skip to Main Content

“E-Government e diritti fondamentali nello Stato costituzionale”, report e video del convegno dell’Accademia Italiana del Codice di Internet nell’ambito del PRIN

 

20 novembre 2015 homeIntroducendo i lavori, il Professor Alberto Gambino, Direttore del Dipartimento di Scienze Umane dell’Università Europea e Presidente dell’Accademia Italiana del Codice di Internet, ha percorso i punti salienti del PRIN del quale è coordinatore nazionale per poi fornire indicazioni sui temi principali oggetto del convegno: “I progetti di ricerca universitaria sono ormai finanziati, a ragione, solo laddove abbiano una ricaduta concreta sulla vita delle persone, aspetto valido soprattutto per quanto attiene le fasce deboli della popolazione, che spesso hanno difficoltà ad accedere ai servizi, anche quelli della Pa. Nell’ordinamento giuridico italiano la prima difficoltà nella quale si sono imbattute le unità di ricerca su questa materia è stata la classificazione legata ai temi del governo della cosa pubblica attraverso l’informatica. Quando questo PRIN fu scritto, nel 2011, eravamo in una sorta di preistoria se si pensa a quanto successo negli anni successivi fino, in sostanza, a ieri. Basti pensare ai tanti livelli sui quali si è dovuto operare, dai diversi standard e pratiche in uso da comune a comune e da territorio a territorio alla fruibilità dei dati della Pa fino alla creazione di carte elettroniche di identità e servizi. Importante anche la governance di questa transizione; provvedimenti in tal senso si ritrovano in una serie di decreti, tra i quali il Decreto Crescita, che individua nell’Agenzia per l’Italia Digitale il soggetto competente all’aggiornamento di regole per le quali non serve scomodare Governo e Parlamento. Ancora, l’identità digitale, tema sul quale l’Italia è arrivata anche prima del regolamento europeo del 23 luglio 2014, in un percorso che arriva fino allo SPID”.

Il Prof. Pasquale Costanzo, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università di Genova, ha così aperto la prima sessione “L’attuazione dell’E-Government in Italia”: “Per quanto occorra sottolineare la differenza tra E-Government ed E-Democracy, non è escluso che la Pa si possa arricchire di un plusvalore democratico proprio grazie all’E-Government. E l’Italia almeno sulla carta ha un armamento giuridico adatto a sviluppare un sistema di E-Gov di tutto rispetto”.

Dopo un passaggio sui diritti digitali intesi “in senso diverso e molto più esteso rispetto ai digital rights che abbiamo conosciuto in tema di copyright; molti di essi sono risvolti nuovi di diritti tradizionali, ma spesso anche diritti peculiari emersi con lo sviluppo delle tecnologie, basti pensare alla privacy”, Costanzo ha poi posto l’attenzione su alcuni obblighi in capo alle Pa in materia di pubblicazione dei dati: “Sarebbe utile chiarire, oltre alle ormai onnipresenti informative sui cookie, quale livello di sicurezza è garantito ai dati che si producono nel contatto tra cittadino e amministrazione. Importante, sotto un altro punto di vista, la definizione di Open Government che secondo me potrebbe rappresentare un’evoluzione dell’E-Government in quanto basata sull’apertura resa possibile dagli strumenti del web 2.0, che abilita una diversa e maggiore interazione e cooperazione con chi non fa parte della Pa”.

