. Gli italiani “percepivano” nel 2018  la dimensione della nostra economia al 69° posto della graduatoria mondiale. Risultato? Siamo all’ 8°posto, ben 61 posizioni più in alto della percezione. Ma a questo punto un’altra domanda sorge spontanea. Questo fenomeno caratterizza solo le persone “comuni”, oppure è sviluppato anche a livello di policy maker e amministratori? La risposta sembra di nuovo affermativa, nel senso di un coinvolgimento della classe dirigente. Basti pensare alla fiducia della stessa nelle politiche fiscali e monetarie pre e post crisi del 2008 che hanno portato a quel senso di “s-fiducia” che poi si è rivelato inatteso.

Altro campo in cui è estendibile il nostro concetto è quello elettorale e dunque – in situazioni di campagna permanente di voto – politico. Il biennio 2016-2018 è stato caratterizzato da eventi difficilmente immaginabili fino al momento in cui non si sono realizzati, mettendo in luce la vulnerabilità di sistemi aperti e democratici, dove la libertà di diffusione del pensiero è valore costituzionale indiscusso e quindi non negoziabile. Basti pensare al referendum sulla Brexit, che ha visto imporsi il fronte dei brexiteers, favorevoli all’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, per un insieme di ragioni tra le quali anche l’abile propagazione di dati e notizie che un esame attento (fact checking) avrebbe condotto a ritenere quanto meno discutibili.

Viene spontaneo allora provare a rispondere alla domanda lasciata in sospeso poco fa: con quali canali e perché si è diffusa quest’altra economia, questa percezione che investe anche i fenomeni politici? Molti risultati elettorali potrebbero essere il frutto di un grosso malinteso, una incapacità comunicativa dell’élite, oppure un risultato derivante da un handicap conoscitivo, alimentato da flussi di fake news. Oppure da un mix di ragioni non univoche né semplicistiche.

Come se ne esce? Come si potrebbe porre un argine alla propagazione di post-verità e fake news?

Il dibattito con gli autori è stato vivace, con diverse proposte anche da parte degli studenti, sia dal lato dell’offerta di contenuti – tra le quali accordi di autodisciplina e verifica delle fonti da parte di produttori e piattaforme di news – sia dal lato della domanda, con la necessaria maggiore attenzione dei lettori al contesto e al background nei quali le notizie vengono create (newsmaking) e diffuse (newsmanagement). Di certo, non vi è una soluzione né unica né semplice. La democrazia ha un doppio costo: il primo riguarda quello che i giuristi definirebbero “lo Stato-apparato”, e che è conseguenza del suo essere sistema aperto e pluralista; il secondo riguarda “lo Stato-comunità”, noi cittadini che abbiamo l’onere di leggere criticamente i fenomeni che ci riguardano, informarci in modo completo e dunque, talvolta faticoso. Ma per riprendere le parole di Winston Churcill, la democrazia è la peggior forma di governo, ad eccezione di tutte le altre che si sono sperimentate finora.  

Gianfrancesco Rizzuti
(Ringrazio gli studenti partecipanti al dibattito e Alberto Cagnacci che ha contribuito al testo)

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