“La scoperta della risorsa tecnologica da parte della Pa – ha spiegato il Prof. Giuseppe Piperata, Professore di Diritto amministrativo nell’Università IUAV di Venezia – l’ha cambiata sia dal di dentro che da di fuori, soprattutto per ciò che attiene il riconoscimento effettivo di diritti pre-esistenti ma sempre rimasti latenti, dormienti. Così come è stato possibile prendere più seriamente i cardini intorno ai quali si sviluppa il principio del buon andamento, come efficienza e trasparenza, che hanno ora un significato effettivo. L’E-Government a mio avviso in Italia ha avuto due momenti di grande sviluppo: le leggi Bassanini, che per la prima volta non si limitarono ad enfatizzare il ruolo delle tecnologie nel miglioramento degli uffici pubblici ma incrociarono la possibilità di utilizzare le risorse telematiche con la possibilità delle Pa di innovare, e il CAD, che vede come obiettivo ultimo la realizzazione della cittadinanza digitale, con la Pa trasformata in amministrazione aperta. Pensiamo così alla legge Madia, nella quale questa tendenza subisce un’enfasi; rispetto al passato la fase attuale è caratterizzata da due novità: la prima, è che il processo di digitalizzazione è molto più avanzato rispetto al passato e, la seconda, è che questa dinamica ragiona in termini di integrazione, e cioè il processo di digitalizzazione si intreccia con altre politiche pubbliche e legislative importanti. Il tutto con le differenze tra gli interessi del cittadino e quelli delle imprese, con i suoi rischi e limiti, ma anche con le sue sfide e opportunità sulle quali è a mio avviso utile puntare; se volgiamo portare avanti la digitalizzazione della Pa non possiamo tuttavia sottovalutare aspetti come il digital divide e la necessità di un cambio culturale richiesto sia alle Pa che ai cittadini”.

Piperata ha inoltre richiamato il percorso di “trasformazione genetica” del concetto di trasparenza del quale aveva parlato  anche lo scorso 2 luglio in occasione del convegno “Patrimonio culturale digitale. Tra conoscenza e valorizzazione “.

Su questo punto hanno posto l’attenzione anche gli interventi successivi. Il Prof. Enrico Carloni, Professore di Diritto amministrativo nell’Università di Perugia, dopo i riferimenti al digital by default contenuto anche nella riforma Madia ha analizzato le diverse accezioni che corredano l’espressione “amministrazione aperta”: “La prima la lega alla trasparenza e a provvedimenti come il Freedom of Information Act, ma il concetto di apertura è più ampio di quello di trasparenza, perché nel secondo resta ferma la presenza di una separazione, per quanto trasparente appunto, mentre nel primo il cittadino non solo può vedere cosa accade, ma entra dentro il sistema. Un’impostazione che si ritrova ad esempio nei documenti dell’Amministrazione Obama, nella quale si esplicita il concetto di trasparenza come mera parte del più ampio insieme dell’Amministrazione aperta. Un’altra confusione terminologica e sovrapposizione da evitare è quella tra Open Data e Open Government: il primo non esaurisce l’insieme dei meccanismi e degli strumenti di partecipazione a disposizione dei cittadini. Tuttavia il concetto di trasparenza si è affermato in maniera tanto forte da confondere, comprendere ed estendersi a tutto il modello dell’Open Government. Anche in Italia è accaduto, e questo si aggiunge al fatto che il codice trasparenza del 2013 rientra in un contesto ben preciso, quello della lotta alla corruzione. Questo fa sì che la grandezza eccessiva della dimensione del controllo diffuso tenga in ombra l’altra dimensione della trasparenza, quella della partecipazione”.

E nello specifico dell’Open Data: “È chiaramente uno degli strumenti principali di realizzazione dell’Open Gov. La trasparenza come prevista dal decreto 33/2013 è un modello che pone problemi straordinari con la normativa in materia di privacy, ma comporta anche un importante cambiamento culturale, perché il cittadino viene coinvolto con un ruolo non passivo bensì collaborativo, in quella che viene chiamata Open Innovation, la capacità di chi sta fuori dall’apparato pubblico di partecipare e contribuire. Ma non si può circoscrivere l’Open Data a quanto stabilito nel 33/2013, perché esso si sviluppa non solo nel controllo diffuso, ma anche nella valorizzazione economica delle informazioni così come nelle politiche di apertura dei dati portate avanti da Agid. Ancor più importante, è che purtroppo molto spesso l’apertura di basi di dati non viene accompagnata da una adeguata valorizzazione degli stessi; il rischio è cioè che questa sfida venga portata avanti con una certa approssimazione, ma se davvero andiamo verso l’orizzonte del Data Government, dovremmo sviluppare competenze sia nelle Pa che nei cittadini perché certe informazioni sono un patrimonio”.

“Le politiche sulla trasparenza nascono ad ondate dagli anni Novanta – ha esordito il Prof.Alessandro Natalini, Ricercatore di Scienza Politica nell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” e docente nella nella Scuola Nazionale dell’Amministrazione – ma la nostra Pubblica Amministrazione si fonda sul principio della segretezza. Si è così affermata mano mano una tipologia della trasparenza, quella dell’accesso procedimentale, per poi registrare successivamente altre spinte, con il CAD e i passaggi del 2009 fino alla riforma Madia e al FOIA; si è cioè passati da una trasparenza di carattere reattivo ad una proattiva, dalla trasparenza sui documenti a quella sui dati granulari, fino ad un accesso indiscriminato e al Freedom of Information Act, appunto. Questo susseguirsi di interventi e strumenti è scandito soprattutto dall’incalzare di fattori esterni, l’amministrazione ha cioè subito il cambiamento e spesso le iniziative normative nascono da scandali e momenti in cui il livello politico ha avvertito la perdita di consenso e ha cercato di recuperare, o addirittura in momenti in cui si è avuta una sorta di commissariamento delle amministrazioni. Questi due aspetti, cioè il fatto che le norme si siano stratificate in momenti successivi e che nascono da momenti particolari, fanno sì che esse hanno sei aspetti problematici:

  1. Tanti sentieri che si biforcano ma non riescono ad incontrarsi; ad esempio per gli Open Data abbiamo oggi il lavoro di Agid, quello dell’Autorità Anti-corruzione e di altri enti ognuno dei quali ha diverse interfacce nelle PA, e non mancano scontri;
  2. Tutto è avvenuto per logica di addizione: nuovi uffici e programmi sono stati creati in assenza di una vera trasformazione e riorganizzazione;
  3. Sono state rese trasparenti le informazioni raccolte per il funzionamento delle Pa, non quelle che servivano ai cittadini, lasciando insoddisfatto un bisogno di accountability;
  4. Tutto è nato attraverso un meccanismo di prescrizione alla quale si affiancano sanzioni, il che palesa una resistenza da parte della Pa, che viene costretta a certe misure, ma è esitante. Questo ha dei costi: la trasparenza che si produce è più rigida e uniforme su aree diverse che avrebbero invece bisogno di misure, appunto, diverse;
  5. Si è introdotta una trasparenza del passato prossimo, retrospettiva, di impatto minore rispetto a quella del tempo reale;
  6. Se la trasparenza nasce per rispondere a degli scandali si orienta soprattutto a consentire il controllo, sia da parte dell’autorità sia da parte del cittadino, e a trovare le mele marce dentro l’ingranaggio: su questo è forte l’attenzione mediatica, ma gli strumenti di controllo dall’alto sono piuttosto deboli e le amministrazioni pubblicano più per la paura di essere additate come non trasparenti. Il risultato è che abbiamo assistito ad un’enorme crescita di dati su stipendi e patrimoni, molto meno sul livello dei servizi, sul loro costo e sulla loro accessibilità. Con un effetto paradossale: se noi mettiamo in luce solo quanto costa l’amministrazione senza mettere in mostra quanto produce tutto diventa una delegittimazione della Pa, che viene vista anche dal decisore come un luogo dove fare tagli e fare cassa. In altre parole, pubblicare più dati sui servizi effettivamente forniti consentirebbe di ragionare in termini diversi”.

 

“In questo – ha proseguito Natalini – la riforma Madia interviene innanzitutto sull’introduzione del principio generale di accesso ai documenti e ai dati amministrativi, il FOIA, importante perché è strumento auto-attuativo, per certi versi, e può consentire di aprire la trasparenza a bisogni informativi effettivi, che finivano per essere ridotti a ciò che veniva pubblicato sui siti; permette cioè flessibilità su bisogni del cittadino. Un secondo elemento è il tentativo di semplificare; abbiamo avuto un proliferare di portali sulla trasparenza, settoriali e poco valorizzati, che messi a sistema si potrebbero valorizzare molto meglio il patrimonio. Ma andando alla radice, io ritengo che il percorso vero da compiere prescinde dalle norme: non sono entusiasta dell’articolo 1 della riforma Madia, perché di leggi ne abbiamo viste tante mentre il problema è l’implementazione, il nostro problema è cioè trovare dei project manager per costruire una trasparenza e una digitalizzazione effettiva; spesso le norme replicano diritti già affermati, spesso per prendere tempo, ma molte cose le potremmo fare adesso, si tratta di trovare volontà politica”.

Il Prof. Mario Savino, Professore di Diritto amministrativo nell’Università della Tuscia di Viterbo, ha approfondito il percorso che ha portato al Freedom of Information Act in procinto di essere inserito nel nostro sistema normativo: “Dall’accesso procedimentale della legge 241/1990 e passando per l’accesso civico del decreto 33/2013, si arriva all’idea, diffusa ormai in Europa, che la libertà di accesso alle informazioni in possesso della Pa sia riconosciuta come diritto fondamentale. In sostanza il diritto di conoscere come previsto dall’accesso civico non riguarda tutte le informazioni in possesso dalle Pa ma solo quelle incluse nei circa 260 obblighi di pubblicazione già previsti. Da qui nasce l’assoluta inutilizzazione dell’accesso civico da parte del cittadino, che è stato praticamente assoldato come aiuto per far sì che le Pa pubblicassero ciò che dovevano già pubblicare in base a norme precedenti; non è stato cioè fatto un favore verso il cittadino, ma si è cercato di rispondere a un bisogno di compliance. Si è rivelato un fallimento clamoroso, e non è stato neanche a costo zero. La trasparenza era rimasta dunque ingabbiata in una necessità burocratica di adempiere ad una norma. Ma l’articolo 7 della riforma Madia stabilisce dei criteri che sembrerebbero andare nella direzione del FOIA imponendo quella che potrebbe essere una svolta. Il right to know non sarebbe più asservito ad obblighi di pubblicazione ma ad uno strumento di legal empowerement. Per evitare che le Pa vengano però bloccate da un overload di richieste, la pubblicazione di tutti i documenti dovrebbe diventare la norma, fatti salvi quelli cha hanno delle implicazioni in interessi diversi come quelli di pubblica sicurezza. Ma una cosa è certa: il FOIA non realizzerà magicamente dalla sera alla mattina la trasparenza che promette, servirà tempo, in pratica quella che descrive la norma non è la trasparenza di domani ma è quella, se lavoriamo come dobbiamo, di dopodomani”.

Il Prof. Manuel Fernández Salmerón, Direttore del Dipartimento di Diritto amministrativo dell’Università di Murcia, ha aperto una approfondita finestra sulla situazione dell’E-Government in Spagna, prima delle conclusioni di sessione affidate al Prof. Guido Corso, Professore di Diritto amministrativo nell’Università Europea di Roma; “Siamo passati in Italia da un approccio al diritto di accesso legato a particolari soggetti con particolari interessi, ad un accesso generalizzato. Se nel primo caso è una forma di difesa del cittadino, una estensione del principio di contraddittorio, nel secondo si ha lo scenario del controllo del cittadino nei confronti della Pa”.

La Commissione per l'esame da avvocato 2014-2015 di Roma "riunita" in via eccezionale per un brindisi in occasione del convegno. Da sinistra il presidente dell'Ordine di Roma Avv. Mauro Vaglio, l'Ispettore delegato del Ministro della Giustizia Avv. Antonio Giorgino, il Presidente della Commissione Prof. Avv. Alberto Gambino, il funzionario Responsabile della procedura Sig.ra Carla Tonnini, la Vicepresidente Avv. Maria Livia Ferrazza
La Commissione per l’esame da avvocato 2014-2015 di Roma “riunita” in via eccezionale per un brindisi in occasione del convegno.
Da sinistra il presidente dell’Ordine di Roma Avv. Mauro Vaglio, l’Ispettore delegato del Ministro della Giustizia Avv. Antonio Giorgino, il Presidente della Commissione Prof. Avv. Alberto Gambino, il funzionario Responsabile della procedura Sig.ra Carla Tonnini, la Vicepresidente Avv. Maria Livia Ferrazza

 

E-Government e tutela dei diritti fondamentali” è stato il titolo della sessione pomeridiana, presieduta e introdotta dal Prof. Raffaele Guido Rodio, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Aldo Moro di Bari: “Il problema di fondo dell’E-Government in Italia resta che la struttura ossea della Pa è rimasta la stessa negli ultimi 100 anni e non è stata assolutamente scalfita da queste innovazioni tecnologiche. Noi siamo afflitti in Italia dal problema della bulimia legislativa: le Pa non fanno più niente perché subissate di norme continuamente modificate. Nel marasma di leggi che cambiano continuamente dirigenti e dipendenti sono sempre tra l’incudine e il martello dell’essere denunciati per aver dato un provvedimento favorevole e l’essere denunciati per non averlo dato. La risposta ricorrente diventa così ‘rivolgiti al Tar‘, tanto che l’80% dei ricorsi al Tribunale amministrativo sono ricorsi contro il silenzio. Questo è il paradigma entro il quale leggere il problema”.

Seconda sessionePer Anna Papa, Professoressa di Istituzioni di Diritto pubblico nell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, “occorre chiedersi quanto la conoscenza che acquisiamo attraverso i dati contribuisca alla formazione di una democrazia compiuta. Rileva al proposito l’aggiornamento degli stessi. Libera circolazione delle informazioni è ad esempio anche l’accesso ad un’informazione strutturata, pensiamo a quella professionale, perché accanto al diritto ad informare ho il diritto di essere informata, e in modo oggettivo e imparziale. Dobbiamo chiederci: che fine faranno i dati e le notizie che stiamo liberando? Il dato pubblico è un dato importante, perché lo consideriamo attendibile in partenza; si è detto che le Pa hanno grandi giacimenti di dati che ci portano a pensare che Open Data e libera circolazione dei dati pubblici possano essere considerati la stessa cosa. Chi ha parlato prima di me ha sottolineato che sono cose ben diverse, anche perché noi agli Open Data dobbiamo guardare come risorsa economica, possiamo cioè porci il problema se ci debba essere una remunerazione sociale e/o economica, e le direttive europee e i decreti sul riuso dei dati pubblici sembrano aprire ad un’utilizzazione economica dei dati. Dati che devono essere il più possibile anonimizzati e aggregati, filone diverso dalla libera circolazione delle informazioni”.

Ricordando che “in Parlamento da due anni rimbalza tra le Camere un disegno di legge che vorrebbe equiparare testate online e testate cartacee senza che si riesca ad approvare”, Papa ha proseguito: “Ma quando noi parliamo di un utilizzo di dati personali da parte di un giornalista, ancora facciamo differenza tra giornalisti professionisti e non, perché nel primo caso abbiamo la ragionevole aspettativa che il lavoro di divulgazione sarà fatto rispettando continenza, pertinenza e attendibilità; allora cosa potrebbe accadere se questi dati, raccolti anche con l’accesso civico, venissero presi, riutilizzati e pubblicati dove ne perdiamo il controllo? Se vengono pubblicati su testate registrate abbiamo la ragionevole aspettative che ci sarà il bilanciamento previsto dalla giurisprudenza, ma nelle forme di giornalismo partecipativo, cosa potrebbe accadere? E allora mi chiedo: perché il soggetto i cui dati vengono richiesti non debba essere informato nel momento in cui i suoi dati vengono, appunto, richiesti? E che tipo di tutela c’è per tutte le forme di giornalismo, diciamo così, non convenzionali? Ecco che è necessaria anche una rivisitazione delle regole del giornalismo oltre a quelle relative alla circolazione delle informazioni. È un discorso di tutela del singolo di fronte all’attività di soggetti che legittimamente raccolgono e usano dati ma che devono anche rendere conto ai soggetti e alla comunità della correttezza della loro attività”.

Il Prof. Giorgio Resta, Professore di Diritto comparato nell’Università Aldo Moro di Bari, ha iniziato il suo intervento richiamando il caso Schrems alla base della sentenza con la quale la Corte di Giustizia Europea ha recentemente invalidato il Safe Harbour che regolava il trasferimento dei dati personali dei cittadini europei negli Usa: “Abbiamo tradizionalmente costruito, nei Paesi europei e negli Usa, la disciplina sulla protezione dei dati in un contesto verticale e bilaterale, cioè avendo in mente l’amministrazione che raccoglie dati per fornire servizi, cornice nella quale bisognava tutelare il cittadino da eventuali abusi della Pa che raccoglieva dati con pochi grandi elaboratori. Una fase nella quale tra le due sponde dell’Atlantico c’era una sostanziale consonanza. Vicende come quella di Schrems ci dimostrano che in questa fase storica il rapporto diventa triangolare; l’assetto è entrato in crisi per una serie di ragioni, alcune di carattere tecnologico, altre di carattere politico. Sul primo fronte, valgano le espressioni ormai di moda big data e datification. E quel rapporto verticale diventa trilaterale o triangolare, perché i dati sono raccolti e strutturati all’interno dei relazioni tra soggetti privati, mentre ad essi la Pa ha accesso non direttamente ma attraverso l’intermediazione di altri soggetti privati. Questo ha delle conseguenze: innanzitutto per chi è preposto alla conservazione del dato; ma si crea soprattutto un problema dal lato del soggetto a cui quei dati si riferiscono, il quale non è sempre consapevole che i dati ceduti al privato passeranno poi al pubblico, dinamica dalla quale scaturisce anche un controllo sociale non preventivato”.

Resta ha sottolineato così due fasi di conflitti che si sono aperti tra le due sponde dell’Atlantico: “La prima è sul livello dei dati trattati dai privati, e che si era risolta nel Safe Harbour. La seconda, sull’accesso del potere pubblico a quegli stessi dati”. E sulle recenti sentenze della Corte di Giustizia Europea, con particolare attenzione a quella sulla data retention: “L’insegnamento che ne deriva è sulla necessità di mutare le forme di tutela”.

IMG_6371Valeria Falce, Professore di Diritto commerciale nell’Università Europea di Roma, ha concentrato la sua attenzione sul rapporto tra libertà d’informazione, libertà di ricerca e tutela del diritto d’autore: “È un rapporto in cerca di una nuova composizione, che tende oggi ad indirizzarsi verso direttrici diverse. Le più recenti novità sono quelle appunto rivolte al rinnovamento e alla modernizzazione del diritto d’autore per confrontarsi con la cosiddetta disruption digitale, la modifica e rivoluzione epocale inaugurata dalle nuove tecnologie. Quali sono le direttrici lungo le quali si muove la proposta di rinnovamento e modernizzazione? Il primo binario è di natura territoriale: il diritto d’autore nasce come istituto nazionale, ed è obsoleto rispetto alla dimensione della rete che è transnazionale e globale. Il secondo profilo è il contemperamento con altre esigenze, il che porta dunque all’intreccio tra ricerca, informazione e diritto d’autore”.

In chiusura la menzione per la proposta sullo European Copyright Code: “Non sarebbe un trattato vincolante ma modello per l’armonizzazione del diritto d’autore. Tra i temi toccati, quello dell’accesso pagante, che per altre finalità nel nostro sistema è stato codificato come equo compenso”.

Il Dott. Marcello D’Ambrosio, Ricercatore di Diritto privato nell’Università di Salerno, ha successivamente proposto un approfondimento sul diritto all’oblio e sul difficile rapporto con gli altri diritti in gioco, richiamando la storica sentenza della Corte di Giustizia Europea sul caso Costeja e il dibattito tra Cassazione e Garante privacy a seguito della decisione della Suprema Corte di pubblicare sul proprio sito tutti i pronunciamenti in sede civile: “È questo un esemplare banco di prova dell’influenza del diritto all’oblio come lo possiamo intendere al giorno d’oggi e sul suo rapporto con il diritto all’informazione e il processo di informatizzazione del processo statale. Credo che il legislatore nazionale e quello europeo dovrebbero ragionevolmente prendere atto che l’oblio non può realizzarsi sempre e ad ogni costo”.

Il contesto francese e il rapporto tra E-Government e tutela dei dati personali nel Paese transalpino sono finiti poi sotto la lente della Dott.ssa Eleonora Paris, Dottore di ricerca dell’Università di Teramo: “Ovviamente, ci aspettiamo forti cambiamenti nella materia a seguito dei tragici fatti della scorsa settimana”.

fotoIl Dott. Davide Mula, Dottore di ricerca dell’Università Europea di Roma, ha esaminato il rapporto tra gli Open Data e l’iniziativa economica: “È necessario chiarire cosa si intende per Open Data, perché l’apertura è in una duplice accezione, una più tecnica e una focalizzata sul riutilizzo come concesso dallo strumento contrattuale che la singola amministrazione decide di utilizzare nel licenziare i dati pubblicati. Importante sottolineare che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di una amministrazione può considerarsi Open Data. Ma come si identifica il titolare di un dato? È opportuno operare le giuste distinzioni di fronte alla sovrapposizione tra titolare del trattamento del dato e titolare del dato; quest’ultimo può essere l’amministrazione che forma il dato, quella che detiene il dato formato da un altro soggetto o quella che, ipotesi residuale, dispone del dato”.

Bisogna ora interrogarsi – ha proseguito Mula – su quale sia l’attuale potere discrezionale dell’amministrazione; prima dell’intervento della direttiva del 2013 le amministrazioni locali avevano un potere sicuramente ampio perché potevano decidere se e cosa pubblicare all’interno della veste di Open Data, oggi questo potere viene ridotto perché ai sensi della nuova direttiva tutto ciò che viene pubblicato sul sito di una Pa è soggetto alla disciplina. Alle amministrazioni residua il potere di definire modalità tecniche e licenze d’uso. Le prime sono calate in relazione alla natura del dato. Sussistono ovviamente dei limiti non superabili nell’attività di pubblicazione da parte di una Pa: il decreto 36/2006 individuava i limiti, già previsti dalla legge 241/90, in relazione al diritto di accesso da parte dei cittadini, ancor più i limiti derivanti dal codice privacy e quelli derivanti da segreto industriale e riservatezza commerciale. Si evidenzia come in realtà il vero strumento di cui dispongono le amministrazioni per favorire la libertà di iniziativa economica risieda nella scelta della licenza: la nuova direttiva ribadisce che si presume che tutte le licenze siano concesse a titolo gratuito o che contemplino un ritorno economico per i soli costi sostenuti realmente per la pubblicazione dei dati o che, ancora, per musei e biblioteche che si possano coprire i costi sostenuti per offrire il servizio in termini di investimento. La normativa di riferimento individua prevalentemente due tipologie di licenze: una che impone al riutilizzatore di indicare la paternità del dato e una che impone non solo la citazione del dato pubblicato ma anche di rilicenziare i dati elaborati con modalità analogamente aperte e favorenti un riuso tendente all’infinito. Vale la pena affrontare il tema dell’Open Data by default: rappresenta un principio introdotto nel 2012 con una riforma calzante volta a tentare di colmare quel gap derivante dalla omissioni di molte Pa che di fatto si sono trovate a svolgere una mansione in più a parità di organico e in fase di tagli della spesa pubblica; si prevede così che nel caso in cui una Pa pubblichi un dato sul proprio sito senza specificare la licenza, automaticamente il riutilizzatore ha il diritto a riusare i dati senza alcun vincolo. È evidente come in realtà questo principio si scontri con quella che vuole essere la prospettiva di analisi e di crescita dell’economia fondata sugli Open Data, che non è limitata all’ambito nazionale, perché un riutilizzatore straniero che non ha una sede in Italia potrebbe non conoscere questa disposizione e potrebbe decidere di non considerare questi dati per evitare il rischio di correre in sanzioni giudiziarie per indebito utilizzo. A maggior ragione si rileva l’opportunità che le amministrazioni indichino con quali licenze vengono concessi i dati”.

Sulle modalità tecniche – ha spiegato ancora Mula – il legislatore ha affidato all’Agenzia per l’Italia Digitale il compito di indicare quali siano i parametri, e l’Agid ne ha indicati in sostanza due: interoperabilità della licenza, soprattutto in termini transfrontalieri, e massima apertura al riutilizzo. Un terzo parametro è stato invece secondo me trascurato dall’Agenzia: la valutazione, in capo all’amministrazione, di tarare la licenza in relazione alle modalità concrete di rielaborazione dei dati pubblicati. Da un punto di vista tecnico, infatti, l’Open Data può andare da un livello minimo che prevede un dato semplicemente scaricabile e che deve essere elaborato dall’uomo dall’inizio alla fine, a un livello massimo che, grazie all’attività dell’amministrazione, permette di rielaborare il dato senza il fattore umano. Dunque, il riutilizzatore dovrebbe avere la possibilità di un ritorno economico nella misura in cui caratterizza la valenza economica del dato stesso con le sue risorse, mentre nell’ipotesi in cui il dato sia fornito non solo in maniera aggregata e sistematizzata ma anche arricchita tanto da permettere al riutilizzatore di fare un lavoro molto semplice per creare valore economico, è evidente l’opportunità che l’amministrazione imponga che anche i lavori a valle siano rilicenziati in maniera aperta così da creare quel sistema virtuoso di incentivo”.

A tirare le conclusioni della giornata è stato il Prof. Filippo Vari, Ordinario di Diritto costituzionale nell’Università Europea di Roma: “Personalmente insieme ad un collega francese fui tra i promotori di un istituto europeo che si inserisce nell’ambito del dialogo tra amministrazioni dell’Ue e cittadini, e che puntava a consentire ai cittadini di presentare alla Commissione proposte sulle quali pensano ci sia bisogno di un azione dell’Unione per dare attuazione ai trattati. Il tutto in un dialogo che si sviluppa in forma telematica; parliamo della tecnologia che si mette a disposizione di diritti fondamentali, nello specifico dell’azione politica, ma la mia esperienza in merito è stata pessima: un imponente sforzo organizzativo per raccogliere due milioni di firme su scala continentale, mentre la Commissione si è limitata a respingere la richiesta sostenendo che il quadro comunitario fosse sufficiente. La vicenda dimostra come non soltanto è importante ricorrere alle nuove tecnologie per garantire diritti fondamentali, ma come questo non sia neanche sufficiente se alla semplificazione del rapporto tra cittadino e PA non si accompagna una evoluzione della normativa volta a modificare il comportamento delle amministrazioni così da dare più potere al cittadino nei confronti del funzionamento delle amministrazioni stesse”.

“Mi sembra sia emerso in maniera chiarissima – ha spiegato Vari – come l’impatto dell’E-Government sui diritti fondamentali avvenga in tre modi fondamentali:

1) Quella legato al diritto d’accesso e alla garanzia dei diritti di libertà: come diceva il Prof. Costanzo, c’è un problema di diritti fondamentali nella realizzazione della digitalizzazione. Occorre stare attenti in questa opera di modernizzazione affinché essa non si risolva in una lesione del diritto all’uguaglianza;

2) Il problema della restrizione dei diritti fondamentali che le tecnologie rischiano di imporre, pensiamo a quanto spiegato sulla necessità di imporre nei rapporti tra privati standard che garantiscano i diritti stessi, oppure pensiamo a quanto diceva la Prof.ssa Papa;

3) La necessità di costituire uno strumento non di limitazione di diritti fondamentali ma di sfruttamento delle ICT proprio per garantire quella tutela; in questo senso, la possibilità di sfruttare le tecnologie per semplificare il rapporto tra cittadini, imprese e Pa non serve a nulla se non si passa a una valorizzazione della partecipazione dei cittadini. L’E-Government, in sostanza, incide se la PA si struttura con modelli organizzativi nuovi e una maggiore centralità della persona e dell’esercizio della sovranità popolare. Qui però tocchiamo un profilo più ampio legato alla democraticità del sistema. Cuniberti ci dice che bisogna guardarci bene dall’attribuire alla rete delle virtù fisse, così come occorre stare attenti all’estremo opposto, che vede l’enfasi solo sui pericoli. Ogni tecnologia non può essere considerata neutra ma allo stesso tempo va considerata nel contesto storico, economico, sociale e politico nel quale si inserisce e si usa. Ci sono stati alcuni autori negli Usa che, in maniera poco accorta, hanno provato a sostenere che grazie all’introduzione di questi strumenti di dialogo con la Pa di fatto ci si appresti a superare la democrazia rappresentativa, tendenza che si percepisce anche in alcuni fenomeni di antipolitica; mi sembra che le considerazioni sentite quest’oggi dimostrino il contrario: alla base c’è di sicuro l’idea che la Pa si debba riorganizzare, ma comunque all’interno dei parametri dello stato costituzionale che oggi non può che essere rappresentativo. Al punto tale che anche in relazione agli strumenti avanzati in materia di partecipazione civica bisogna tenere a mente le considerazioni di Luciani sul referendum, che non è a sua detta uno strumento di democrazia diretta bensì di contropotere comunque inserito all’interno della cornice rappresentativa. E parafrasando quanto diceva Carlo Esposito, non è sufficiente digitalizzare la Pa per garantire una maggiore democratizzazione del sistema pubblico, ma perché ciò avvenga è indispensabile sempre e comunque garantire in prima istanza determinati diritti”.

Italian Digital Day, online le Linee Guida di design per i siti web della pubblica amministrazione. Madia: “Entro Natale decreto su Foia”

23 novembre 2015

Back To Top